STUPIDA RAZZA

venerdì 30 settembre 2022

Bollette elettriche +59% da ottobre È rischio desertificazione industriale

 

Il responso d el l’Arera sugli aumenti delle bollette elettriche si può sintetizzare con un solo termine: drammatico. Ieri l’autorità che regola il mercato dell’energia ha diffuso l’aggiornamento dei prezzi per l’ultimo trimestre dell’anno. Dal primo ottobre scatterà un ulteriore aumento del 59%, che porterà il costo medio per famiglia spalmato su l l ’anno solare a 1.322 euro, contro i circa 600 del 2021 e i 487 del 2020. A spanna i costi sono triplicati in tre anni e questo nonostante gli interventi e gli incentivi del governo. L’Arera ha infatti spiegato che il trend è stato mitigato dai vari decreti Aiuti e, per quanto riguarda i futuri aumenti, anche da un intervento della stessa authority che ha azzerato le componenti che vanno sotto la voce «oneri di sistema». Il presidente Stefano Bass eg h i n i ha chiesto poi di prolungare il termine del mercato tutelato a oltre gennaio 2023, per non avere altri aumenti. Vale la pena notare che il 59% di ulteriore aumento riguarda solo le bollette elettriche, che pur influenzate dall’andamento del gas, sono comunque meno bollenti di quelle del riscaldamento. Per essere consapevoli dell’u l te - riore batosta dovremo aspettare il primo novembre, quando Arera aggiornerà anche i valori del gas. Intanto, si possono già vedere i cocci del sistema produttivo. L’Istat ha diffuso i dati dei costi della produzione industriale. I dati sono riferiti ad agosto e segnano una crescita del 40% rispetto ad agosto 2021. L’impennata è guidata dall’inflazione, ma ancora non tiene conto dei dati diffusi ieri dall’Arera. Quando arriveremo a fine anno la situazione sarà ancor più drammatica e rischierà di scivolare tra insolvenze e desertificazione indu s tr i a l e. Dal lato famiglie, infatti, le utility già sanno che il 30% degli utenti non pagherà. Da qui l’idea di inviare mensilmente le note di pagamento. Serve solo a spalmare i crediti. Per un periodo più lungo. Anzi lunghissimo. Se si guarda il periodo di competenza del decreto energy release, partorito dal Mite, si vede che si arriva addirittura al 2025. Ne deriva che operatori e governo già sanno che ci vorranno non meno di tre anni per u s c i r n e. Senza per giunta contare gli altri effetti della crisi energetica. L’ondata di sofferenze impatterà sulla qualità del credito, mentre il continuo aumento dei costi della produzione renderà insostenibile per molti imprenditori tenere aperte le saracinesche. Ciò vale per i piccoli ma anche per i grandi industriali. L’associazione che li raggruppa a livello Ue ha scritto una lettera ieri ai vertici di Bruxelles. L’obiettivo è segnalare nel corso degli ultimi 9 mesi si è persa la metà della capacità produttiva dell’acciaio. Il 