STUPIDA RAZZA

martedì 27 dicembre 2022

L’anno dei falchi: le banche centrali globali alzano i tassi 137 volte

 

Dopo anni di tassi zero, l’inflazione ha costretto le banche centrali alla stretta e gli istituti di credito sono intervenuti di conseguenza: guardando le maggiori 26 banche centrali del mondo, ben 22 quest’anno hanno alzato i tassi d’interesse per un totale di 137 volte, aumentando il costo del denaro di 3,75 punti percentuali medi a testa.Ci eravamo quasi convinti che le banche centrali avrebbero lasciato i tassi a zero, sotto zero o comunque ai minimi termini, per sempre. Qualcuno accarezzava l’idea che la monetizzazione del debito e la spesa pubblica da Bengodi potessero durare in eterno. «Sarà per sempre Natale», come cantava Lucio Dalla. «E festa tutto l’anno». Sembrava una «nuova» (e comoda) normalità. Ma era troppo bello per essere vero: il 2022, anno che ha risvegliato il fantasma dell’inflazione, ha regalato a tutti una doccia fredda. Improvvisamente quasi tutte le banche centrali del mondo hanno iniziato a rialzare i tassi d’interesse come se non ci fosse un domani. Chi oggi punta il dito sulla Bce e sulla presidentessa Christine Lagarde, “colpevole” di danneggiare Paesi come l’Italia con i suoi aumenti del costo del denaro, sappia che non è la sola: guardando le maggiori 26 banche centrali del mondo (dagli Stati Uniti alla Polonia), ben 22 quest’anno hanno alzato i tassi d’interesse. In totale l’hanno fatto 137 volte: in media 6,2 volte a testa, cioè - facendo un conto grossolano ma che rende l’idea - un mese sì e uno no. Tutte insieme hanno aumentato il costo del denaro in totale di 82,6 punti percentuali, il che significa 3,75 punti percentuali medi a testa. Non solo: tante di loro hanno anche iniziato (o come la Bce hanno annunciato di farlo a breve) la riduzione del bilancio. Questo significa che stanno riducendo piano piano i titoli di Stato che avevano comprato durante le politiche ultra-espansive degli anni passati, drenando liquidità. Qui i numeri sono (per ora) piccoli, dato che molte banche centrali hanno appena iniziato la retromarcia o l’hanno solo annunciata. Ma ugualmente il trend è segnato: il bilancio della Federal Reserve Usa a gennaio ammontava a 8.750 miliardi di dollari, mentre ora è sceso a 8.580. Quello della Bce è aumentato, ma Christine Lagarde ha annunciato la riduzione a partire da marzo 2023. E in generale la liquidità globale (misurata in dollari e guardando l’aggregato M2) , tra alti e bassi dovuti anche all’effetto cambio è calata dal massimo di 103.783 miliardi di dollari a 100.480: una riduzione di 3.300 miliardi di dollari. Ed è solo l’inizio. Tassi più alti e liquidità meno abbondante, insomma: è questa la medicina amara e globale che le banche centrali stanno somministrando per combattere il nuovo virus che si è propagato nel mondo. L’inflazione. La grande stretta globale Dopo circa 15 anni di tassi bassissimi e di «quantitative easing», giustificati dalla scomparsa dell’inflazione, il mondo è dunque improvvisamente cambiato nel 2022. Un po’ perché la domanda dei consumatori si è improvvisamente svegliata dopo i lockdown del 2020-21 e un po’ perché l’offerta di beni non è riuscita a stare al passo (a causa delle catene globali delle forniture a singhiozzo e di fabbriche non pronte a soddisfare una domanda esplosa improvvisamente) l’inflazione nel 2022 si è impennata ovunque. Sin da inizio anno. Sin dal 2021, in realtà. Quando poi la Russia ha invaso l’Ucraina a febbraio, causando la più grande crisi energetica degli ultimi decenni con prezzi del gas schizzati in alzo, il “pacchetto” è stato completato: l’inflazione ha raggiunto vette che non si vedevano dagli anni ’70. In molti Paesi (Europa e Italia incluse) a due cifre. Le banche centrali non potevano che intervenire. L’inflazione è infatti la peggiore delle “tasse” perché colpisce soprattutto le classi sociali più povere, quelle per cui un aumento dei prezzi segna il confine tra