STUPIDA RAZZA

domenica 27 febbraio 2022

Escludere la Russia da Swift rischia di fare il gioco di Putin

L a risposta europea, e parzialmente anche quella americana, all’invasione dell’Ucraina da parte delle forze armate russe soffre di un inevitabile problema di “incoerenza temporale”, che nel linguaggio economico significa prendere oggi decisioni che non è nell’interesse di chi le prende rispettarle domani. Ciò purtroppo mina la credibilità dell’azione. Il problema deriva dal fatto che la guerra è in atto oggi ed è essenziale dare una risposta immediata di fronte ai bombardamenti, alle vittime civili e a una popolazione sostanzialmente indifesa. Ma la risposta di oggi consiste, perché difficilmente per ora si può fare altro, in sanzioni economiche più o meno estreme. Queste sanzioni non hanno efficacia immediata nel bloccare la guerra, nel senso che possono veramente diventare insostenibili per la Russia, che evidentemente le ha già messe in conto, solo nel loro perdurare. Al tempo stesso, la guerra di per sé, e le conseguenti sanzioni, complicano già da oggi la difficile fase economica attraversata dall’Occidente. Il rallentamento delle economie più importanti – oltre a Stati Uniti ed Europa, la Cina – rispetto alle previsioni eccessivamente ottimistiche era all’attenzione di tutti i governi interessati, assieme all’inflazione, (MA SE L'ECOMIA MONDIALE RALLENTA,COME PUO' ESSERCI INFLAZIONE ?) già prima della guerra esplosa in questi giorni nel cuore dell’Europa. Vi era già una stretta relazione tra inflazione e rallentamento delle economie proprio perché l’aumento dei prezzi è determinato da problemi di scarsità di offerta, in particolare di energia, ma anche di altre materie prime e input intermedi, oltre che di manodopera in molti settori. Si tratta di scarsità che essenzialmente derivano dalla difficoltà di riavviare in modo adeguato le catene produttive globali che hanno sostenuto la crescita mondiale negli ultimi decenni e oggi frenano la crescita. La discussione se l’inflazione risponda a problemi strutturali ( 🤣🤣🤣) o contingenti di breve periodo (👌👌👌) non cambia il fatto che questa è oggi la situazione e che certamente la crisi energetica ha forti elementi di natura strutturale. Ora, la guerra scatenata dalla Russia indubbiamente aggrava drammaticamente questi problemi e obbliga tutti i governi a rivedere, o perlomeno a “ricalcolare”, le proprie politiche in un quadro di incertezze amplificato. I fattori inflazionistici si rafforzeranno con la guerra (🤣🤣🤣) così come aumenteranno i rischi per la crescita economica europea, su cui già pesava il rallentamento dell’economia tedesca. (👌👌👌) Questa situazione poneva la Bce di fronte al dilemma se intervenire per anticipare una possibile spirale prezzi salari  con una stretta monetaria e un aumento dei tassi di interesse (🤣🤣🤣) o aspettare per non frenare la ripresa economica post-pandemica.  Non sappiamo quale sarà la risposta della Banca centrale alla nuova situazione, ma è probabile che si rafforzi la seconda ipotesi. (👌👌👌) Non può attenuarsi il sostegno monetario ai governi europei sulle cui politiche di bilancio si rifletterà l’onere dell’innalzamento dell’inflazione importata, e quindi dell’ulteriore maggior costo dell’energia, dei contraccolpi seppur forse limitati sul sistema bancario e della minore crescita. I governi, a cominciare da quello italiano, dovranno considerare come ricorrere a una ricomposizione della spesa pubblica, concentrandola sui provvedimenti essenziali per difendere il sistema produttivo e sgombrando il campo da spese improduttive per limitare le spinte che si manifesteranno ad ampliare il debito. Quel che sta accadendo dovrebbe anche far riflettere sui tempi e sui modi di ritorno alle regole del Patto di stabilità e crescita e sulla necessità di stabilire una capacità europea di bilancio, che è la base di una possibile politica europea unitaria. Questi nodi sono oggi presenti dietro l’unità apparente delle dichiarazioni europee sulla volontà di adottare le sanzioni più dure contro la Russia, e questa guerra non fa scomparire tutte le contraddizioni della costruzione europea che ne determinano la debolezza di fondo. Tuttavia, il problema più grave di “incoerenza temporale” è rappresentato dal fatto che le sanzioni considerate più devastanti, come quella di escludere la Russia dal sistema globale di pagamenti Swift (Society for worldwide interbank financial telecommunication), pur danneggiando oggi la Russia, minerebbero in prospettiva la forza di una infrastruttura finanziaria che, pur essendo a dominio occidentale, è di uso globale e che, per rimanere tale, deve rimanere sicura e affidabile per tutti i Paesi che vi aderiscono. (👌👌👌) Il suo uso come “arma” per un fine geopolitico, seppur del tutto condiviso oggi di fronte alla guerra scatenata dalla Russia, spingerebbe verso la creazione di sistemi alternativi nella direzione di una separazione tra aree economiche su base geopolitica, cioè verso quel decoupling dell’economia globale che molti in Occidente, e forse oggi anche in Oriente, auspicano. Ma questo è il mondo che sogna Vladimir Putin per avervi un ruolo. Un mondo che in ogni caso implicherebbe un futuro di minore crescita, maggiori costi e sostanzialmente meno sicuro. Il rischio è che l’interesse di oggi spinga a scelte che rischiano di cozzare con l’interesse di domani, e in tal modo si introducono elementi di perdita di credibilità, e questo, nel corso di una guerra, è il pericolo maggiore.


La politica monetaria in tempo di guerra non ha bisogno di corvi

 

L a guerra russa contro l’Ucrania richiederà alla Bce di aumentare i presidi della politica monetaria in termini di prudenza e trasparenza. L’aumento della prudenza potrà evitare improvvise fughe in avanti restrittive, come piacerebbe ai falchi, ma neanche repentini passi indietro espansivi, come gradirebbero le colombe. Ma dovrà aumentare anche la trasparenza: la comunicazione della banca centrale deve essere sempre più chiara, chiara ma soprattutto unanime: basta corvi. L’aggressione russa all’Ucraina ha fatto materializzare il rischio geopolitico già presente come una eventualità rilevante da considerare, nel momento in cui la la Bce ha comunicato la sua strategia. Prima dell’aggressione, la posizioni dei falchi, preoccupati dall’innalzamento dell’inflazione, aveva iniziato a farsi sentire, con inviti ad accellerare la normalizzazione della politica monetaria. Ora ricominciano a farsi vive anche le colombe, che all’opposto vorrebbero una rallentamento della normalizzazione, per rispondere alla maggiore incertezza del quadro congiunturale con una maggiore espansione monetaria. Agli inviti a cambiare la rotta è probabile invece che la Bce possa rispondere che la strategia non cambia, ma va adattata ai nuovi dati disponibili. Vediamo in che modo. I due pilastri della attuale politica della Bce sono da un lato l’articolazione del suo obiettivo inflazionistico, e dall’altro lato, e di conseguenza, quello dei suoi strumenti, con particolare attenzione agli annunzi vincolanti. Riguardo all’inflazione, la Bce è stata finora chiara: l’orientamento della politica monetaria non cambierà dall’attuale tono espansivo a un eventuale tono restrittivo finché non si realizzeranno tre condizioni. Nell’ordine: un’aumento totale dei prezzi per l’Area euro pari al 2% dovrà essere effettivamente conseguito, con una prospettiva di rimanere tale per almeno 12-18 mesi, e infine in modo strutturale, anche oltre quell’orizzonte temporale. Quindi il primo quesito diventa: l’aumento del rischio geopolitico può modificare la velocità con cui i prezzi cambieranno nei prossimi mesi? È un quesito che a sua volta presuppone la risposta alla domanda che ha caratterizzato lo scenario macroeconomico degli ultimi mesi: l’aumento dei prezzi che si sta registrando va considerato temporaneo o permanente?  Finora la Bce ha risposto senza dubbi: è un aumento temporaneo, (👌👌👌) che si affievolirà alla fine di quest’anno solare. Non solo: la Bce ha assicurato che continuerà a monitorare l’andamento dei salari, per capire se emergerà il rischio che, tramite aspettative inflazionistiche incorporate nel rialzo del costo del lavoro, tale aumento possa invece cambiare natura: da temporaneo a permanente. (DEFLAZIONE SALARIALE !) Le risposte che la Bce darà alle due domande le conosceremo verosimilmente a marzo, quando la banca centrale avrà dati aggiornati. In parallelo, e proprio perché la variabile cruciale è quella delle aspettative, la Bce dovrà fare particolare attenzione alla trasparenza di quello che fa e di quello che dice. È stato annunziato un percorso di normalizzazione della politica monetaria – prima riduzione della immissione della liquidità, poi aumento dei tassi (🤣🤣🤣) – improntato al gradualismo. È un percorso che può essere confermato, o anche modificato, se i nuovi dati lo richiedessero. È però fondamentale che non ci siano dubbi o ambiguità su tale percorso. Inoltre la voce della Bce deve essere univoca. Purtroppo finora non è stato così. Dissonanze tra la comunicazione ufficiale e quella informale non sono mancate. Ma quando la discrasia, o addirittura la contraddizione, tra fonti ufficiali e non, passa attraverso informazioni rese in forma anonima da singoli membri del consiglio della Bce, l’effetto può diventare destabilizzante. Ma la Bce e i suoi membri devono essere un fattore di stabilità. Falchi e colombe fanno da sempre parte della dialettica sulla politica monetaria. I corvi sono una patologia.