70% della produzione di fertilizzanti è stato interrotto o posposto. «Il rischio reale», prosegue il testo, «è che una gran fetta delle imprese si trasferisca fuori dal Vecchio Continente per poter continuare a stare sul mercato» o semplicemente per poter rimanere ap e rte. In pratica, ciò che dicono gli imprenditori è che ci sarà una prima fase di concorrenza interna. Gli Stati con un minor costo dell’energia attireranno le aziende delle nazioni dove il kilowattora è insostenibile. Poi l’effetto si sposterà. E allora a chi produce acciaio, laminati, ma anche componenti dell’autom ot ive converrà fare armi e bagagli e spostarsi in India o anche negli Stati Uniti o in Brasile. Il discorso vale pure per l’Ita l i a . Anzi, vale soprattutto per il nostro Paese. Il che ci riporta al grosso tema della sostenibilità del debito con un Pil che necessariamente è destinato a scendere. Tra l’altro la prossima primavera ci porterà a un difficile bivio. Scarsità di beni come durante l’Un io n e sovietica o import selvaggio di merci cinesi? La guerra in Ucraina ha spezzato gli equilibri dell’ultimo ventennio e la Cina si appresta, dopo aver giocato d’azzardo con il Covid e aver usato i lockdown per strozzare la catena del valore, a dare il colpo finale. Se la loro scommessa dovesse riuscire, avranno un yuan molto debole e accumulato ingenti riserve di materie prime. Al contrario, le aziende europee dovranno necessariamente bloccare (anche solo in parte) la produzione dei beni. Il razionamento programmato eviterà lo choc dei blackout fuori controllo, ma imporrà comunque un rallentamento delle fabbriche. Altre strozzature che faranno salire i prezzi e quel punto saranno gli Stati europei a chiedere ai cinesi in ginocchio più merci. Per evitare che la spirale ci travolga, rischieremo di diventare succubi del Dragone. Il problema è principalmente nostro. Gli Usa infatti si preparano da tempo, già dal periodo di Donald Trump, a tale eventualità. La pratica del reshoring (riportare in patria la produzione) è stata poi implementata dai Dem grazie anche alla crescita della richiesta del gas naturale liquido. Al contrario il Vecchio Continente si trova nella crisi energetica che tutti conosciamo e al momento continua a insistere sulla strada delle rinnovabili. Altro elemento che ci riporta al predominio cinese del mercato. Pannelli solari e batterie elettriche sono imprescindibili dalle componenti cinesi. Sarà complicato uscire da questa crisi. Sicuramente tutti gli europei saranno più poveri fra tre anni. Seguire le linee guida di Bruxelles fino a oggi ha creato ancor più disagio. Basti pensare che fino a sette mesi fa i vertici del Continente negavano addirittura di essere di fronte a problemi strutturali. Da Christine Laga rd e a Ursula von der Leyen, prima o poi qualcuno dovrebbe risponderne.