il mangiare e il non mangiare. Così le Banche centrali hanno somministrato al mondo la più amara delle medicine: il rialzo dei tassi e la riduzione della liquidità. L’obiettivo è rendere i prestiti più cari e disincentivare i consumi. Frenando l’economia. Fino alla recessione. Questa è, in fin dei conti, la principale cura universalmente riconosciuta per l’inflazione: se i consumi calano, anche i prezzi calano. Oggi tutti guardano alle banche centrali con preoccupazione per la velocità di questa manovra globale, ma il problema è che le stesse banche centrali hanno aspettato troppo ad agire: credendo per molti mesi che l’inflazione fosse solo «temporanea» (a causa di previsioni sbagliate ma forse anche di un’illusione collettiva), hanno temporeggiato. L’ha fatto la Federal Reserve Usa. L’ha fatto la Banca centrale europea. Poi, quando si sono accorti che l’inflazione non era affatto «temporanea», i banchieri centrali sono corsi ai ripari con una velocità che ha pochi precedenti nella storia. Solo quattro Banche centrali (tra le maggiori 26 del mondo) si sono mosse in controtendenza: quelle di Cina (che ha lievemente tagliato i tassi nel 2022), di Giappone e Indonesia (che sono rimaste ferme) e quella della Turchia. Sebbene qui l’inflazione sia arrivata all’85,5%, la banca centrale (etrodiretta dal presidente Erdogan) ha tagliato i tassi dal 13% al 9% nel corso dell’anno.Le conseguenze della stretta La prima domanda da porsi è se questa medicina, amara, avrà effetto. Negli Stati Uniti l’inflazione sta in effetti già scendendo un po’ (a dicembre è calata al 7,1% dal precedente 7,6%), mentre in Europa si vede solo qualche irrisoria limatura. Ma se oltreoceano il caro-vita è in gran parte dovuto al surriscaldamento dei consumi (dunque gelandoli la Fed può sperare di uccidere il caro-vita), in Europa due terzi dell’inflazione sono invece dovuti al caro-energia. Questo rischia di rendere meno efficace la medicina nel Vecchio continente, anche se pur sempre necessaria per calmare anche l’”altra” inflazione: quella (sempre troppo alta) che esclude l’energia e gli alimentari. Il problema è che la medicina avrà degli effetti collaterali. Il primo, ormai praticamente inevitabile, è la recessione economica. O comunque un brusco rallentamento. Ma ce ne potrebbero essere ulteriori. Un mondo che ha vissuto con tassi a zero per più di un decennio, che ha un indebitamento da record e che ha un sistema finanziario gigantesco costruito quando i tassi erano a zero, quanto a lungo potrà resistere con il costo del denaro sempre più elevato? È vero che oggi resta ben più basso di quello visto non troppi decenni fa. Ma è anche vero che oggi il mondo è diverso da quello degli anni ’70 e ’80: i debiti (pubblici e privati) sono molto maggiori e sono stati accesi in un contesto di tassi bassi che li rendevano sostenibili. Anche il sistema finanziario globale (con una grande quantità di leva) è stato costruito in un contesto diverso da quello di oggi. L’effetto spiazzamento rischia di essere simile a quello di chi prepara le valigie per andare al mare e invece finisce in alta montagna: l’abbigliamento non va più bene. La domanda che tutti si pongono, guardando al 2023, è dunque una sola: per quanto tempo si può resistere in alta montagna con costumi, pinne e magliette? Fuor di metafora: quanto a lungo possono resistere il mondo e i mercati finanziari in un contesto così diverso da quello a cui erano abituati e in cui credevano di restare ancora per molto tempo? Le prossime mosse Anche perché non è finita qui. Le banche centrali hanno comunicato, più o meno tutte, che continueranno nella stretta monetaria. Nel 2023 si farà molto più sul serio sulla riduzione dei bilanci (e dunque dei titoli acquistati negli anni passati). Ma anche i tassi saliranno ancora. Sia la Fed sia la Bce (soprattutto quest’ultima) l’hanno detto senza mezzi termini. Siamo all’inizio di un tragitto. Il traguardo? Ancora lontano. Soprattutto in Europa.