FATTORE TEMPO decisivo sui costi della crisi energetica

 

È stato difficile per gli analisti prevedere l'estensione della guerra che la Russia sta scatenando contro l'Ucraina in queste ore. La maggioranza degli analisti ritenevano probabile (forse anche certa) la ripetizione del modello Crimea. In modo repentino il presidente russo Vladimir Putin ha riconosciuto l’indipendenza delle Repubbliche di Donetsk e Luhansk, ed affermato “L’Ucraina non è uno stato vicino, ma parte della nostra storia”. Tra le conseguenze che questa guerra trascina con sé vi sono aspetti meno drammatici, ma che riguardano direttamente il nostro paese, come il problema degli approvvigionamenti del gas naturale. Facciamo due conti per iniziare. L’Italia è tra i Paesi europei più legati a Mosca per le forniture di gas naturale e secondo i dati più recenti del Ministero della Transizione Ecologica, nel 2020 il 40,7% del gas naturale importato dall’Italia proveniva dalla Russia, che è di gran lunga il primo fornitore di metano del nostro Paese. Solo la Germania, tra i grandi Paesi è più dipendente di noi dal gas russo (circa il 60%). Completano le nostre forniture di gas naturale l'Algeria (21,5%), la Libia (6,2%), la Norvegia (9,8%), il Qatar (9,8%), gli Stati Uniti (2,4%). La produzione nazionale conta solamente per l'Italia il 5,8%. Se per una ragione o un'altra si interrompessero del tutto le forniture di gas naturale dalla Russia, il nostro Paese perderebbe una buona fetta delle proprie importazioni. D'altra parte, dato che la produzione interna corrisponde a meno del 6% del totale, ci troveremmo di fronte ad un problema molto serio. Questo rischio è molto presente nel dibattito anche parlamentare, e certamente qualunque azione il Governo decida di intraprendere dovrà essere coordinata con i partner europei e con gli Stati Uniti. Possono esserci diverse modalità che porterebbero comunque come risultato la riduzione drastica della fornitura che, per ragioni di completezza e di sensibilità politica rispetto al tema, è necessario rimarcare. È possibile in primo luogo che la Russia decida di tagliare le forniture di gas metano che arrivano in Italia da molto lontano (Novyj Urengoj, Siberia, oltre 6 mila chilometri da Roma). Il gasdotto in questione attraversa anche l'Ucraina e fu l'origine di una crisi già diversi anni fa. In quell'occasione la Russia e la Germania ne progettarono e realizzarono un altro (fortemente osteggiato dagli Stati Uniti) che potesse portare gas naturale in Germania senza passare per l'Ucraina. La Russia ha quindi un'arma – la riduzione delle forniture - che potrebbe giocare rapidamente anche contro il nostro paese. D'altra parte, se ci si accordasse come sembra su una delle possibili sanzioni da comminare alla Russia (il blocco del sistema dei pagamenti SWIFT), l'Italia non potrebbe ritirare la fornitura di gas naturale perché impossibilitata a pagare. Va ricordato al riguardo che i pagamenti SWIFT, o trasferimenti bancari internazionali, rappresentano uno dei sistemi di mercati finanziari più grandi al mondo. Sebbene politicamente non sia indifferente se l'Italia dovesse non acquistare, o se la Russia decidesse di non esportare, il risultato cambierebbe poco: perderemmo circa la metà delle importazioni. Una delle soluzioni più logiche e immediate per Roma potrebbe essere quella di aumentare la quota delle forniture di gas extra russo, guardando soprattutto alle alternative di approvvigionamento attraverso i paesi con cui abbiamo allo stato attuale degli scambi commerciali. Non tutti i paesi sarebbero teoricamente disponibili, né ci si potrebbe attendere lo stesso costo. Ci sarebbe poi l'incremento della produzione interna, come ricordato dal Ministro Cingolani anche di recente. Opzione valida ma non attivabile nell'immediato, richiedendo investimenti e probabilmente troppe autorizzazioni. Nell'ipotesi più ottimistica, sarebbero necessari dai 18 ai 24 mesi. Ha dichiarato il Ministro: “una possibile opzione è la valorizzazione della produzione di gas da giacimenti esistenti. Consumiamo circa 70 mld di gas all'anno e ne produciamo 4,5 di nostro. Ho posto una condizione irrinunciabile: non vogliamo aumentare l'estrazione di gas da giacimenti esistenti aumentando la quota totale di gas” quindi,” per rispettare l'accordo di Parigi dovremmo mantenere la quota a 70 e se ne tiro di più dall'Italia diminuisco l'importazione”. In ogni caso - produzione interna o aumento importazioni - attendersi un rincaro dei prezzi medi all'importazione sembra davvero scontato. Difficile - se non impossibile in questa fase - fare una stima dell'extra bolletta. Il tempo in questo caso gioca ovviamente un ruolo cruciale. Se la crisi dovesse rientrare rapidamente, il peso sul nostro Paese potrebbe non essere eccessivo e rientrare rapidamente. Vi è infine un'ultima importante considerazione. Supponiamo che l'Italia riesca in un modo o in un altro a coprire metà dell'offerta ex russa. Resta evidente in questo caso che la seconda metà dovrebbe prendere necessariamente la forma di importazione di carbone per alimentare quelle centrali elettriche per le quali si progettava la dismissione entro il 2024. Un ulteriore danno (e una beffa) rispetto a tutte le previsioni fatte sul livello delle emissioni di anidride carbonica al 2030 ed oltre.


L’incertezza travolge le strategie della Bce

 

I missili russi lanciati sull’Ucraina hanno fatto a pezzi anche lo scenario base sul quale la Bce stava impostando la normalizzazione della politica monetaria, ovvero, un’inflazione stabilizzata sul target al 2% nel medio termine 2023-2024: scenario che, se fosse confermato, cementerebbe la graduale riduzione degli acquisti di assets fino alla fine del qe entro l’anno, seguita poi dal primo rialzo dei tassi. Ma di normale, in guerra, non c’è nulla. Incertezza e volatilità dominano al punto che sulla strada maestra della normalizzazione per la Bce potrebbe essere opportuna una sosta. Nella prossima riunione del 10 marzo, il Consiglio direttivo dovrà infatti rivalutare l’andamento del tasso inflazionistico, dell’economia, della fiducia di famiglie e imprese sulla base dell’incertissimo contesto del conflitto militare Ucraina-Russia. Al momento, come ha sottolineato con vigore la presidente Christine Lagarde ieri, è prematuro tirare conclusioni. E comunque lo stile Lagarde resta quello di non anticipare, di attendere e valutare i dati che puntalmente arrivano su base trimestrale per le proiezioni macroeconomiche degli esperti dell’Eurosistema. L’impatto dell’invasione russa in Ucraina sulla politica monetaria della Bce è incerto: sarà più ampio, se l’escalation dovesse continuare, oppure potrà essere via via più contenuto nel caso di deescalation, di riapertura dei negoziati e del dialogo. La volatilità è estremamente elevata, tant’è che in questi primissimi giorni del conflitto militare, l’andamento dei mercati e del prezzo del gas è stato a zig-zag. Dopo un crollo violento delle Borse, i mercati azionari sono sembrati ieri meno allarmati e c’è stata una correzione. Lo stesso è accaduto per il prezzo del petrolio, che in parte ha corretto l’impennata iniziale. La Bce dovrà leggere attraverso queste ampie oscillazioni per valutare cosa effettivamente resterà e che effetto concreto la guerra potrà avere sulle prospettive di inflazione e di crescita nell’area dell’euro. Oltre alla stabilità dei prezzi, tra l’altro, la Bce ha anche il mandato della stabilità finanziaria. E non si possono escludere, in queste fasi iniziali del conflitto, “incidenti” di tipo finanziario: il crollo della fiducia e il panico possono far scattare, soprattutto nei Paesi confinanti con l’Ucraina, la fuga dalle banche e la caccia al contante da mettere sotto il materasso. Per questo, la liquidità, che è di dimensioni molto grandi adesso (diversamente da quanto accadde ai tempi della grande crisi finanziaria caratterizzata da liquidità prosciugata), deve rimanere ampia. Anche le condizioni di finanziamento non possono restringersi, quando soffiano i venti di guerra. L’impatto del conflitto tra Russia e Ucraina sull’economia nell’area dell’euro infine non sarà uniforme, e la frammentazione che sempre mina l’area dell’euro si riacuirà con la fuga verso la qualità: tutte variabili che finiranno sul tavolo del Consiglio direttivo alla prossima riunione a marzo.

Flotte mercantili in allarme, a rischio 280mila marittimi

 

Il mondo della logistica trema per la guerra avviata dalla Russia contro l’Ucraina. I porti di Odessa e Mariupol sono bloccati e, da lì, le merci non possono muoversi, in particolare l’acciaio destinato allo scalo di Monfalcone; ma il conflitto rischia di avere ripercussioni immediate anche sui trasporti via mare e su gomma, per la larga presenza di personale ucraino e russo. Un campanello d’allarme è stato suonato dall’Ics (International chamber of shipping), che rappresenta l’80% della flotta mercantile mondiale. L’associazione spiega che, nel caso in cui la libera circolazione dei marittimi ucraini e russi fosse ostacolata, si avrà un’interruzione della supply chain. Perché è rilevante, a livello globale, il numero di lavoratori del mare di quella nazionalità. Il Rapporto sulla forza lavoro dei marittimi, pubblicato nel 2021 da Bimco (Baltic and international maritime council) e Ics, riporta che 1,89 milioni di marittimi stanno attualmente facendo viaggiare oltre 74mila navi nella flotta mercantile globale. Di questa forza lavoro totale, 198.123 marittimi (10,5%) sono russi (71.652 ufficiali e 126.471 comuni). L’Ucraina conta invece 76.442 marittimi (4%), tra ufficiali (47.058) e comuni (29.383). In totale 274.565 persone che rappresentano il 14,5% della forza lavoro marittima globale. «Lo shipping – spiegano i tecnici dell’Ics - è attualmente responsabile del movimento di quasi il 90% del commercio globale. I marittimi sono stati in prima linea nella risposta alla pandemia, assicurando che le forniture essenziali di cibo, carburante e medicinali continuassero a raggiungere le loro destinazioni. Per mantenere questo commercio libero, devono poter imbarcarsi e sbarcare liberamente dalle navi, per i cambi di equipaggi, in tutto il mondo». Con i voli cancellati nell’area della guerra, «questo diventerà sempre più difficile. E anche la capacità di pagare i marittimi deve essere mantenuta tramite i sistemi bancari internazionali (e qui si allude ai rischi che comporterebbe l'espulsione delle banche russe dal sistema di pagamento Swift, ndr)». Ics aveva già in precedenza avvertito di una carenza di marinai mercantili. Una situazione che è stata aggravata dalle restrizioni di viaggio causate dalla pandemia, con i mancati cambi di equipaggio che hanno provocato il prolungamento del periodo in mare per 100mila per sone contrattualizzate. «Chiediamo a tutte le parti - dice Guy Platten, segretario generale dell’Ics - di garantire che i marittimi non diventino il danno collaterale in qualsiasi azione che i Governi o altri possano intraprendere». Ma anche l’autotrasporto corre più di un rischio. «Il 30% circa dei trasportatori stranieri - afferma Giampaolo Botta, direttore generale di Spediporto, l’associazione degli spedizionieri di Genova - è di nazionalità ucraina. Si tratta di operatori che hanno visti legati ai permessi di lavoro e, spesso, le famiglie in Ucraina. Con la guerra potrebbero avere difficoltà a uscire dal Paese. Sotto il profilo del trasporto merci via mare, invece, è ancora presto per capire gli effetti di questa guerra». Un parere condiviso da Francesco Parisi, alla guida dell’omonima casa di spedizioni triestina, il quale aggiunge: «Siamo soci, nella Piattaforma logistica di Trieste, dei tedeschi di Hhla, i quali hanno un terminal a Odessa che è stato appena chiuso. Ma è ancora prematuro dire quali saranno gli effetti di questa guerra. Però in 50 anni di lavoro non avevo mai vissuto una simile situazione d’incertezza». Se per gli spedizionieri non sono ancora chiari gli effetti sulle merci dell’invasione, l’imprenditore dello shipping Augusto Cosulich, rientrato a Genova da Kiev, dove curava la logistica del gruppo siderurgico Metinvest (che ha due stabilimenti in Italia), ha toccato con mano la situazione. «Abbiamo una nave a Mariupol - spiega - che deve ancora imbarcare 4mila tonnellate di bramme da portare a Monfalcone. Ora il porto è fermo e lo stretto di Kerk è chiuso». Da Mariupol si imbarcano i semilavorati, prodotti in loco, diretti, attraverso lo scalo di Monfalcone, agli stabilimenti di Verona e San Giorgio di Nogaro. Un traffico di circa tre milioni di tonnellate per i porti dell’Adriatico, che per ora è fermo. E sono sospesi gli investimenti futuri della Fratelli Cosulich, che prevedevano l’acquisto di tre navi in joint venture con Metinvest. «L’idea resta - dice Cosulich - se si risolverà tutto in tempi brevi. In ogni caso, il business in qualche modo si sistema. Siamo invece preoccupati per la vita e la sicurezza delle persone che conosciamo e che sono là».