BOLLETTE CHOC, BERLINO LE TAGLIA NOI INVECE AIUTIAMO I CANTANTI

 



Prima pagina del Sole 24 ore di ieri: «Caro energia: a ottobre + 100%. Una famiglia su cinque rischia di non pagare». Appena un poco più sopra, un altro titolo: «Il fisco premia i big della musica: detrazioni per 119 album» e, sotto alla scritta «Meno tasse per i cantanti», ecco le cifre su cui verrà calcolato uno sconto del 30 per cento: 384.000 euro Malika Ayane, 282.000 Fedez, 252.000 i Måneskin. Seguono, nelle pagine interne, Marracash, Madame, La rappresentante di Lista eccetera. Il beneficio fiscale è merito del decreto Aiuti varato dal governo di Mario Draghi, cui peraltro si aggiunge il contributo del decreto Sostegni del governo di G iuseppe Conte, che per Fe d ez vale altri 280 mila euro, mentre per Loredana Berté solo 7.000 euro di sconto Irap. Sarà un caso, ma molti dei nomi citati sono tra quelli che si sono stracciati le vesti per la vittoria di Giorgia Meloni. Da m ia n o della band romana ha infatti scritto che il 25 settembre è stato un giorno triste per gli italiani e il rapper di Nicosia ha accusato la leader di Fratelli d’Italia di tradire i valori del femminismo. A prescindere dalle ragioni per cui alcuni artisti o pseudoartisti ce l’abbi a n o tanto con la probabile prima donna premier dell’Ita - lia (fa comodo? fa «figo»? semplicemente fanno affari?), dopo aver letto la pagina del quotidiano confindustriale viene spontanea una domanda: ce n’era proprio bisogno? Fra tante famiglie che non riescono a pagare la bolletta e tante imprese che a causa dei costi dell’e n e rgia saranno costrette a tirar giù la serranda, era davvero necessario sostenere gli utili (2,3 milioni) della Zedef, ossia della holding di Fe d erico Leonardo Lucia, in arte Fe d ez , per poi consentirgli di andare in Lamborghini a regalare mille euro ai poveri? Io ho qualche dubbio, soprattutto considerando quel che ci attende. Pesco sempre dal notiziario di ieri. Secondo l’Istat, i prezzi alla produzione su base annua sono aumentati del 40,1 per cento. Siccome è difficile che un’a z ie n d a possa sopportare un tale incremento, le possibili conseguenze che intravedo sono le seguenti: o a fine anno la gran parte delle imprese chiude i battenti, e dunque mettono in libertà (cassa integrazione, mobilità, licenziamenti etc) i dipendenti, oppure aumentano i prezzi. In quest’ultimo caso gli effetti sono intuibili: se ritocchi il listino fai crescere l’inflazione interna, mentre se i tuoi prodotti vanno all’estero è assai probabile che esporterai di meno, perché vista la mala parata economica globale, l’ac qu irente andrà in cerca dei prodotti più convenienti e disdegnerà quelli che costano di più. Nell’uno e nell’a ltro caso, niente di buono per il nostro Paese, e in particolare per le famiglie che, come è facile immaginare, cercheranno di risparmiare, cioè di far quadrare il magro bilancio spendendo meno e dunque, paradossalmente, generando una recessione. Infatti, come con una spirale, si comincia in un punto e si sprofonda sempre di più. Ovviamente, a produrre questo sconquasso è il prezzo dell’energia, senza il quale i costi della produzione aumenterebbero solo di uno 0,6 per cento, con un tasso di incremento annuale contenuto nel 13 per cento. Si poteva prevedere che saremmo arrivati a questo punto? Sì, abbondantemente: bastava pensare che il combinato disposto della richiesta di gas di Paesi come Cina, India, Cambogia, Malesia e Vietnam (il cosiddetto Far East), insieme con la guerra in Ucraina, avrebbe fatto aumentare il prezzo del metano con cui noi alimentiamo le nostre centrali elettriche. Purtroppo, mentre si varavano le sanzioni contro Puti n per fermare l’invasione russa, nessuno ha calcolato le conseguenze e nemmeno si è preoccupato di chiedere agli alleati, cioè a Norvegia, Olanda e Stati Uniti, tre Paesi che grazie all’esplosione del prezzo del gas stanno guadagnando miliardi, di dividere i costi del sostegno all’Ucraina. Sì, ci siamo arruolati nell’esercito di liberazione del territorio occupato da Mosca, fieri di dare il nostro contributo, senza sapere che i moschetti e l’assistenza offerti sarebbero stati poca cosa rispetto ai veri costi della guerra. Così, ecco qui, in piena recessione senza un’id ea per affrontarla. La Gran Bretagna, che pure non è messa bene, ha annunciato un piano da 125 miliardi di sterline per sorreggere l’economia e la Germania ha stanziato 200 miliardi di euro per riportare il prezzo dell’energia a livelli accettabili. E noi? Noi spicci e tante parole, nessuna delle quali decisiva, con il risultato che resta solo da sperare nel nuovo governo. A questo punto ritorno all’inizio: so che il tax credit con cui si stanno regalando soldi a Fe d ez e compagnia è una gocciolina nel mare e certo non sarebbero bastati quei soldi per tagliare le bollette. Tuttavia, insisto: ce n’era proprio bisogno?