Autotrasporto merci a rischio stop, caccia a 17mila camionisti

 

Confetra lancia un’allerta sul trasporto su strada, penalizzato dalla carenza di autisti, e su ferrovia, colpito anche dall’aumento dei prezzi dell’energia (con un extracosto di circa 100 milioni di euro nel 2022): secondo l’associazione di logistica servono nuove politiche sull’intermodalità, all’interno di una strategia complessiva per il Paese sulla movimentazione delle merci. Mentre il Pnrr, pur molto utile a livello di interventi infrastrutturali, appare insufficiente per le esigenze di digitalizzazione delle imprese del settore logistico, perché, a queste ultime, sono riservati, nel piano nazionale, solo 190 milioni circa. A suonare il campanello d’allarme, dati alla mano, è il presidente di Confetra, Carlo De Ruvo. «In Italia – afferma - il settore dell'autotrasporto merci in conto terzi presenta ancora un’offerta eccessivamente polverizzata. Delle quasi 109mila imprese del settore logistico, iscritte alla Camera di commercio, quasi il 70% è rappresentato da aziende di trasporto merci su strada e, fra queste, oltre l’80% è composto da società non di capitali. Per le aziende strutturate è, inoltre, ormai pressante la problematica della penuria di autisti. Il report annuale International Road Transport Union mostra una crisi di questo lavoro a livello globale». In effetti, i dati del documento mostrano che, globalmente, a fine 2022, manca circa il 40% degli autisti che servirebbero al mondo dei trasporti. L’Europa, peraltro, risulta allineata con questo dato: manca, infatti, il 40% degli autisti, rispetto alle richieste del mercato del lavoro. In Italia, poi, secondo le stime riportate da Confetra, nell’immediato servirebbero almeno 5mila guidatori di Tir, una cifra che salirebbe a quota 17mila, se proiettata nel prossimo biennio; e molti analisti stimano che questo numero crescerà ancora negli anni a venire. E sul tema degli autisti che mancano, De Ruvo sottolinea che «per rendere più attrattiva una professione dove gli italiani sono ormai pochissimi bisognerebbe, intanto, migliorare i tempi di attesa per scaricare e caricare le merci nei porti, negli aeroporti e anche nelle aziende clienti della logistica. Ma occorre anche investire in infrastrutture per le soste che siano efficienti e dignitose. Altrimenti come può un giovane essere interessato, con la prospettiva di lunghe ore di attesa sotto il sole o al freddo dell'inverno?». A fronte di questa situazione, sottolinea De Ruvo, «diventa sempre più importante l’intermodalità con l’utilizzo della ferrovia. Il mare deve essere collegato a terra anche col treno. Invece, la quota della modalità ferroviaria per il cargo, in Italia, è ancora bassa: circa 13%, contro la media europea del 19%; ed è molto lontana dall’obiettivo del 30%, da raggiungere entro il 2030 secondo il green deal della Commissione europea. Non solo. Si sussidia l’autotrasporto e si ignora il fatto che le aziende ferroviarie sono energivore. Le società private del settore prendono energia da Rfi e non è stato loro riconosciuto il beneficio del credito d'imposta. Ma se si danno sussidi all’autotrasporto e non ai treni, si va anche contro il processo di decarbonizzazione di cui tanto si parla». Proprio su questo punto Fercargo, associata di Confetra, ha scritto al ministro dei Trasporti, Matteo Salvini e al viceministro Edoardo Rixi. «Nel settore ferroviario – si legge nella missiva - gli incrementi del costo dell'energia elettrica hanno raggiunto, nel mese di settembre 2022, punte del 540%; ad oggi si sono attestati intorno al 430%. Questi incrementi, se applicati agli oltre 50 milioni di chilometri percorsi da treni merci sulla rete ferroviaria nazionale italiana, previsti per l’intero 2022, possono essere quantificati in un extracosto di circa 100 milioni di euro nel 2022, rispetto all’anno precedente; una cifra che né le imprese ferroviarie né il mercato sono assolutamente in condizione di assorbire». Secondo De Ruvo, occorre puntare sull’intermodalità, incrementando il trasporto su ferro, per far uscire in fretta «le merci dai porti e farle arrivare negli interporti. La riforma della legge portuale del 2016 è stata attuata, per molti aspetti, solo parzialmente e manca una strategia nazionale per la portualità e, in generale, per il trasporto delle merci. In Italia abbiamo 26 interporti ed è essenziale collegarli in modo efficiente alle banchine.