Borse, gran rimbalzo: il mercato scommette sulla cautela della Bce

 

Le Borse europee accelerano (Milano +3,6%), recuperando parte delle perdite di giovedì; in risalita Borsa di Mosca e rublo. Clima più disteso sul fronte del gas, scambiato ad Amsterdam sotto i 100 euro al megawattora (-28,75%): ritraccia pure il petrolio. La schiarita è arrivata dopo l’apertura di Mosca a trattative con l’Ucraina; ma il mercato scommette anche su sanzioni capaci di non compromette la crescita e allo stesso tempo indurre le banche centrali a fare marcia indietro sui rialzi di tassi.Guardando le chiusure delle Borse di ieri, con quelle europee rimbalzate ben oltre il 3% e quella di Mosca in recupero del 26%, verrebbe da dire che i listini si siano sollevati quando Vladimir Putin ha aperto (ma in serata ha un po’ richiuso) la porta del dialogo con l’Ucraina. Come se vedessero una guerra lampo e la fine della ostilità. Ma questo è vero solo in parte: i listini salivano, e non poco, anche prima di questa apertura. Salivano mentre Kiev veniva bombardata. Mentre l’Europa discuteva di nuove sanzioni. Mentre l’esercito russo sembrava entrare nel Paese come un coltello nel burro. C’è dunque altro per spiegare il rimbalzo delle Borse ieri. E l’altro è questo: il mercato è tornato a scommettere sul fatto che guerra e sanzioni colpiranno l’economia europea e statunitense quel tanto che basta per non fare troppo male ma contemporanamente per indurre le banche centrali (la Bce innanzitutto) a fare marcia indietro sui rialzi di tassi. Ieri pomeriggio, quando le Borse europee chiudevano, le informazioni erano ancora vaghe, incomplete e imprecise. Eppure i mercati scommettevano su questo: economia colpita ma non troppo e Banche centrali più accomodanti del previsto. E le parole del numero uno Bce Christine Lagarde, che ha fatto capire che la Bce terrà conto di questa situazione nelle sue decisioni, hanno avvalorato la tesi. Il gran rimbalzo Non si spiegano altrimenti (aggiungendo anche le ricoperture dopo i cali di giovedì) i brillanti rimbalzi di ieri: Milano +3,60%, Parigi +3,55%, Francoforte +3,67%, Londra +3,91%. E a ruota, in serata, anche le Borse Usa. Rimbalzo favorito e parallelo al calo del prezzo del gas e del petrolio (Brent sotto i 100 dollari). Ma l’aspetto forse che più colpisce (e che forse più dovrebbe far riflettere chi parlava ancora ieri di sanzioni «dure») è stata la reazione della Borsa di Mosca (+26% ieri, dopo aver perso circa il 40% giovedì) e il rimbalzo del rublo (+1,7% sul dollaro). Si è anche affievolita la corsa ai beni rifugio, a partire dall’oro. Le ragioni sono di duplice natura. Da un lato tecniche, con le ricoperture seguite a un posizionamento eccessivamente pessimista giovedì. Dall’altro economiche. Per l’Europa la sensazione, come detto, è che l’economia resterà colpita quel poco che basta per far passare alla Bce la voglie di stringere troppo i cordoni della politica monetaria. (BINGO !) Per la Russia la percezione (che in qualunque momento potrebbe essere smentita dai fatti) che le sanzioni non siano così dure come si poteva temere. Colpo ancora timido Nel momento in cui le Borse chiudevano si ragionava ancora sulle sanzioni varate la sera di giovedì. E, pur nella loro vaghezza, sin dalla mattina sono arrivati studi di economisti per valutarne l’impatto. Il risultato dei calcoli è sintetizzato da Richard Flax, Cio di Moneyfarm, quando parla di «natura relativamente moderata (per il momento) delle sanzioni». Opinione condivisa da molti. Gli economisti di Commerzbank hanno provato a stimare l’impatto di un po’ tutti i principali capitoli di queste misure. E giungono anch’essi alla stessa conclusione: l’impatto c’è, ma nulla di drammatico. Ha poco effetto, per esempio, il fatto che la Russia - per usare le parole di Von Der Leyen - «non avrà più accesso ai mercati finanziari più importanti». «L’economia russa è poco dipendente dai mercati internazionali - osserva Commerzbank -, avendo un surplus di bilancio che varia tra il 4% e il 6% del Pil». Dunque, questo è colpo quasi a salve. Non molto diverso l’impatto delle sanzioni che hanno colpito le banche, che rende difficile per loro fare attività oltreconfine. «Le misure - stima sempre Commerzbank - non impediscono il business con la Russia». Discorso un po’ diverso sulle restrizioni all’export, soprattutto di beni tecnologici, perché «potrebbero colpire l’economia russa nel lungo termine». Per questo Commerzbank ha abbassato le previsioni di crescita. Ma nulla che possa mettere in ginocchio il Paese nel breve. Gli effetti sull’economia L’impatto comunque ci sarà. Soprattutto in Russia, ma anche in Europa e negli Stati Uniti. Per la Russia Capital Economics stima che questa situazione possa togliere dalle precedenti stime sul Pil uno o due punti percentuali. L’Ispi ricorda che con le precedenti sanzioni del 2014 (che furono ancora più blande di quelle attuali), fu calcolato che nel 2017 (tre anni dopo) il Pil fosse più basso di 2,3 punti percentuali rispetto a quanto non sarebbe stato senza sanzioni. Ma i mercati guardano più all’Europa e agli Usa. E anche qui l’impatto ci sarà: sia sull’inflazione (che sarà più elevata) sia sulla crescita. Gli economisti censiti da Bloomberg hanno abbassato le previsioni medie di crescita dell’Eurozona nel 2022 dal 4,2% stimato a inizio anno al 4% attuale. Per gli Usa la media è scesa dal 3,9% al 3,7%. Tanto basta per sperare che la Bce (più difficilmente la Fed) (ANCHE LA FED !) allontani l’intenzione di terminare gli acquisti di titoli di Stato prematuramente e di alzare i tassi già nel 2022. E, come visto, questo è ciò che i mercati vogliono sentirsi dire. (E SARANNO ACCONTENTATE !) Fino a rimbalzare con vigore mentre in Europa scoppiano le bombe.

L’arma preferita dall’Ue sono le parole al vento

 

La recente dichiarazione di guerra all’Uc ra i - na è stata scritta nel secolo scorso e non è stata mai stracciata dal potere russo. Le disgrazie del popolo ucraino continuano nella medesimo solco di sangue tracciato da Iosif Stalin cent’anni fa. Il carnefice giunse al genocidio pur di sfruttare milioni di contadini inermi, Vladimir Putin b o m ba rd e rà quelle stesse terre fino a quando non avrà raggiunto l’obbiettivo economico prefissosi. I nomi dell’i nva s o re cambiano ma la realtà degli invasi rimane tuttora quella di sempre. Eppure sarebbe troppo comodo e semplicistico confinare colpe e responsabilità da quelle parti. Difatti se fossi ucraino non maledirei solamente i due. Non foss’a l tro per togliermi una piccola soddisfazione tirerei tanti accidenti anche ai loro complici oltre confine. Sopratutto la giurerei agli ipocriti. Nel mentre gli ucraini vengono ammazzati, le istituzioni europee manifestano la nostra vicinanza al popolo ucraino illuminando palazzi. Davvero uno spettacolo! Meravigliosi giochi di luci mettono in risalto la bandiera europea lasciando loro sotto i bombardamenti e noi… a sventolare bandierine. Del resto non solo nessuno è disposto a morire per l’Ucraina ma la maggioranza degli europei non vorrebbe spendere neanche un euro per aiutali. Eppure ci rallegrammo attimo di annunciare imminenti sanzioni straordinarie all’invasore. Parole pesanti, parole pesantissime …pa ro l e al vento! Immagino che uno spregiudicato del livello di Vladimir Putin se la stia facendo sotto e stia addirittura pensando di ritirare l’e s e rc i - to dopo aver sentito codeste minacce da educanda. Ma come si fa a credere sul serio che Puti n non abbia previsto ogni mossa e se ne freghi nella maniera più assoluta delle solite frasi fatte così tanto per dir qualcosa? Lo capisce pure uno stupido cosa sta succedendo e come andrà a finire a suon di parole. Ovviamente non ci sarà alcuna sanzione in grado di salvare il popolo ucraino dall’egem onia sovietica. L’Europa dovrebbe farsi una domanda sola: ci interessano di più le sorti degli ucraini o siamo maggiormente interessati agli affari economici e finanziari con la grande madre Russia? Almeno una risposta sincera e politicamente scorretta la dobbiamo a sta povera gente: continueremo a fare affari con Mosca, punto! 