Ora l’Oms s’inventa la «permacrisi»

 

Più ancora della crisi, la retorica della crisi è quanto di peggio potesse capitarci: l’ha messa in scena Hans Kluge, direttore di Oms Europa, che in una lettera ha annunciato che «l’Europa è entrata in una crisi sanitaria permanente», già ribattezzata (e hashtaggata, ça va sans dire) come «permacrisi». A leggere le parole di K luge ci si sente un po’ come pugili suonati: a malapena si stava scendendo dal ring del Covid, quando ci si è trovati scaraventati nel mezzo di una guerra con annessa crisi economica e aumento delle bollette, e a quanto pare non è finita. «La colpa non è del Covid», sostiene però K luge: «Abbiamo l’attuale emergenza sanitaria pubblica del vaiolo delle scimmie, così come il recente riemergere della poliomielite di origine vaccinale». A questo si aggiunge «una guerra devastante in Ucraina, aggravata da orribili attacchi alle strutture sanitarie, innescando anche una crisi di salute mentale di proporzioni immense». Finito? Neanche per sogno. La per - m ac ri si che siamo chiamati a combattere si estende anche agli immancabili «cambiamenti climatici», alle «malattie infettive» (come se prima non esistessero) e alla «pandemia delle malattie cardiovascolari»: durante «il Covid», scrive K luge, «i morti di età media giovane a causa di infarti e ictus sono stati cinque volte di più». Qualcuno aveva timidamente azzardato l’ipotesi che questi numeri fossero in aumento anche a causa di una profilassi vaccinale sproporzionata per i più giovani, e probabile causa di un aumento di miocarditi e pericarditi senza precedenti. Ma si sbagliava: tra i giovani, secondo K luge, «i tre principali fattori prevenibili di ictus e infarto sono il consumo di tabacco, l’iperten - sione e l’inquinamento atmosferico». L’ipertensione, quella che nelle persone normali comincia a manifestarsi dopo i c i n qu a nt’anni, «causa un decesso su quattro in Europa». A sua volta «è collegata all’obesi - tà, al consumo di alcol («un decesso su tre fra i giovani è legato all’alcol») e all’inquinamen - to atmosferico, che, solo in Europa, uccide 550.000 persone l’anno, la metà a causa di malattie cardiovascolari». Non dimentichiamoci delle malattie non trasmissibili. Anche queste, «incluso il cancro» sono nel calderone della permacrisi. Stupidi noi a pensare che fossero aumentate perché le nostre strutture sanitarie, che durante il Covid hanno incoraggiato un’ospedalizzazio - ne insostenibile quanto inutile a discapito della medicina territoriale, hanno trascurato la prevenzione oncologica. Non poteva mancare l’Hiv: «È ancora in aumento», avverte K luge, «ma è molto comodo politicamente non averlo più all’ordine del giorno». Chissà cosa penseranno i movimenti Lgbtq quando leggeranno che per Kluge «sono necessari maggiori sforzi per raggiungere le popolazioni chiave, che includono uomini che fanno sesso con uomini, persone transgender, prostitute e partner sessuali di persone in quei gruppi». Non c’è scampo insomma, bisogna entrare in modalità permacrisi. Ci aveva già provato il governo francese nel dicembre del 2020, quando il primo ministro Jean Castex aveva tentato di far approvare il progetto di legge 3714, fortunatamente affossato nel giro di un mese, dall’evocativo titolo Istituzione di un regime di perennizzazione delle urgenze sa n ita rie, che prevedeva totale arbitrarietà del governo su lockdown, controllo dei prezzi, gestione dei beni della collettività territoriale. La Francia, si sa, è allergica ai regimi e ha affossato sul nascere anche questo, se non altro in virtù del fatto che era, ed è, una contraddizione in termini: una crisi è la fase acuta di una malattia; o è permanente, ossia cronica, o è acuta. Per carità, l’obiettivo della lettera di K luge è condivisibile: prepararci alle emergenze sanitarie e rafforzare strutture e i servizi essenziali. Ma che, per conseguirli, si debba vivere in crisi perenne considerandola «la nostra nuova normalità», come scrive K luge, fa intuire quale sia la strategia delle istituzioni sovranazionali: trasmettere ai cittadini un mood di interminabile emergenza che consenta, ancora e «per sempre», la gestione della loro salute e delle loro vite.

Gli States ai loro cittadini: «Via dalla Russia»

 