Russia pronta a ridare gas all’Eur opa Kiev punta a summit di pace all’Onu

 



Vladimir Puti n si dichiara pronto ai negoziati, ma accusa l’Occidente di non voler scegliere la strada delle trattative. Il vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo M e dve d ev, intanto, avverte che l’«opera - zione speciale» verrà terminata e si guadagna una nuova nomina. «La Russia non risparmierà nessuno sforzo per abbattere il regime nazionalista di Kiev», ha affermato M e dve d ev. Puti n lo ha nominato suo vice nella Commissione militare-industriale - organo permanente che organizza e coordina le attività degli organismi esecutivi federali nell’attuazione della politica statale sulle questioni militari-industriali - e dunque potrà tenere riunioni per conto del presidente russo e avrà il diritto di «creare consigli e gruppi di lavoro nelle aree di attività della Commissione per esaminare questioni di sua competenza e preparare proposte per la loro soluzione». Kiev teme che questa sia la conferma di quanto l’Uc ra i n a teme per il futuro: i generali di Z el e n s ky credono che la Russia stia ammassando truppe e armi per una nuova offensiva invernale. Un attacco su vasta scala dal Donbass, da Sud o anche dalla Bielorussia potrebbe essere sferrato già a gennaio o al massimo in primavera, secondo gli ucraini. Puti n ha però nuovamente assicurato che la Russia è pronta a negoziare, accusando invece Kiev e i suoi alleati occidentali di «rifiutarsi» di fare altrettanto. Il ministro degli Esteri russo L av rov gli fa eco: «Zelen - s ky e i suoi padroni non vogliono compromessi che mettano fine alla guerra». Dall’a l tra parte, il ministro degli Esteri uc ra i n o, Dmytro Kuleba, ha riferito che l’Ucraina punta ad avere un summit di pace entro fine febbraio, preferibilmente alle Nazioni unite e con il segretario generale Antonio Gute r re s come possibile mediatore, più o meno nel periodo dell’anniversario dell’i n i z io della guerra da parte della Ru s s i a . Puti n ha poi parlato, in relazione alle azioni dell’Occiden - te, di «una guerra economica», basandosi anche sul fatto che gli ambasciatori all’Ue hanno raggiunto un accordo sul nono pacchetto di sanzioni contro Mosca. Nonostante questo, la Russia si dichiara pronta a riprendere le forniture di gas all’Europa attraverso il gasdotto Yamal-Europe, come annunciato dal vice primo ministro russo Alexander Nova k . «Il mercato europeo rimane rilevante, poiché la carenza di gas persiste e abbiamo tutte le opportunità per riprendere le forniture. Ad esempio, il gasdotto YamalEurope, che è stato fermato per motivi politici, rimane inutilizzato», ha detto Nova k , secondo il quale in 11 mesi del 2022 le forniture di gas naturale liquefatto sono aumentate a 19,4 miliardi di metri cubi, con una previsione di 21 miliardi entro fine anno. «Continuiamo a vedere l’Europa come un potenziale mercato dei nostri prodotti. È