La «riapertura» è una presa in giro Lavoro e socialità restano negati

 

Il tanto sbandierato ritorno alla normalità è una presa in giro. Dal primo aprile cesserà lo stato d’e m e rge n za , eppure obblighi e vessazioni resteranno intatti. L’u nica concessione certa è lo stop all’obbligo di pass rafforzato per consumare cibi e bevande all’esterno. Invece, il diritto al lavoro rimane sotto scacco almeno fino a metà giugno. E i turisti stranieri avranno più libertà di noi.Quando dicono di voler chiudere tutto, chiudono tutto davvero, mentre quando dicono di voler riaprire, non riaprono un bel niente. In capo a due anni di pandemia, questo modo di agire da parte del ministro Roberto Speranza e delle autorità sanitarie si può ormai definire collaudato. Ed è evidentissimo proprio in questo frangente, laddove a fronte di una retorica da «liberi tutti» seguita all’annun - cio del premier Mario Draghi di non voler prorogare oltre il prossimo 31 marzo lo stato d’emergenza, a guardare bene le carte si direbbe che l’im - pianto delle restrizioni, comprese quelle più severe e quelle partorite al punto più alto della curva dei contagi resta i ntatto. Con uno scenario, inoltre, che si trasformerà in paradossale quando i turisti extraSchengen, una volta entrati nel nostro Paese, si troveranno ad avere più diritti e più libertà di movimento dei cittadini italiani. Ma andiamo per ordine: si sta parlando insistentemente di ritorno alla normalità, il che indurrebbe a pensare che si sia in procinto di abbandonare le norme più invasive, e cioè il super green pass obbligatorio per tutti i lavoratori over 50. Niente di tutto ciò, perché le norme attualmente in vigore e in procinto di essere convertite in legge al Senato nei prossimi giorni ci dicono che l’obbligo di vaccinazione per gli over 50 resterà almeno fino al 15 giugno. Stessa cosa per il super green pass obbligatorio per una serie di categorie lavorative, che continuerà a essere richiesto fino alla stessa data. Tutto ciò, a dispetto della crescente pressione politica di una parte ormai cospicua della stessa maggioranza, in primis della Lega che per ben due volte in Parlamento (prima in commissione poi in aula) ha cercato di portare a casa l’abolizione del green pass a partire dal primo aprile. C o s’è, dunque, che in concreto si potrà fare di più all’in - domani della fine dello stato d’emergenza? Non molto, se è vero che per iniziare si dovrebbe «concedere» di mangiare nei locali all’aperto a chi avrà il green pass base, e non il super green pass come adesso. E chi ha parlato, ragionevolmente, della possibilità di eliminare del tutto la certificazione per i pasti consumati outdoor, è stato bollato come fautore di pericolose fughe in avanti. Sempre parlando di attività all’aperto, dal primo aprile non ci vorrà più il super green pass per palestre e piscine, bensì il pass base, mentre per entrare nei negozi non sarà più necessaria la certificazione. Sul fronte trasporti, poi, vige l’incertezza perché se da un lato cadrà dal primo aprile l’obbligo di super green pass per i mezzi di trasporto a lunga percorrenza, al momento non è chiaro se per i trasporti pubblici locali continuerà a servire il green pass ra f fo rzato. Contraddizioni e incongruenze che raggiungono il picco, come accennato, sulla questione della (giusta) riapertura ai turisti extra-Ue, dal primo marzo. Questi, infatti, non dovranno più sottoporsi a quarantena e, al pari di quelli comunitari, potranno accedere a una serie di luoghi e attività previo tampone negativo, cosa che è ancora preclusa agli italiani.

Viminale pronto a mandare la polizia contro i Tir che non si arrendono

 

La carestia dietro l’a ngo lo. È ciò che lascia intravvedere la protesta dei Tir sopita, ma non esaurita, è ciò che le «quotazioni» di grano, frutta, verdura, carburanti ci consegnano mentre le sanzioni per la guerra in Ucraina rischiano di colpire le nostre imprese e di accendere ulteriormente l’inflazione. Il governo da una parte mette toppe, dall’a l tra continua a restringere gli spazi di libertà. La notizia è solo sussurrata, ma corre lungo lo stesso asse del green pass, delle restrizioni anti virus. Ora anche rivendicare il diritto alla propria sopravvivenza e a quella delle imprese diventa sospetto. È successo tutto giovedì in tarda serata quando Il viceministro ai Trasporti e alle infrastrutture, la renziana Teresa B el l a n ova , ha convinto alcune sigle dell’autotra - sporto a firmare un’i nte s a che sta poco in piedi pur di sbloccare le colonne di camion che paralizzavano il Sud e che ancora oggi resistono. Dopo l’accordo la B el l a - n ova ha fatto capire che la faccenda se non si tolgono i blocchi è di competenza del minsero dell’Interno. L’av - vertimento è chiarissimo: chi non si piega alle condizioni del governo si trova la polizia contro. E già è partito un ordine ai prefetti di dare un giro di vite alle proteste. Per la B el l a n ova , ex bracciante e sindacalista agricola pugliese, è una nemesi mentre la Puglia diventa l’e pic e n - tro della protesta. Lì c’è stata una non prevista saldatura dei camionisti con agricoltori e pescatori. Ieri Bari è stata «invasa» dai trattori della Coldiretti e dagli equipaggi di pesca mentre lungo la tangenziale continuava il presidio dei Tir. Nel foggiano come a Taranto mancano i carburanti perché non sono stati distribuiti. La Coldiretti si è mobilitata in tutta Italia contro la guerra e i rincari. A Genova con i pescatori, a Porto Marghera con gli allevatori, a Bari con trattori e barche. Gli allevatori stanno chiudendo: dall’Ucraina arrivava il 20% del mangime, oggi è raddoppiato di prezzo e non si trova, per i pescatori il gasolio è aumentato del 90% , già 6.000 aziende, la metà del settore, sono in procinto di chiudere. Come gran parte del piccolo autotrasporto. Spiega Maurizio Longo di Trasportounito: «L’ac co rd o che ci ha imposto la B el l a n o - va non regge. A essere soddisfatte sono solo le organizzazioni che raggruppano le grandi imprese, al governo non hanno capito che chi muove l’Italia sono i piccoli trasportatori, né hanno avuto il coraggio di affrontare il tema della legalità nel settore: subappalti, camion che non passano le revisione, autisti reclutati all’estero che possono girare senza green pass mentre i nostri cinquantenni restano senza stipendio e noi veniamo massacrati per il certificato verde. Dal governo non vogliamo solo sussidi economici, ma regole certe e pari condizioni di accesso al mercato». E siccome questo è stato messo sul tavolo giovedì sera la pratica è finita al ministero dell’Interno. «Dovevamo dire grazie per l’elemosina che ci è stata fatta? Ieri siamo andati alla pompa: con la guerra il gasolio è già aumentato di 30 centesimi, si è già mangiato il beneficio che ci è stato offerto», osserva L o n go. Il governo all’autotrasporto ha dato 80 milioni. Venti milioni di sconto sui pedaggi, 5 per le spese non documentate, 29 milioni per gli additivi ecologici dei carburanti e altri 25 di sconto sul metano. La fetta più consistente degli «aiuti» è legata al metano ed è proprio quello che ha prezzi fuori controllo e ha fatto triplicare i fertilizzanti mettendo in ginocchio gli agricoltori. Perciò i camionisti della Basilicata, della Calabria, della Campania. Ieri ci sono stati nuovi blocchi a Cosenza, a Montalto Uffugo, a Rende, a Crotone, a Passovecchio, a Barletta. Sono a secco i distributori di carburante di metà di queste regioni e restano i presidi nei porti di Ravenna, di Gioia Tauro, di Bari. In Sicilia hanno trovato un primo accordo con la grande distribuzione che è disposta a pagare di più. Ma perché i blocchi dei Tir sono soprattutto al Sud? La risposta la dà il gruppo Facebook degli I n ar restab il i, la pagina dei camionisti. Spiega in un suo lungo post S e rg io G r u j ic : «Ci appaltano i viaggi dal Sud al Nord per farci tornare vuoti, l’autotrasporto in Italia è diviso in tre tronconi e noi al Sud siamo l’anello più debole». Stretti tra costi esorbitanti, concorrenza sleale e obblighi assurdi, sono ormai Inarrestabili nella p rote s ta .

La Rai nel caos spaccia videogiochi per filmati dei combattimenti a Kiev

 



C’è più realismo in un cartone animato che nella guerra raccontata dalla Rai. Dopo 24 ore di dirette siamo già tramortiti, circondati da missili che piovono in tinello, depistati dalle cronache epifaniche di Monica Maggioni ( in onda h24 ma protagonista del buco sul discorso di Joe Bid e n), travolti da fake news in volo radente. E quando ci assopiamo sfiniti davanti all’en - nesima cartina con le frecce che indicano Kiev, ecco il brusco risveglio: è in collegamento Stefania Battistini, con u n’enorme scritta «press» su l l ’elmetto e nessuna notizia. Non per colpa sua; chi è sul campo con una telecamera può solo contare le esplosioni e riprendere i sinistri bagliori della tempesta d’ac - ciaio all’o r i z zo nte. Come ovviare allo stallo mediatico e tenere sveglio il teledipendente? Ci sarebbero i videogame. Come quello mandato in onda giovedì ad Anni 20 Nottedi Rai2 per testimoniare una battaglia aerea. Un errore imbarazzante, invece del frammento bellico stava scorrendo sui teleschermi il videogioco Ar m A 3 prodotto dalla Bohemia interactive studios e uscito nel 2013, costruito con perizia per rappresentare le strategie d’attacco in un conflitto moderno. Il conduttore Da n iel e Pier vincenzi c o m m e ntava così il video: «Questa è la contraerea ucraina che cerca di abbattere uno degli aerei da combattimento di Puti n . Lo abbiamo trovato in rete, perché questa è una guerra tradizionale ma ha anche una narrazione social, moderna, contemporanea». Soprattutto falsa; nella trappola sono cadute anche alcune emittenti s tra n ie re. Se la fonte principale è il Web, i rischi di uscirne a pezzi sono altissimi. La Rai non ha temuto di correrli e di collezionare gaffe in un numero mai così alto nella storia della televisione: 24 ore da incubo. «Ecco il bombardamento russo dell’Ucraina», annunciava Rainews 24 diretta da A n d rea V ia n ell o, che solo qualche giorno fa aveva partecipato a un corso di «Politica e comunicazione» con i big del Pd sul palco. Era l’esplosione di Tianjin in Cina sei anni fa. Molto bene. Ma l’assalto distopico interattivo non è finito. Quando il Tg 2 ha lanciato il servizio «Pioggia di missili su Kiev», i meno giovani saranno andati con il pensiero a Pete r A r n ett sul terrazzo dell’h ote l Rasheed di Bagdad durante la Guerra del Golfo. Errore: quelle immagini appartenevano a un altro videogame, War Thunder. Domanda retorica del segretario della commissione di vigilanza, Michele Anzaldi: «Possibile che un’azienda con 1.700 giornalisti e decine di direttori e vice esibisca un simile, imbarazzante disservizio pubblico? In questo modo viene usato il canone degli italiani?». Silente la sbandierata task force sulle fake news, travolta a sua volta dalle fake news. La collezione di immagini fasulle è proseguita ieri con una perla trasmessa sia dal Tg 1 che dal Tg 2 : il sorvolo di una formazione di caccia russi su Kiev, a conferma che lo spazio aereo è in mano all’aviazione putiniana. In realtà si trattava del video di una parata militare del 2020. L’erro - re è stato commesso anche da Bbc history Italia, ma in questi casi essere in cattiva compagnia non solleva il morale. A peggiorare lo scenario c’è lo svarione di Lucia Annunz i ata e Antonio Di Bella, che a microfono aperto hanno definito gli ucraini «cameriere, camerieri, badanti, amanti». Travolte da una pioggia di critiche e incalzate anche dal sindacato Usigrai, le due firme della Rai hanno dovuto scusarsi. A n nu n z i ata: «Al di là del contesto e delle intenzioni, quelle frasi sono suonate inopportune, offensive, un atto di estrema stupidità». Per la Rai di Carlo Fuortes e Marinella Soldi una prova del fuoco da brividi e numeri perdenti dei principali tg. I telespettatori sono adulti, quindi in grado di decidere da soli se farsi informare o giocare alla g ue r ra .