 Si alza sempre di più il livello dello scontro tra la Russia e gli Stati Uniti. Ieri i cittadini americani sono stati invitati «a lasciare la Russia immediatamente usando le limitate opzioni di trasporto commerciale ancora disponibili». Questo, in sintesi, è quanto si legge sul sito dell’a m ba s c i ata americana a Mosca. L’u f f ic io nel suo alert ricorda come, in particolare, «siano a rischio le persone con doppia cittadinanza americana e russa». Altro brutto segnale è che anche i governi di Bulgaria e Polonia stanno esortando tutti i loro concittadini che si trovano in Russia «a partire immediatamente». Il ministero degli Esteri della Bulgaria chiede ai suoi cittadini «di astenersi dal viaggiare nella Federazione russa e raccomanda agli stessi di considerare la possibilità di lasciare il paese il prima possibile, utilizzando mezzi di trasporto attualmente disponibili». Lo stesso ha fatto il ministero degli Esteri polacco, rilasciando una dichiarazione simile: «In caso di un drastico deterioramento della situazione della sicurezza, della chiusura delle frontiere o di altre circostanze impreviste, l’evacuazione può rivelarsi notevolmente ostacolata o addirittura impossibile. Raccomandiamo che i cittadini della repubblica di Polonia che rimangono nella Federazione russa lascino il suo territorio utilizzando i mezzi commerciali e privati disponibili». Non sono parole da prendere alla leggera, perché si tratta di decisioni che vengono assunte dopo aver consultato le agenzie di intelligence: a Mosca sta per succedere qualcosa di brutto. A proposito di avvertimenti, il ministro degli Esteri polacco, Zbigniew Rau, in visita a Washington, ha ringhiato: «Se Puti n dovesse usare la bomba atomica, la Nato reagirà in maniera convenzionale, quindi non usando u n’arma nucleare, ma la risposta sarà devastante». Nella giornata di ieri si è anche appreso che gli Stati Uniti stanno preparando un nuovo pacchetto di armi da 1,1 miliardi di dollari per l’Ucraina, in previsione dell’annuncio da parte della Russia dell’annessio - ne di territori contesi. Fonti dell’amministrazione a stelle e strisce hanno riferito che il pacchetto comprenderà nuovamente i sistemi anti-missili Himars, munizioni, vari tipi di sistemi anti-drone e radar. Intanto procede il processo di annessione delle regioni ucraine di Lugansk, Donetsk, Kherson e Zaporizhzhia, dove le autorità filorusse hanno tenuto referendum per unirsi a Mosca (non riconosciuti dalla comunità internazionale), tanto che il presidente della Duma, Viaceslav Vol o d i n , all’agenzia Interfax ha dichiarato che «l’agenda del Parlamento russo verrà ridefinita, in modo da tenere lunedì una sessione plenaria straordinaria sull’annessione. Abbiamo già detto, e riaffermiamo all’unanimità, che sosteniamo il percorso verso la salvezza della popolazione della Nuova Russia (Novorossiya)». Mentre il ministero degli Esteri russo ha affermato che «saranno presto intraprese azioni per soddisfare le aspirazioni delle quattro regioni». Su questo tema ieri la Cina ha ribadito la propria contrarietà all’operato del Cremlino, e lo ha fatto attraverso il portavoce del ministro degli Esteri Wa n g We n bi n : «Sulla questione dell’Ucraina la nostra posizione è stata sempre chiara: abbiamo sempre sostenuto che l’integrità sovrana e territoriale di tutti i Paesi dovrebbe essere rispettata così come gli scopi e i principi della Carta dell’Onu». Wang We n bi n ha infine ricordato che «le legittime preoccupazioni sulla sicurezza di tutti i paesi dovrebbero essere prese sul serio e dovrebbero essere sostenuti gli sforzi per una soluzione pacifica della crisi». Parole che non potranno certo far piacere a Vladimir Putin, che vede crescere di continuo i distinguo di Pechino sulla sua guerra. Ieri hanno anche parlato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e quello ucraino Volodymyr Z el e n s ky, que s t’ultimo su Telegram ha ringraziato l’omologo turco «per l’incrollabile sostegno all’integrità territoriale e alla sovranità dell’Ucraina, per la posizione di principio sul non riconoscimento dei finti referendum illegali tenuti dalla Russia nei territori occupati. Apprezziamo molto il ruolo personale di E rd oga n nell’or - ganizzare il recente scambio di prigionieri di guerra e nel dare rifugio ai comandanti ucraini». Altre parole che non piaceranno a Mosca. Sul versante militare, la mobilitazione parziale procede seppur tra molte difficoltà logistiche e l’enorme numero di persone che sta lasciando la Russia. Per tentare di contenere il fenomeno, in una nota pubblicata sul portale di notizie del governo si afferma che la Russia non darà più i passaporti a quelli che vengono richiamati per la leva: «Se un cittadino è già stato chiamato al servizio militare o ha ricevuto una convocazione (per mobilitazione o coscrizione), il passaporto internazionale non verrà concesso». Inoltre le autorità russe stanno istituendo posti di blocco ai confini statali per mobilitare con la forza gli uomini che stanno cercando di evitare il fronte fuggendo dal paese. Dai ieri, secondo lo stato maggiore delle forze armate ucraine, sul campo di battaglia la Russia ha iniziato a schierare prigionieri comuni: «Le persone condannate per reati penali sono arrivate a rinforzare le unità che stanno già combattendo in Ucraina». Mentre sul campo di battaglia non si registrano grandi cambiamenti, la sensazione è che il piano inclinato sul quale ci troviamo continui a farci scivolare verso il baratro.

Nuove sanzioni sulle petroliere

 