chiaro tuttavia che contro di noi è stata avviata una campagna su larga scala, che si è conclusa con il sabotaggio del Nord Stream», ha dichiarato ancora, aggiungendo che Mosca sta discutendo ulteriori forniture di gas attraverso la Turchia dopo la creazione di un hub nel Paese di E rd oga n . Il presidente turco, che gode sempre di più della fiducia di Mosca, ha asserito che anche secondo lui l’Occi - dente non fa altro che provocare e non cerca davvero una m e d i a z io n e. Poiché E rd oga n viene visto da Kiev come sempre più vicino a Mosca, il presidente ucraino Zele nsky cerca una sponda nell’India: in una conversazione telefonica con il premier indiano Nare ndra Modi, ha detto di «contare sulla partecipazione» del suo Paese «all’applicazione della formula di pace ucraina, annunciata al G20» di Bali. Vla - dimir Putin avrà invece un colloquio con Xi J i n pi n g e ntro la fine dell’anno: la strada è stata preparata dal fidato Me dve d ev, che aveva incontrato X i a Pechino la scorsa settimana. L’Ucraina ha invece chiesto l’esclusione della Russia dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. «Abbiamo una domanda molto semplice: la Russia ha il diritto di rimanere un membro permanente del Consiglio di sicurezza e di far parte dell’Onu? Abbiamo una risposta convincente e ragionata: no, non lo ha», ha affermato il mi - nistro degli Esteri Dmy tro Ku - l e ba . Sul campo si continua intanto a morire. L’Ucraina ha vissuto un Natale di sangue, nel quale bombardamenti e distruzione non si sono fermati, con la Russia che ha lanciato oltre 40 attacchi missilistici nel giorno di festa. L’al - larme aereo è risuonato in tutta la Nazione, a cominciare dalle regioni di Kiev e Leopoli. Proprio a Natale un caccia intercettore supersonico russo ha preso fuoco nell’ae roporto di Machulyshchy, in Bielorussia. Il MiG-31K può trasportare missili ipersonici Kinzhal. Il velivolo farebbe parte dei caccia schierati dalla Russia negli aeroporti dell’al - leato. Subito dopo si sarebbe alzato in volo un MiG-31K dell’aeronautica russa, che può trasportare missili Dagger equipaggiati con testate nucleari. Tre persone hanno invece perso la vita ieri in Russia a seguito dell’attacco di un drone ucraino nella regione di Sa ratov. Intanto nel Donbass, secondo quanto riferito dal capo d e l l’amministrazione militare regionale di Lugansk, Serg y G a id a i , battaglie sono in corso a Kreminna, con le truppe ucraine «non lontane» dalla città. «Il comando militare della Federazione Russa si è già trasferito da questa città a Rubizhny», ha aggiunto Gai - dai, sottolineando che è segno che la Russia potrebbe prepararsi a ritirarsi. Le autorità hanno esortato i residenti di Kherson, nel Sud, ad evacuare a causa dell’intensificarsi dei bombardamenti russi e Ukrenergo, operatore della rete elettrica ucraina, ha annunciato blackout d’emergenza in diverse regioni del Paese.