Stop alle transazioni Braccio di ferro anche nel governo

 

NON ESCLUDERANNO LA RUSSIA DAL SISTEMA DEI PAGAMENTI SWIFT !

 La battaglia delle sanzioni spacca gli Stati (bloccare lo Swift, il sistema di pagamenti internazionali, alla Russia, avrebbe effetti gravi) e anche il nostro governo: Di Maio apre, Franco frena.L’Europa discute sull’e s pu l - sione della Russia dal sistema di pagamenti Swift che comporterebbe gravi danni al sistema finanziario di Mosca. Si tratta di una «chiave» utilizzata da oltre 11.000 istituti in tutto il mondo che determina i codici bancari necessari per fare o ricevere qualsiasi trasferimento internazionale. Il premier britannico Boris Johnson ha esortato i leader della Nato a intraprendere azioni immediate. Madrid e Parigi sono favorevoli. Per il ministro dell’Economia francese, Bruno Le Maire, «il sistema Swift è l’arma nucleare finanziaria, attendiamo nelle prossime ore un’analisi dell’i mpatto. Alcuni Stati membri d el l’Unione europea hanno espresso riserve, ma la Francia non fa parte di questo gruppo», ha aggiunto ieri. Chi sono questi Stati? Austria e Germania - inizialmente assai esitanti - hanno annunciato ieri di essere pronte a valutare l’o pz ion e come sanzione. Ma l’i p ote s i , almeno per i tedeschi, per ora è solo sul tavolo come le altre: «Sarebbe pensabile, se i membri dell’Ue fossero insieme dell’idea che la pressione sulla Russia possa essere in questo modo rafforzata», ha detto il ministro delle Finanze tedesco, Christian Lind n e r. Mentre l’a m ba s c i ato re Yaroslav Melnyk sempre ieri ha sottolineato come l’Ita l i a sia «uno dei pochi Paesi della Ue che non ha ancora espresso pubblicamente la propria posizione sul tema». Il ministro degli Esteri, Luigi Di M a io, al termine del Consiglio affari esteri ha assicurato che «non c’è alcun veto» a sanzionare l’accesso di Mosca al sistema Swift. E poco dopo il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba ha scritto un messaggio su Twitter dicendo di aver avuto «garanzie dal collega» alla Farnesina sul fatto che «l’Italia sosterrà la sospensione». Poi, in serata, a parlare è stato il ministro dell’Economia, Daniele Franco, con toni assai più cauti: «L’eventuale esclusione della Russia dal sistema di pagamenti Swift creerebbe un “p rob l e m a” rispetto al pagamento delle forniture di gas destinate all’Italia e ad altri Paesi Ue», ha detto al termine dell’Ecofin informale di Parigi. Ricordando che «l’Ita l i a utilizza il gas russo per circa il 43% del suo fabbisogno e circa il 15-16% del suo bisogno di e n e rg i a » . Le resistenze italiane, insomma, restano. Nonostante il pressing Ue e dell’Uc ra i n a . Per comprendere la posizione italiana bisogna anche considerare i rapporti economici tra il nostro sistema finanziario e la Russia. Secondo le stime della Banca dei regolamenti internazionali, l’esposizione ammonta infatti a 25,3 miliardi di dollari, a cui si aggiungono altri 6 miliardi in termini di garanzie. Dal punto di vista dei ricavi totali si tratta di una quota limitata ma nell’evenienza di un blocco, che rischierebbe di tradursi in una moratoria sui debiti esteri della Russia, gli istituti non potrebbero ottenere il pagamento di quei c re d i t i . I riflettori sono puntati sulle due big: Intesa Sanpaolo e Unicredit. L’esposizione a Mosca di Intesa è pari a circa 5,5 miliardi con un’i n c id e n za dell’1% sul totale dei prestiti. «Noi rispettiamo le regole che ci sono nell’ambito internazionale. Siamo una banca e serviamo i clienti e lo faremo anche in Russia. Rispetteremo le regole che verranno definite di volta in volta», ha detto lo scorso 4 febbraio l’ad , Carlo Messina. La banca italiana ha partecipato al finanziamento del gasdotto Nord stream per il trasporto del gas naturale dalla città russa di Vyborg, sul mar Baltico, fino alla città tedesca di Greifswald e la distribuzione nei principali mercati dell’Eu ro - pa Occidentale. Con il consorzio composto dal t rad e r petrolifero svizzero Glencore e dal fondo sovrano del Qatar Qia, Intesa ha inoltre partecipato alla privatizzazione del 19,5% delle azioni di Rosneft. Nel 2017 l’Italia aveva dato il via libera definitivo al prestito da 5,2 miliardi di euro di Intesa per finanziare la privatizzazione di una quota della maggiore società petrolifera russa, dopo aver appurato che l’operazione non violava le norme Ue sulle sanzioni post annessione della Crimea. Lo scorso 18 febbraio a Milano si è inoltre tenuto un seminario d’affari italorusso organizzato dall’as socia zione Conoscere Eurasia presieduta da Antonio Fallico che è anche il capo di Banca Intesa Russia. E che è stato spesso definito come «l’italiano più potente di Mosca», dove vive. Ebbene, in apertura dell’evento Fa l l ic o ha sottolineato come risulti «evidente che la Russia debba ritornare a essere tra le destinazioni prioritarie per il business delle imprese italiane. Per le nostre aziende non può esserci sviluppo economico e commerciale senza la Russia». Quanto a Unicredit, la controllata in Russia rappresenta circa il 3% dei ricavi e del capitale allocato del gruppo; il patrimonio nella controllata russa è inferiore al 4% del patrimonio netto totale. A fine gennaio l’ad Andrea Orcel ha congelato un ulteriore rafforzamento nel Paese: dopo aver valutato l’acquisto di una quota di controllo della russa Otkritie, ha deciso di abbandonare il processo di esame proprio per la situazione geop o l i t ic a . «Nei prossimi giorni la Commissione e la Bce valuteranno i meccanismi possibili per aggiungere al sistema delle sanzioni anche nuovi strumenti come quelli relativi alla partecipazione a Swift», ha dichiarato il commissario Ue agli Affari economici, Paol o Gentil oni. Precisando però che «vogliamo colpire Puti n e le sue azioni aggressive e non vogliamo produrre dei danni alle nostre economie. Quindi c’è sempre un equilibrio da trovare ».

Schierarsi in nome di valori comuni? Impossibile: l’Occidente li ha persi

 

Quando il presidente degli Stati Uniti, nell’an - nunciare le sanzioni contro la Russia che ci coinvolgono in prima persona, dice che «sono in gioco i valori occidentali» costringe tutti noi a chiederci quali siano oggi realmente quei valori. Tutti noi sapevano che i due anni di pandemia ci avrebbero presentato il conto ma non pensavamo che sarebbe successo così presto. Proprio quando in tutto il mondo si dichiarava il Covid in via di risoluzione e in Italia, con la lungimiranza che ci ha contraddistinto in questi due anni, si stava entrando nella fase del «graduale allentamento delle misure», proprio quando la campagna mediatica sulla quarta dose si scontrava coi dubbi degli esperti e con gli inquietanti dati delle richieste di risarcimento per effetti avversi da vaccino pubblicati dalle compagnie assicurative, la questione si è fatta decisiva. E come sempre avviene quando si parla di filosofia, che è la più concreta e tangibile forma di riflessione sulla vita, è il fat - to che sollecita la riflessione. Il fatto dell’invasione russa dell’Ucraina coinvolge tutto il mondo e noi europei per primi. Stiamo parlando di prese di posizioni concrete, non tanto di un coinvolgimento militare ma di applicazione di sanzioni economiche che ci interessa in primo piano e una crisi energetica che ci tocca tragicamente da vicino. Ma quando Joe Biden pa rl a di «difesa dei valori occidentali» a cosa fa riferimento realmente? Alla salvaguardia dell’operazione di «Piazza Maidan» e dei fondi che abbiamo inviato all’Ucraina per creare instabilità alla Russia in ottica di equilibri geostrategici? I «valori occidentali» sono così rarefatti, così complessi, così intangibili e così ambigui che solo la politica internazionale e lo scontro tra blocchi contrapposti di potere possono incarnarli? Quando R onald Reagan faceva riferimento al «nostro stile di vita» tutti nel mondo comprendevano a cosa faceva riferimento e i difetti dell’Occidente non erano così radicali da porre in questione la natura stessa dei valori sui quali si fondava. Quando gli italiani nel 1948 votarono Democrazia cristiana non lo fecero per pedissequa adesione al programma di De Gasperi, ma perché riconoscevano che quello era il modo concreto per affermare i valori dell’Occidente: libertà, democrazia, idea di comunità, idea di uomo. Quell’ac - cordo implicito spingeva i cittadini dei paesi occidentali a credere e a difendere i valori che sentivano concretamente realizzati nelle forme sociali e culturali dei propri rispettivi paesi. Ed è anche il motivo per cui una parte dei cittadini occidentali, scegliendo il comunismo, quei valori rifiutavano a favore di altri valori, di altri assetti sociali e di altre aspirazioni esistenziali. Ma oggi, tra Trudeau ePutin siamo così sicuri di trovarci di fronte a due mondi alternativi? Se Puti n non ammette opposizione politica, cosa fa Tr ud eau nel momento in cui blocca i conti correnti di chi protesta pacificamente contro uno stato d’emergenza basato sui lasciapassare vaccinali? Cosa è successo in questi anni in Francia quando la polizia ha sistematicamente picchiato i manifestanti? Cosa sta succedendo in Italia quando si decide di mantenere un lasciapassare vaccinale senza il quale non è consentito lavorare? L’id ea che lo «stato d’e me rgen za » giustifichi la revoca della libertà non è un «valore occidentale», non lo è mai stato, non soltanto dai tempi di Joh n L o cke o di Cesare Beccaria o dell’Habeas Corpus, ma nemmeno ai tempi di O ttav i a n o Augu s to. Qualcosa si è rotto nell’idea stessa di tessuto sociale, nella percezione stessa di ciò che rende plausibile una comunità, nell’idea che esista un giudice di ultima istanza al quale rivolgersi, nella percezione che chi ti abita accanto non sia un tuo nemico e nel fatto che l’archetipo dell’un - tore divida il mondo in puri e impuri. Perché una forza egemone internazionale quale gli Stati Uniti possa permettersi di «esportare la democrazia» con la forza delle armi o con il sostegno economico di movimenti politici, è indispensabile, nell’Occidente, la condivisione di valori comuni ai quali subordinare la violenza e l’in - vasività che tali azioni necessariamente implicano. Ma se il mondo che si cerca di «esportare» è quello imposto, parziale, settario, aprioristico del controllo telematico dei comportamenti, della medicalizzazione dell’e s i s te n za , d el l ’imposizione dell’idea di ge n d e r, della subordinazione de ll ’istruzione alla cultura wo ke, dell’abbandono della proprietà privata a favore dell’indebitamento diffuso, del rinnegamento di ogni spiritualità a favore di un materialismo immanente che vuole tutti consumatori ideali e identifica nel soddisfacimento materiale dei propri desideri il senso della vita, perché lo dovremmo preferire a quello autoritario russo? Se la «rivoluzione verde», che l’Occi - dente ritiene così necessaria, consisterà nel far scegliere alle persone se comprare da mangiare o pagare le bollette, in base a quali valori esattamente verranno chiesti quei sacrifici? Al fatto che «le mascherine all’aperto servono a condizionare i comportamenti»? Ma per quello basta la Cina.