Caro Guerri, attenzione ad Harari È lui l’ideologo del Grande reset

 

Ho letto con piacere ed attenzione la bella intervista rilasciata a Maurizio Caverzan da Giordano Bruno Guerri. È un insieme di affermazioni di buon senso con cui non si può non essere d’accordo. Ma c’è un punto che mi ha stupito. Guerri si dice affascinato, tra gli autori moderni, dai libri di Yuval Noah Harari. Identifica Harari con autore letterario, mentre per me è molto di più. È l’auto re del copione che da tre anni va in onda nella vita reale ad opera del World Economic Forum. È il teorico del futuro che ci aspetta a breve. È un utopista con una differenza fondamentale rispetto a tutti gli altri utopisti della storia. Le loro fantasie erano ambientate in un «non luogo» (utopia) a testimonianza del fatto che il loro stesso autore le riteneva irrealizzabili. L’utopia di Ha - ra r i si chiama Grande Reset, ed è in corso di attuazione, a tappe forzate, a partire dalla famosa pandemia che K l au s S chwa b ha definito un’occa - sione irripetibile di cambiamento del mondo. K l au s S chwa b esprime questo concetto nel suo libro più famoso Covid-19 The Great reset, scritto a quattro mani con Thierry Mallaret. E descrive invece nel dettaglio la natura di questo cambiamento in u n’opera precedente (La quarta rivoluzione industrial e, con prefazione, nell’e d izione italiana, di John Elka n n) e successiva (Governa - re la quarta rivoluzione indust riale ) in cui si parla apertamente di fusione della natura umana con l’intelligenza artificiale emergente. Ciò sarebbe possibile con un’agenda dì digitalizzazione che i governi di tutto il mondo hanno recepito e fatto propria. Due temi, l’agenda digitale e l’a ge nd a verde, sono al centro del cambiamento epocale in atto sul pianeta. L’uomo deve cambiare la sua stessa natura diventando dipendente dall’agen - da digitale. Contestualmente deve ridimensionare i suoi consumi alimentari ed energetici per limitare un riscaldamento globale che le élite ritengono incontestabile, ma che molti esimi scienziati ritengono invece pretestuoso. Ma cosa c’entra Yuval Noah H arar i con Klaus Schwab? S chwa b non è abbastanza rassicurante. C’è in S chwa b, nel suo accento tedesco, nella sua postura rigida e quasi militare, qualcosa di inquietante. Ed ecco che, nel tempo, l’im - maginifico H a ra r i ha sempre più conquistato il centro della scena ed è diventata la voce ufficiale dei forum di Davos. D’altronde H a ra r i non è uno scrittore come gli altri. Il suo successo è il risultato della sua identificazione col sistema. I suoi libri sono best sellers assoluti ed hanno stampato milioni di copie in tutti i paesi del mondo. Il suo libro Sapiens. Breve storia dell’uma nità è stato tradotto in trenta lingue. Il successivo, Homo deus, ha avuto una visibilità ed un rilievo anche maggiore. Ma non si tratta di un caso: il sistema lo impone. H a ra r i ha tenuto lezioni obbligatorie in tutte le grandi aziende di Silicon Valley, con lo scopo di procedere alla formazione della nuova classe dirigente. I suoi libri sono la bibbia del mondo che sta per nascere. E non uso il termine a caso perché H a ra r i vuole sostituire il nuovo Homo deus agli dei del passato che erano, secondo lui, compreso G e sù C r i s to, fake news. Nel passato l’evoluzione si è svolta naturalmente. Oggi una élite di filantropi è in grado di prendere in mano il progetto evolutivo dell’uomo e del pianeta, per costruire forme di vita inorganica e ibrida. H a ra r i viene definito transumanista e questa visione del transumanesimo ha fatto sì che la parola transumanesimo significhi oramai qualcosa di a g g h i ac c i a nte. Qualche anno fa ero interessato al transumanesimo come prosecuzione e completamento ideale dell’umanesi - mo rinascimentale. L’umane - simo ha prodotto filosofia, sapere, bellezza. La frase che meglio definisce l’u m an e s imo è la famosa definizione di Pico della Mirandola che afferma che l’uomo può scegliere cosa diventare: degenerare nell’animalità o ascendere alla natura divina, con una semplice decisione della sua anima. È un appello a migliorarsi, crescere, elevarsi. Per Ha - ra r i e per le élite di cui è espressione, i due ruoli, animale e divino, devono separarsi e non saranno più oggetto della scelta di ciascuno di noi. Le élite saranno i nuovi dei, gli uomini normali saranno respinti nel regno animale e come animali saranno allevati e controllati per non alterare l’equilibrio del pianeta. Sopravviveranno a scopi utilitaristici per integrarsi nell’agenda digitale e nella vita inorganica. E dice queste cose apertamente, senza procurare nessuna relazione, ma solo ammirazione nei suoi ascoltatori, diretti interessati e vittime designate dai suoi progett i . Capisco il fascino che un autore come H a ra r i può suscitare, soprattutto per la presunta modernità di certe sue argomentazioni. Tuttavia bisogna vigilare sulle trappole e i falsi miraggi che il suo pensiero ci prospetta.