Ecco i paladini della libertà a giorni alterni

 

Anche per il conflitto in Ucraina si assiste alla divisione in buoni e cattivi. I progressisti si ergono a tutela della libertà. Dopo aver avallato divieti e discriminazioni verso gli italiani.  Poi, all ’ i mprovviso, è arrivata la guerra vera. Abbiamo passato mesi a sentirci dirci che eravamo «in guerra contro il Covid», e i nostri governanti ci hanno imposto la mobilitazione totale tipica dei grandi conflitti. Da fin troppo tempo la retorica è marziale: o con noi o contro di noi. Le critiche non sono ammesse, il dissenso non è tollerato, chi non segue le indicazioni che piovono dall’a l to è un traditore e un sabotatore. Stiamo combattendo contro il Covid, ci hanno detto, e dobbiamo vincere a ogni costo. Ma ecco che, a non troppa distanza da noi, la violenza delle armi ha iniziato a ruggire: quando cadono le bombe, crollano i ponti e i proiettili sibilano, ebbe ne, quella è una guerra. E non la pantomima che un paio di esecutivi italiani hanno messo in piedi allo scopo di mantenere un consenso che s f ug g iva . In guerra si muore perché qualcuno sbriciola la tua casa, o ti colpisce con un fucile di precisione o ti fa saltare su una mina. Quando ci si trova dentro una guerra si è costretti a fare i conti con la fame, con le privazioni, con la vicinanza costante della morte. Certo: qui morte e privazione le abbiamo sperimentate, ma non per colpa di una invasione o di un attacco delle forze speciali. A noi è toccato scontare il malfunzionamento degli organismi internazionali e pagare il conto di decenni di malagestione dei sistemi sanitari. Si tratta di una differenza non da poco, su cui oggi - di fronte alle sofferenze che inevitabilmente patiranno le vittime del conflitto ucraino - forse dovremmo iniziare a riflettere, se non alto per ritornare a fare i conti con la realtà. Anche nella guerra vera, in ogni caso, la logica manichea (largamente applicata riguardo al virus) non funziona o comunque è improdutt iva . È inutile, nel grande gioco mondiale, cercare di separare radicalmente i buoni dai cattivi. Eppure, di nuovo, ci viene proposto lo stesso identico schema bicolore: o con noi o contro di noi. O con la libertà e la democrazia o con il dittatore nazista, o con la Nato, gli Usa e l’Ue oppure con Puti n . Proprio come si faceva fino a ieri con il Covid: o con noi illuminati sostenitori della Scienza o con i no vax folli e fascistoidi. Curiosamente, quelli che oggi si dichiarano strenui difensori delle libertà democratiche e attenti custodi dei popoli oppressi sono gli stessi che hanno sostenuto, favorito e approvato la vessazione costante e feroce di una larga fetta di popolazione italiana. Quelli che oggi inveiscono contro «il dittatore Puti n » fino a un secondo prima magnificavano il green pass liberticida che impedisce a cittadini sani e incolpevoli di salire sul bus o di andare al lavoro. I nostri politici, soprattutto quelli progressisti, si dicono pronti a morire per Kiev, perché i grandi valori occidentali sono più importanti del costo delle bollette. Però, guarda caso, costoro non erano e non sono pronti a muovere un dito di fronte alla discriminazione esorbitante che continua a schiacciare qualche milioncino di nostri connazionali. «Ci sono questioni che hanno a che fare con la libertà che non possono essere barattate con il gas», tuonava Piero Fass in o del Partito democratico qualche ora fa. Ma pensa: invece, a quanto risulta, la libertà si può tranquillamente barattare con gli interessi politici di chi s’intigna ad applicare surrettiziamente le politiche «zero Covid» fallite in tutto il globo. Basterebbe questa banale constatazione a svelare l’ipo - crisia dell’attuale potere e a dimostrare che, al solito, c’è u n’élite pronta a collocarsi dalla parte del Bene e a dichiararsi in lotta contro il Male assoluto. Nel mezzo tra il bianco e il nero ci sono le infinite gradazioni della realtà e, purtroppo, anche gli interessi della popolazione italiana. Per l’enne - sima volta, in nome degli interessi e delle affermazioni apodittiche di un gruppo ristretto di sedicenti buoni dobbiamo prepararci a sacrificare frammenti di vita delle persone comuni. Sono gli uomini e le donne che stanno nel mezzo ad aver pagato il conto più salato del Covid. E saranno sempre loro a subire più duramente le conseguenze del conflitto uc ra i n o. Sarebbe anche ora, a questo punto, di farla finita con le distinzioni fra puri e impuri. Sarebbe ora di uscire dal mondo ben definito delle idee per mettere piede in quello confuso e ibrido della vita vera. In questo secondo universo, di certo meno aereo e più terragno, i paradigmi rigidi e le visioni aprioristiche funzionano poco, perché ciò che conta davvero è la risoluzione di problemi concreti e urgenti. Cioè quelli che continuiamo testardamente a ignorare illudendoci di perseguire il Bene e il Giusto. Come non può esistere un mondo zero Covid, non può esistere nemmeno un mondo zero Puti n . E di certo non basterà la terza dose di scempiaggini progressiste a fermare il presidente russo.

Gli esperti avevano avvisato la Nato

L’allargamento a Est di Europa e Nato è stato uno dei combustibili dell’i n ce n dio divampato in Ucraina: dal miope espansionismo economico di Angela Merkel, al caos nei Balcani ereditato da Federica Mogherini. Sullo sfondo, i moniti inascoltati dei politologi realisti: portare l’Alleanza atlantica fino ai confini russi avrebbe provocato una tragedia.Eravamo stati avvisati. Ce lo avevano detto i più brillanti studiosi di politica internazionale: portargli la Nato sulla soglia di casa avrebbe spinto Vla - dimir Putin a scatenare la guerra. Nella percezione del Cremlino, per esigenze difensive, più che per ambizioni imperialiste: l’Orso, già indebolito dallo sgretolamento dell’Urss, pretendeva una cintura di sicurezza attorno ai propri confini. Stringerlo a tenaglia significava indurlo a reagire con una zampata. Già nel 1997, il teorico del contenimento, George Kennan, fu esplicito: allargare a Est la Nato «sarebbe il più tragico errore della politica americana» nell’era postsovietica. Il diplomatico, che invero, nel 1949, criticò l’idea stessa di istituire l’Alleanza atlantica, sapeva che l’espansione verso Oriente avrebbe «infiammato le tendenze nazionalistiche, anti occidentali e militariste nell’opinione pubblica russa», danneggiando il processo di democratizzazione nella Federazione e restaurando «l’at - mosfera della guerra fredda». Una profezia inascoltata: nonostante, dopo la caduta del Muro di Berlino, Michail Gorbac iov avesse incassato l’assi - curazione verbale che la Nato non si sarebbe «spostata a Est di un millimetro», l’ammini - strazione Clinton, negli anni Novanta, diede nuovo impulso all’ampliamento del sodalizio militare. All’epoca, persino il presidente del Consiglio italiano, Romano Prodi, lucidamente invocava un approccio cauto: l’accrescimento dell’A lleanza non doveva suscitare più tensioni di quante ne avrebbe potute eliminare. Niente da fare: anzitutto ci fu la ratifica dell’ingresso di Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia; poi, arrivarono Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Slovenia. Finché, nel 2008, Washington iniziò a premere per l’am - missione di Georgia e Ucraina. L’accelerazione di Tblisi, con tanto di riannessione di Abcasia e Ossezia del Sud, innescò la prima reazione armata di Mosca. Un incidente che avrebbe dovuto far suonare, a Occidente, un campanello d’allarme. Invece, Stati Uniti ed Europa hanno continuato a perseguire l’imprudente strategia anche con Kiev. Nel 2014, all’indomani degli eventi di piazza Maidan e della destituzione del governo filorusso, fioccarono gli interventi critici della scuola realista. John Mearsheimer, ad esempio, vergò un saggio dal titolo eloquente: Perché la crisi ucraina è colpa dell’O c c id e n te. A suo parere, Putin sa rebbe passato alle vie di fatto, occupando la Crimea, per tre motivi: primo, perché la Nato si stava trasferendo «nel giardino della Russia»; secondo, perché l’Ue si stava espandendo e, terzo, perché essa aveva sostenuto «il movimento pro democrazia», a partire dalla Rivoluzione arancione del 2004. «Quando i russi guardano all’ingegneria sociale occidentale in Ucraina», scriveva Mear - s h ei m e r, «temono che il loro Paese possa essere il prossimo sulla lista. E tali paure difficilmente risultano infondate». Alla faccia del Puti n auto c rate psicotico: «L’Ucraina svolge la funzione di Stato cuscinetto, che è di enorme importanza strategica per la Russia. Nessun leader russo sarebbe rimasto immobile, mentre l’Oc - cidente dava una mano a installare un governo determinato a integrare l’Ucraina» con Usa ed Europa. E intravedendo la prospettiva che la Federazione, tenuta sotto tiro da missili e truppe, fosse tagliata fuori dagli sbocchi sui mari caldi. Il punto, osservò M ea rsh eim e r, era che «Washington può non gradire la posizione di Mosca, ma dovrebbe comprendere la logica che c’è dietro». Ecco: «comprendere». L’alterna - tiva è la spirale degli slogan psicologisti e moraleggianti: Pu - ti n pazzo, dittatore, male assoluto. Sarà vero, ma ciò non esenta dal bisogno di ricorrere all’analisi razionale. Otto anni fa, anche Henr y K i s s i n ge r, sul Washington Post , intervenne nel dibattito sulla crisi ucraina, aperto dall’editoriale bellicista di Zbig niew Brzez i n s k i , consigliere per la sicurezza nazionale durante la presidenza di Jimmy Carter. Con molto equilibrio, il veterano della diplomazia americana tirava le orecchie sia all’in - quilino del Cremlino («Dovrebbe capire che, quali che siano le sue rimostranze, una politica di imposizioni militari produrrebbe un’altra guerra fredda»), sia agli Usa e all’Eu - ropa, che non potevano ignorare il legame storico e strategico di Kiev con la Russia. Kis - s i n ge r, meno radicalmente di M ea rs h ei me r, sosteneva che l’Ucraina, pur non condannata al ruolo di Stato cuscinetto, potesse essere, sì, lasciata libera di aderire all’Ue, ma non alla N at o. Negli ultimi giorni, su Forei - gn Policy, è intervenuto pure Stephen Walt, che era stato chiarissimo già nel 2015: allargare la Nato ai Paesi dell’ex blocco sovietico è «un obiettivo pericoloso e non necessario». Il politologo ha contestato le perniciose ideologiche illusioni della diplomazia liberal, rimarcandone l’i n c apac i tà di convincere Mosca delle «benevole intenzioni della Nato». La Russia non ci ha mai creduto - e non per una perversa malizia dello zar. «I russi si guardano indietro», spiega alla Ve - rità Germano Dottori, docente di studi strategici alla Luiss. «Ricordano che, negli anni Venti del Novecento, i loro soldati si addestravano con l’eser - cito di Weimar. Poi, con i tedeschi, nel 1939, si spartirono la Polonia. Eppure, il 22 giugno del 1941, Adolf Hitler attac c ò l’Unione sovietica. Le intenzioni cambiano nel tempo». E il Cremlino non solo non vuole offrire un vantaggio strutturale agli avversari, ma ha pure paura dell’«esportazione del modello delle rivoluzioni colorate». Eugenio Di Rienzo, autore, nel 2015, per Rubbettino, di un volume sul Conflitto russoucraino: geopolitica del nuovo dis(ordine) mondiale, sostiene addirittura che «Puti n , in una qualche misura, sia stato costretto a questo conflitto. Gli era stato assicurato che non fosse nell’agenda l’entrata dell’Ucraina nella Nato. Lui, però, pretendeva una garanzia scritta, pensando a quello che era successo a G o r bac iov e paventando che l’impegno dichiarato si riducesse a un protocollo diplomatico». Il messaggio degli esperti, da anni, è inequivocabile: piaccia o meno il regime di Puti n , portare l’Alleanza atlantica alle frontiere dello zar è un azzardo. La Russia considera tale intento una minaccia esistenziale. Quel monito è stato ignorato. Il prezzo della temeraria sfida, oggi, è il sangue.


Putin demolisce la transizione ecologica

 

 🙏🙏🙏🙏🙏🙏🙏🙏🙏🙏🙏🙏🙏🙏🙏

Una persona che lotta contro il green pass mai e poi mai potrà nemmeno s im pati zzare per Vladimir Putin. (IO SONO UN CASO A PARTE !) E per un Paese dove le libertà personali sono condizionate e troppo spesso violate. Lo choc della guerra in Ucraina - e lo diciamo con il sommo rispetto per i morti - qualcosa di buono l’ha portato. Pu - tin sta demolendo la transizione ecologica sognata, desiderata e imposta dall’Un io - ne europea. A parte qualche estremista verde e qualche rappresentante Ue che nei giorni scorsi han spiegato che per contrastare Puti n ci vogliono più rinnovabili, la guerra ha aperto gli occhi a chi si ostinava a rimanere in scia a Bruxelles. Ieri nella sua informativa alla Camere, il presidente del Consiglio Mario Draghi ha stravolto completamente le dichiarazioni energetiche che hanno caratterizzato il suo governo fin dall’i n i z io. «Siamo al lavoro per aumentare le forniture alternative», ha spiegato in Aula. «Intendiamo incrementare il gas naturale liquefatto importato da altre rotte, come gli Stati Uniti. (🤣🤣🤣) Il presidente americano, Joe Biden, ha offerto la sua disponibilità a sostenere gli alleati con maggiori rifornimenti, e voglio ringraziarlo per questo. Tuttavia, la nostra capacità di utilizzo è limitata dal numero ridotto di rigassificatori in funzione. (🤔🤔🤔) Per il futuro, è quanto mai opportuna una riflessione anche su queste infrastrutture. Il governo intende poi lavorare per incrementare i flussi da gasdotti non a pieno carico - come il Tap dall’Azerbaijan, il Transmed dall’Algeria e dalla Tunisia, il Greenstream dalla Libia», ha aggiunto con eccessivo ottimismo. (🤣🤣🤣) Il Gnl resta un bandiera. Abbiamo soltanto due rigassificatori e in nessuno modo riusciremmo a costruirne a sufficienze per colmare il gap russo che vale per noi il 40% dei consumi nazionali. (👍👍👍) Anche sulle tre pipeline citate c’è da mettere qualche puntino sulle «i». La prima, il Tap, è sicuramente un ottimo salvagente. Non si pensi però che i vertici dell’A ze rba i j a n , Ilham Aliyev, siano del tutto immuni dalla sfera d’i nfluenza russa. Anche a Baku sanno che se si tira troppo la corda si rischia un burrascoso evento come quello accaduto lo scorso mese in Khazakistan. L’Algeria, da cui passa il Transmed, è ai ferri corti con il Marocco e con metà Europa. La primavera araba ci ha per una buona parte espulsi dal Paese e far riaprire i rubinetti non sarà semplice. Infine, c’è la grande incognita Libia. È ovvio che il Greenstream dovrebbe essere il vero bocchettone energetico per l’Italia e siamo felici di sentirlo dire dal p re m ie r. Purtroppo estremamente in ritardo e dopo che Turchia e Russia si sono presi mezzo Paese. Infatti, l’a l tro grosso fronte anti russo è proprio in Libia e nel Sahel. Ancora più delicato rispetto all’Ucraina perché di natura asimmettrica. In soli due anni i mercenari di Putin sono riusciti a cacciare i francesi dal Mali. Una cosa inimmaginabile fino a poco tempo fa. I russi sono stati gli ispiratori di almeno tre colpi di Stato e la loro presenza non solo comprime i flussi di gas, ma anche peggiora la tratta di clandestini. Speriamo che l’invasione dell’Ucraina serva ad aprirci gli occhi. Ok alle sanzioni e alla linea dura, ma su questo la prudenza di D ra g h i è più che mai opportuna. Forse perché sta mettendo sul piatto il tema del Mediterraneo. Abbiamo un trattato del Quirinale che ci unisce ai francesi, oggi in difficoltà, adesso dovremmo usarlo con l’ok degli Usa per entrare militarmente in Libia. Altrimenti le strategie resteranno sulla carta. Lo diciamo perché il ritorno al carbone, auspicato sempre ieri durante l’audizione, non sarà sufficiente. «Potrebbe essere necessaria la riapertura delle centrali a carbone (al momento sono sette, ndr), per colmare eventuali mancanze nell’immediato». Resta il fatto, ha assicurato D ra g h i , che «la risposta più valida nel lungo periodo sta nel procedere spediti, come stiamo facendo, nella direzione di un maggiore sviluppo delle fonti rinnovabili, (🤣🤣🤣) anche e soprattutto con una maggiore semplificazione delle procedure per l’installazione degli impianti». La frase ci auguriamo sia di circostanza. Senza la bandiera del green que s t’anno potremo dire addio ai soldi del Pnrr. Ma la realtà è tutt’a l tra . I costi delle rinnovabili sono insostenibili per le imprese che per giunta necessitano dei fonti stabili e immagazzinabili. Le rinnovabili hanno questo ulteriore problema che si chiama stoccaggio. (👍👍👍) Se domani riattivassimo tutte le centrali a carbone recupereremmo il 4% del nostro fabbisogno. Un decimo della filiera proveniente dalla Russia. Bene nell’immediato. Ma non basta, come abbiamo scritto sopra. Avremmo bisogno di tornare a discutere di nucleare e soprattutto pensare di sostituire il gas che arriva da Est con quello che proviene da Sud. È l’unico vero intervento contro il caro boll ette. 

PUTIN CI PORTA IL CARBONE

 

La guerra di Putin ci porta un po’ di carbone in regalo, oltre a un prolungamento dello stato d’emergenza. Il primo cadeaux lo ha annunciato il presidente del Consiglio Mario Draghi ieri, durante le comunicazioni alla Camera sugli sviluppi del conflitto tra Ucraina e Russia. Se Mosca, a seguito delle sanzioni decise dopo l’invasione della vicina repubblica,per rappresaglia ci lasciasse al freddo, interrompendo o limitando le esportazioni di gas, dovremo riaccendere le centrali a carbone. Il che la dice lunga su chi pagherà la campagna militare intrapresa dallo zar del Cremlino. Infatti, mentre America e Unione europea a parole promettono una reazione pesantissima, invitando l’Armata rossa a fare dietrofront, a casa nostra si comincia a fare i conti su quanto ci costerà il conflitto e, soprattutto, ci si prepara al peggio, riaccendendo i fornelli da riscaldam e nto. Quanto al secondo dono, ovvero la mezza retromarcia sull’abolizione dello stato di emergenza (D ra g h i quattro giorni fa ne aveva anticipato la conclusione), il governo ha giustificato il ripensamento con la necessità di reagire tempestivamente all’invasione russa e anche se resta da vedere quali limiti verranno imposti, la faccenda non butta bene. In pratica, pur non avendo alcuna responsabilità per ciò che sta accadendo, gli italiani sono costretti a subire una situazione che li vede cornuti e mazziati: pagheranno di più il riscaldamento, avranno u n’aria più inquinata e forse non potranno neppure vedersi restituita la libertà dopo due anni di pandemia. Sì, i primi effetti della battaglia di Kiev sono una doccia fredda sulle aspettative del Paese, che dopo lockdown, green pass e altre formule astruse usate per nascondere l’i n c apac ità di affrontare il virus, cominciava a sognare il ritorno a una vita normale. E invece, no. Nell’i n fo rmativa urgente al Parlamento, il capo del governo è stato chiaro e non ha certo usato mezze parole, accantonando l’ottimismo di pochi giorni fa. Sebbene abbia precisato che il governo è pronto a intervenire per calmierare il prezzo dell’energia, D ra g h i ha spiegato che «la maggior preoccupazione riguarda proprio il settore energetico». Ovvio: l’Italia è attaccata alla canna del gas russo e se Puti n chiudesse il rubinetto in Siberia, in Italia sarebbero guai. Non soltanto perché dovremmo riscaldarci attorno al fuoco e trascorrere le serate a lume di candela, ma perché dipendendo per il 40 per cento da fonti energetiche moscovite, la nostra economia collasserebbe. Colpa di scelte sbagliate fatte negli anni passati, ha precisato il premier. Vero: se dipendiamo da Mosca ogni volta che mettiamo sul fuoco l’ac qu a per la pasta e anche quando accendiamo la luce, dobbiamo ringraziare i compagni che si sono opposti al nucleare, alle trivelle e ai rigassificatori, cioè a quei grandi contenitori che avrebbero consentito di immagazzinare il metano liquido. Purtroppo per D raghi, ma soprattutto per noi, raccontarci che gli eredi del Pci, gli ecologisti e i grillini ci hanno portato a essere schiavi di Puti n s e rve a poco. E servono a poco o nulla anche le soluzioni che il presidente del Consiglio ha elencato ieri per cercare di rincuorarci di fronte al ricatto dello zar russo. In alternativa al gas siberiano, il cui trasferimento potrebbe essere interrotto più dagli ucraini che dai russi (se qualcuno volesse colpire gli interessi economici di Mosca basterebbe sabotare il gasdotto che transita sul territorio di Kiev), secondo D ra gh i potremmo ricorrere ad altre forniture, rivolgendoci all’Algeria e alla Libia, oppure aumentando il combustibile che grazie al Tap arriva dall’Azerbaigian o comprando dall’Ame rica quello liquido. In realtà, nessuna di queste soluzioni pare credibile. Dal Nord Africa c’è poco da attendersi, in quanto il metanodotto che parte da Algeri è già alla sua massima potenza e non c’è molto altro da pompare. Quello che transita da Tripoli è invece in mano alle milizie delle diverse tribù, dove comandano turchi e russi. Da Baku, capitale dell’Azerbaigian, c’è pure poco da attendersi, perché sarebbe come cadere dalla padella nella brace: come per la Libia, l’influenza russa nell’ex repubblica sovietica è sempre molto forte. Resta il gas liquido che dovremmo andarci a prendere negli Stati Uniti, ma oltre al prezzo del trasporto c’è un secondo problema: non disponendo di rigassificatori, non si sa in quale deposito immagazzinarlo. Insomma, le soluzioni del governo non paiono soluzioni ma problemi, perché nessuna di quelle elencate pare risolutiva o facilmente real i z zabi l e. Infatti, l’ultima spiaggia di D ra g h i consiste nella riapertura delle centrali a carbone, ovvero riaccendere impianti che erano stati spenti a causa dell’e c c e s s ivo inquinamento. Nessuno, a cominciare dai verdi per finire all’Europa, vuole tornare a bruciare carbone, ma senza il gas russo non c’è altro da fare. O meglio, qualche cosa da fare ci sarebbe: mettere da parte l’idea di inviare truppe al confine con l’Ucraina (240 alpini a cui si unirebbero altri 3.000 soldati che a Pu - ti n fanno solletico) e sedersi a trattare. Kiev è una battaglia persa, per i motivi che ho spiegato ieri, e prima ce ne renderemo conto, prima eviteremo di farci del male e di veder scorrere altro sangue ucraino.