Un programma può manipolare ogni video

 

Il 20 gennaio del 2010 un gruppo di uomini dei servizi israeliani eliminò in un hotel di Dubai Mahmoud Al Mabhouh, figura di spicco di Hamas. Fu un duro colpo per i palestinesi, ma uno smacco anche per Gerusalemme. L’operazione non fu proprio «pulita», come si dice in gergo. Le telecamere dell’albergo tracciarono i volti delle forze speciali. Dubai chiamò l’Fbi, gli inglesi scoprirono che la squadra israeliana  in missione utilizzava passaporti di veri sudditi della Corona e cacciò da Londra un paio di diplomatici di Israele. Oggi questo pasticcio non sarebbe accaduto, grazie a un sistema di software prodotto da una start up, ovviamente israeliana, che prende il nome di Toka. Tra gli advisor c’è l’ex premier Ehud Barak e tra i fondatori addirittura il generale Yaron Rosen, per anni il capo della sezione cyber dell’esercito israeliano. Se Toka fosse esistito nel 2010 avrebbe potuto agilmente intervenire sul sistema di sorveglianza dell’edificio e sostituire a posteriori o addirittura in presa diretta i volti degli agenti con quelli di altre persone. E nessuno sarebbe risalito al Mossad, garantendo a Tel Aviv un successo su tutti i fronti. La manipolazione è possibile grazie a un sistema estremamente complesso che non si basa soltanto sul software di punta (quello svelato l’altro ieri dal quotidiano Ha re et z ), ma da un sistema di connessioni che permette di setacciare e intervenire su qualunque telecamera praticamente in tempo reale. O meglio, in tempo reale se il perimetro di ricerca è più o meno limitato a un città. Per setacciare le telecamere globali collegate alla Rete ci vogliono probabilmente minuti. Ma alla fine della ricerca sarà possibile scoprire dove un singolo individuo è stato immortalato per l’ultima volta. A novembre dello scorso anno il generale Rosen ha pubblicato un editoriale sul The Time of Israel s piega n d o, da ex pilota di elicotteri, che lo scenario e le necessità di difesa nei cieli sono cambiate molto più lentamente in decenni, di quanto sta accadendo negli ultimi mesi nel teatro di guerra cyber. Per questo Israele ha, da un lato, istituito un programma (Cyber4s) per convertire in sei mesi soldati di fanteria (e non solo) in cyber guerrieri e, dall’a l tro, ha spinto il più possibile su start up come Toka. E in passato su altre già finite sulle colonne dei quotidiani perché connesse a fatti di cronaca che con il terrorismo nulla avevano a che fare. Basti pensare a Pegasus, un software spia, prodotto da Nso, e scoperto negli smartphone di numerosi politici occidentali, giornalisti o attivisti di varie Ong. Il nome Pegasus è in qualche modo collegato al Qatargate perché la scorsa primavera Bruxelles ha istituito una commissione d’i n c h ie s ta per scoprire quali governi ne facessero uso e contro chi. Da lì il timore dei servizi d’intelligence marocchini di finire nell’inchiesta e le numerose sollecitazioni al gruppo di Antonio Panzeri con l’obiettivo di mitigare le ricerche. Ma Pegasus è solo uno dei tanti software svelati. Se torniamo indietro, scopriamo che anche gli italiani di Hacking team si sono trovati coinvolti in un fatto di cronaca. Dietro all’omicidio del saudita Jamal Khashoggi s a rebb e stato testato un software in grado di bucare praticamente tutti i d e vic e. Vale la pena sottolineare che ogni volta che la stampa svela (o riceve una velina relativamente a) un software, è già pronto a entrare in commercio il modello successivo. Immaginiamo che potrà avvenire la stessa cosa anche con Toka. Il che porta a chiedersi che cosa mai sarà in grado di fare la versione agg io r n ata . Sul suo sito ufficiale Toka ancora oggi spiega che i prodotti vengono offerti soltanto alle forze armate, alle organizzazioni per la sicurezza nazionale, all’intelligence e alle forze dell’ordine «degli Stati Uniti e dei suoi più stretti alleati». Per il giornale israeliano i clienti sono almeno Israele, Usa, Germania, Australia, Singapore. «Ma sulla mappa fornita dal pagina web della start up compare anche l’Italia, senza però fornire dettagli ulteriori», si legge sempre nell’articolo. Nell’elenco seguono Spagna, Portogallo, Francia, Regno Unito, Grecia, Canada. Anche solo fermandoci alla versione attuale, è facile immaginare la rete di informazioni che può essere raccolta su ciascun cittadino. Pegasus, per esempio, era in grado di bucare tutti i telefoni eccetto il vecchio Nokia 6610. Per il semplice fatto che si tratta di un apparecchio così poco diffuso che gli sviluppatori non hanno voluto dedicare tempo a metterlo nel mirino. Se poi aggiungiamo il numero presunto di telecamere installate nel mondo, si comprende quanto il cappio attorno alla nostra privacy sia stretto. Aithority sti - ma che in Cina siano funzionanti 200 milioni di apparecchi di video sorveglianza. Gli Stati Uniti ne avrebbero 50 milioni e la Germania più di 5. Tante quante ne registra la Gran Bretagna o il Giappone. La piccola Olanda ha ben 1 milione di apparecchi attivi su un totale di 17 milioni di abitanti. Per rimanere nell’Ue , Germania e Olanda sono i Paesi più controllati. Contano infatti rispettivamente 6,2 e 5,8 telecamere ogni 100 pers o n e. In Italia, secondo statistiche non confermate, il rapporto dovrebbe essere 3 ogni 100 abitanti. Numeri impressionanti che inducono a riflettere sulle possibili conseguenze. Chi sviluppa i software e usa l’intelligenza artificiale per spalmarne l’effica - cia su milioni di obiettivi tiene sempre a precisare che «gli standard etici vengono rispettati». Il tema è però: chi li scrive o chi li aggiorna?

Approfittare dello scandalo Qatar per cambiare l’ecopolitica dell’Ue

 

Sta montando nel settore dell’auto la protesta contro il calendario degli ecodivieti imposti dall’Ue: il capo di Toyota il più esplicito, seguito da Stellantis e da quasi tutti i produttori europei. Il tema riguarda i costi dei materiali per le batterie, la disponibilità delle torri di ricarica, il ritmo delle vendite dei mezzi «Bev» (Battery electric vehicle, le auto interamente elettriche), eccetera. Bersaglio è il tempo troppo rapido (2035) per l’abbandono forzato dei motori endotermici e conseguente riduzione degli addetti. Chi scrive aggiunge che se nel 2035 tutte le autovetture dovessero andare a batteria non ci sarebbe in Europa elettricità sufficiente generata da fonti pulite. A meno che in quel periodo siano disponibili decine di centrali nucleari a fissione, e relativi depositi di scorie: improbabile in termini di calendario una, eventualmente fattibile nel 2050/60 - pur ottima la nuova tecnologia di mini-centrali supersicure e con poche scorie. Soluzione? Togliere il divieto del 2035 per i motori endotermici ed incentivare un mix di opzioni comunque meno carbonizzanti: auto ibride, mezzi elettrici alimentati da cellule a combustibile (fuel cell) a loro volta alimentate da idrogeno verde, motori endotermici spinti da carburanti sintetici o da biogas, comunque auto a batteria di piccola taglia per percorsi urbani se proprio qualcuno vuole praticare questa tecnologia che non appare molto efficiente, ecc. Per inciso, già i produttori di grandi mezzi (i Tir) o di scala media (furgoni) si stanno orientando verso motorizzazioni elettriche a idrogeno, via fuel cell, che promettono percorrenze tra i 1.000 e 1.500 Km senza ricarica, probabilmente di più. In sintesi, si può ottenere l’obiett i - vo di de-carbonizzazione (al cui riguardo chi scrive attende un confronto tra scienziati che lo ritengono una priorità unica e altri che rilevano cause diverse per il riscaldamento globale) senza divieti e con incentivi ad un’a m pi a varietà di fonti energetiche e motrici per renderle meno contaminanti: cioè un mix di opzioni dove si lascia libero di evolvere l’insieme migliore di esse, rispettando il criterio di evitare un conflitto tra ambiente e sviluppo. Va detto a merito dell’Ue che da tempo finanzia progetti precompetitivi in materia di idrogeno verde, questa tecnologia pronta ad andare sul mercato con diverse applicazioni, su cui chi scrive scommette al punto da dire che nel 2023 inizierà l’età dell’idrogeno (verde). Ma sul piano generale del calendario dei divieti decarbonizzanti, l’ecopolitica dell’Ue appare un fanatismo irrazionale che crea un conflitto tra ambiente ed economia. Chi scrive è particolarmente preoccupato dall’id ea di applicare a partire, sembra, dal 2027 un dazio alle importazioni da nazioni che non rispettano gli ecostandard europei. La motivazione è quella di disincentivare la migrazione delle aziende europee in giurisdizioni meno ecostringenti. Ma i cervelloni che hanno elaborato questa idea si sono resi conto che l’Ue è un piccolo mercato di meno di 500 milioni di persone a fronte di giurisdizioni gigantesche, tipo Cina e India, o che lo stanno per diventare, per esempio Nigeria, Indonesia, ecc.? Si sono resi conto che se si mette un dazio poi c’è una ritorsione? L’Ue ha nazioni che vivono di export, tra cui l’Ita - lia, e tale approccio dazista non appare molto furbo. In sintesi, le economie emergenti del pianeta hanno già dichiarato che inizieranno a decarbonizzare seriamente, forse, attorno al 2060-70 per non compromettere il loro sviluppo. L’America sta facendo una svolta decarbonizzante, ma questa sarà molto lenta perché certamente non rinuncerà all’indipendenza energetica data dalla grande disponibilità di energia fossile. L’Ue produce solo una piccola parte delle emissioni globali, ma vuole essere la prima a ridurle mettendo a rischio il proprio sviluppo: appare surreale. Il giornalismo investigativo dovrebbe indagare sui veri motivi che hanno portato l’industria dell’auto tedesca ad abbandonare il diesel a favore della trazione a batterie: risposta, ora in via di ripensamento, alla guerra condotta contro la Germania dall’America nel passato? Pressione tedesca su quel colabrodo di influenze lobbystiche che è l’Ue per imporre l’auto elettrica in tempi remunerativi per i nuovi megainvestimenti? O pressione francese per monetizzare il suo sistema di centrali nucleari? O altro, per esempio l’i n d iv idu a z io - ne dell’ambientalismo come possibilità di dichiararsi «potenza etica» ed alzare protezionismi, nonché vantaggi morali, sui competitori? O si tratta solo di concessioni al partito verde? Andrà c h i a r i to. Ma andrà anche chiarita tutta la questione ambientale, generando obiettivi fattibili ed efficaci e non miti. Di fronte al cambiamento climatico deve prevalere l’ecoadattamento, cioè la creazione di una tecnologia sistemica con migliaia di applicazioni che permettono ai sistemi umani di operare con qualsiasi variazione ambientale, e non il mito di fermare un mutamento planetario: l’Ue dovrebbe puntare al primato mondiale dell’ecoadattamento tecnologico e non a quello degli ecodivieti. Quando mettere al centro del dibattito politico questo tema? Già in vista delle elezioni del Parlamento europeo - con attenzione a ridurre la sua permeabilità a qualsiasi interesse particolare spinto da corruzione - nel 2024 con la speranza di poter modificare l’e c o p o l i t ic a europea in direzione realistica nel 2026, data già prevista per una sua eventuale revisione. I partiti avranno paura di perdere consenso perché questo favorisce il mito? Si confrontino sulla stampa gli argomenti pro e contro, si abbia fiducia nel buon senso della gente.