sabato 26 febbraio 2022

Simone Weil, l’intellettuale afflitta dalla vocazione all’annientamento

 

Cercherò di parlare di Si-
mone Weil facendo astrazio-
ne dall immenso alone di
commenti, discussioni e leg-
gende che circondano oggi la
sua figura. Dimenticherò an-
che momen taneamente la
sua opera, per risuscitare
questo essere sconosciuto e,
per così dire, «caduto dal cie-
lo», che per un momen to
condivise la mia esistenza.
[...]
Il mio amico di sempre, pa-
dre Pe r r i n, mi aveva chiesto
di accoglierla a casa mia per
iniziarla alla vita agricola.
Non mi sono oggi molto chia-
ri i motivi che mi hanno fatto
rispondere di sì. Il primo era
forse il desiderio di non rifiu-
tare niente a un amico. Biso-
gna anche dire, poiché la be-
nevolenza allo stato puro è
rara, che mi trovavo ancora
in quelletà della vita in cui si
è avidi di nuove conoscenze.
Nelle poche lettere che allora
Simone Weil mi indirizzò per
precisarmi le esigenze della
sua momentanea vocazione
di «garzona di fattoria», tra-
sparivano già i due grandi,
contraddittori impulsi la cui
tensione suscitò in lei lespe-
rienza più patetica della mi-
seria umana e della croce e le
impedì allo stesso tempo di
pervenire alla suprema sere-
nità: da una parte un bisogno
di cancellazione assoluta,
u napertura senza limiti alla
realtà, anche nelle sue forme
più dure, e, dallaltra, una
terribile volontà propria nel
cuore stesso della privazio-
ne, il desi derio inflessibile
che questa privazione fosse
opera sua e si realizzasse at-
traverso le vie che lei aveva
tracciato, la tentazione divo-
rante di verificare tutto dal di
dentro, di tutto provare - nei
due sensi del termine - in sé
stessa e fuori di sé stessa.
[...]
Dopo un breve scambio di
corrispondenza, vidi arriva-
re Simone Weil (le avevo pro-
posto di trascorrere qualche
settimana a casa mia per ini-
ziarsi ai diversi lavori agrico-
li, in attesa di divenire davve-
ro garzona di fattoria presso
un grosso proprietario dei
dintorni). Come narrare que-
sto primo colloquio? Non vo-
glio parlare del suo aspetto
fisico (non era brutta, come
si è detto, ma prematura-
mente ingobbita e invecchia-
ta a causa dell ascetismo e
della malattia, e solo i suoi
ammirevoli occhi restavano
a galla in quel naufragio della
bellezza), né del suo abbiglia-
mento bizzarro e del suo in-
verosimile bagaglio (ignora-
va magnificamente non sol-
tanto i canoni delle l ega n za ,
ma perfino le elementari abi-
tudini che permettono di
passare inosservati); dirò so-
lo che quel contatto iniziale
suscitò in me sentimenti
molto differenti, forse del -
lantipatia, ma almeno al-
trettanto penosi. Ebbi lim-
pressione di trovarmi di
fronte a un essere radical-
mente estraneo a ogni mio
modo di sentire e di pensare,
a tutto ciò che per me rappre-
senta il senso e il sapore della
v i ta .
Fu, in una parola, la rivela-
zione dei miei antipodi: mi
trovavo spaesato davanti a
una terra nuova e a stelle sco-
nosciute. Ignoravo ancora
che, se non fossimo guidati
dagli stessi astri, le nostre
anime si congiungerebbero
nello stesso cielo. La mia sola
impressione positiva fu un
sentimento di rispetto in -
condizionato per un essere
di cui, attraverso tutte le no-
stre divergenze intellettuali
e affettive, presagivo oscura-
mente la grandezza unica.
Questo sentimento di «vene-
razione» si accrebbe ulte-
riormente quando, dopo
averla lasciata qualche istan-
te per ricevere un visitatore,
la ritrovai davanti alla casa,
seduta su un tronco, immer-
sa nella contemplazione del-
la valle del Rodano. Vidi allo-
ra il suo sguardo emergere a
poco a poco dalla visione per
ritornare alla vista; linte n s i-
tà, la purezza di quello sguar-
do erano tali che si sentiva
che contemplava abissi inte-
riori, contemporaneamente
allo splendido orizzonte che
si apriva ai suoi piedi, e che la
bellezza della sua anima cor-
rispondeva alla delicata mae-
stà del paesaggio.
Un aspetto più ruvido del
suo carattere emerse non ap-
pena bisognò procedere alla
sua sistemazione in casa.
Trovando la nostra umile ca-
sa troppo confortevole, rifiu-
tò la camera che le offrivo e
volle a ogni costo dormire al-
laperto. Allora mi arrabbiai
e, dopo lunghe discussioni,
finii per cedere. Il giorno se-
guente si giunse a un com-
promesso: i miei suoceri pos-
sedevano allepoca una ca -
setta semidistrutta sulle rive
del Rodano, nella quale la si-
stemammo, non senza qual-
che complicazione per tutti:
altrimenti tutto sarebbe sta-
to tanto più semplice! Potrei
citare cento episodi dello
stesso tipo: lei che, per il suo
piacere o il suo bisogno, non
avrebbe accettato il più pic-
colo sacrificio del prossimo,
sembrava non tener conto
delle complicazioni, e persi-
no delle sofferenze, che in-
troduceva nella vita degli al-
tri non appena si trattava di
realizzare la sua vocazione
allannientamento.
La sua ricerca della sco-
modità nelle piccole cose e
della sventura nelle grandi le
faceva trascurare le conse-
guenze incresciose in termi-
ni di scomodità e di sventura
che potevano ricadere su
quanti le erano accanto. For-
se la sua umiltà pensava pure
che, non essendo degna di
essere amata, non rischiava
di far soffrire molto. Un gior-
no, dopo avermi pregato di
intervenire presso le autori-
tà di Vichy in favore di un
rifugiato spagnolo deportato
in Algeria, mi chiese brusca-
mente di giurarle che non
avrei fatto niente qualora
fosse stata imprigionata a
sua volta. Protestai (i suoi ge-
nitori, il giorno prima, mi
avevano fatto promettere
esattamente il contrario) e,
infine, le dissi: «Invertiamo i
ruoli: vi farebbe piacere che,
essendo voi libera, io fossi in
prigione?». Alzò leggermen-
te la testa e mi rispose con un
lampo smorzato nello sguar-
do: «Non lo sopporterei». Fu-
rono, credo, le parole più af-
fettuose che mi abbia detto.
Ma perché, di fronte alla
stessa possibilità di sofferen-
za - assistere passivamente
alla sventura di una persona
amata - usava, per me e lei,
criteri di valutazione così di-
versi? Ebbi come un gelido
segnale dellegoismo tra -
scendentale delle ro e.
Ho appena pronunciato
una parola severa, e che esige
tante più sfumature in quan-
to è in parte vera. Luo m o
religioso non pensa che a sé
stesso, diceva Nietzsch e. È
giusto in tutti i sensi per quei
devoti di qualità inferiore
che trascurano i loro doveri
più evidenti per seguire una
vocazione chimerica, ed è
ancora giusto, in un certo
senso, per gli eroi e i santi che
non hanno realizzato in essi
la suprema spoliazione. So
bene che non è egoismo ob-
bedire a Dio piuttosto che
agli uomini, e che i grandi
ispirati hanno altro da fare
che preoccuparsi dei graffi e
delle ferite che la loro docili-
tà allo Spirito può provocare
nei poveri esseri che il caso
ha messo loro accanto. So,
altresì, che questo aspetto di-
sagevole del carattere di Si-
mone Weil è tipico di molte
anime eroiche [...]: un Fra n-
cesco dAssisi, una Giova n n a
dA rc o, non esitarono mai a
far soffrire il loro prossimo
vicino per rispondere allap-
pello della loro vocazione
lonta n a .
E tuttavia penso, nel caso
preciso di Simone Weil, che
questa tensione, questa rigi-
dità nellobbedienza alla pro-
pria vocazione costituissero
un segno, non certo di inau-
tenticità, ma di asprezza, di
immaturità della sua vita
spirituale. I frutti migliori re-
stano duri finché sono acer-
bi. Questa nozione di imma-
turità mi sembra particolar-
mente preziosa per chiarire
certi contrasti della condotta
e del pensiero di Simone Weil
e, in primo luogo, lenigma
del suo duplice atteggiamen-
to nei confronti di sé stessa e
del prossimo. Voleva dimen-
ticare sé stessa e si ritrovava
persino in questo oblio; ama-
va il prossimo con tutto il suo
essere, ma la sua abnegazio-
ne troppo spesso passava a
lato dei veri desideri e dei
veri bisogni degli altri.