Alle compagnie di navigazione e alle compagnie assicurative sarà vietato trasportare o assicurare il petrolio russo se il prezzo a cui viene venduto è superiore a un certo limite. Funzionerà così il nuovo pacchetto di sanzioni contro la Russia proposto ieri dall’esecutivo dell’Unione Europea. Il limite fissato sarà il prezzo al quale il petrolio russo viene attualmente venduto in Asia, circa il 30% in meno rispetto ai prezzi attuali imposti in Europa. Come già accordato anche gli altri alleati del G7, in particolare il Regno Unito, dove la maggior parte delle petroliere sono assicurate, imporranno le stesse sanzioni. La proposta però prima di essere applicata dovrà essere approvata all’unanimità dai 27 Paesi membri del blocco, che dovranno superare le loro divergenze sulle nuove sanzioni. Le contestazioni dovrebbero arrivare soprattutto dal l’Ungheria, dove il primo ministro Viktor Orbán si è mostrato spesso ostile a questo tipo di sanzioni ed è infatti stato il critico più forte all’in - terno dell’Unione. Anche Cipro e Grecia sono state scettiche a lungo perché le loro industrie navali fanno un sacco di soldi trasportando il petrolio russo. Sembrerebbe però che per convincere questi Paesi sia stata concordata una soluzione provvisoria in base alla quale Grecia, Cipro e Malta sarebbero risarcite per i loro sacrifici. In base all’accordo, l’Unione Europea ammorbidirà le sue sanzioni su altri prodotti, rimuovendo di fatto il divieto di spedizione di fertilizzanti, cemento e altri prodotti russi. Sostanzialmente si tratta di un do ut des. Intanto l’Ucraina sta esercitando pressioni sull’Un io n e Europea per includere non solo un tetto massimo per il prezzo del petrolio, ma anche un embargo sul gas russo e la sua industria nucleare nel suo prossimo pacchetto di sanzioni. «Mentre voi contate i penny, noi contiamo le vite», ha detto in un’intervista Ol eg Usten ko, consigliere economico del presidente ucraino Volodymyr Zelensky. L’Unione Europea e gli Stati Uniti sperano di avere il meccanismo di limitazione dei prezzi per le esportazioni petrolifere russe entro il 5 dicembre, quando entreranno in vigore le sanzioni dell’Unio - ne Europea che vietano le importazioni marittime di greggio russo. In ogni caso e nonostante gli accordi stretti, l’ap - provazione potrebbe richiedere del tempo. Ursula von der L eye n però sembra determinata, secondo la presidente della Commissione Europea un nuovo divieto di importazione costerebbe alla Russia 7 miliardi di euro di mancati guadagni. Il blocco amplierebbe anche l’elenco delle esportazioni vietate «per privare la macchina da guerra del Cremlino di tecnologie chiave» dice e aggiunge: «Non accettiamo referendum fasulli né alcun tipo di annessione in Ucraina. E siamo determinati a far pagare al Cremlino il prezzo di questa ulteriore escalation», ha detto ai giornalisti. Le proposte di ieri, infatti, comprendono, oltre alle restrizioni commerciali e al tetto massimo al prezzo del petrolio per i Paesi terzi, anche una nuova lista nera di persone ostili all’o c c id e nte. Si tratta di individui del settore della difesa russo, quelli coinvolti nelle votazioni ad hoc organizzate da Mosca nei territori ucraini occupati, quelli che l’Occidente incolpa per aver diffuso la propaganda russa e quelli che aiutano ad aggirare le sanzioni occidentali. Inoltre, nella proposta, alle società europee sarebbe vietato fornire più servizi alla Russia e ai cittadini europei non sarebbe consentito sedere nei consigli di amministrazione delle società statali russe.

Sicuri che sia stato proprio Putin? Ciò che non quadra nel sabotaggio

 

Atto di sabotaggio. Sulla definizione di quanto accaduto ai due tronconi del gasdotto Nord Stream nessuna delle parti interessate, né il blocco Occidentale, né Mosca, ha dubbi. Le indagini sulle perdite di gas si basano ormai su un’ipotesi di reato ben precisa, ma quanto al probabile sabotatore, lo scontro acceso mette in evidenza contraddizioni e dubbi. La famosa domanda alla base di ogni processo, quel «Cui prodest? A chi giova?» che di solito è un faro per arrivare alla verità, in questo caso getta ancora più confusione sull’intera vicenda. Per l’Europa, la Nato e i Paesi nelle cui acque si è verificato l’incidente, il colpevole è Mosca, anche se solo la Danimarca ha citato apertamente il presunto autore del danneggiamento, mentre gli altri si sono limitati a «suggerirlo». Il ministro della Difesa di Copenaghen, Mor ten B o d s kov, parlando alla televisione danese ha infatti detto testualmente: «La Russia ha una presenza militare significativa nella regione del Mar Baltico e ci aspettiamo che continui a lanciare sciabolate». La polizia dell’a l tro Paese direttamente coinvolto, la Svezia, ha aperto un’indagine per sabotaggio grave. Danimarca e Svezia, insieme, hanno inoltre convocato un summit d’urgenza per prendere le contromisure di fronte alla tripla fuga di gas: «Dobbiamo capire bene come tutto ciò influirà sulla nostra sicurezza nazionale», ha fatto sapere la ministra degli esteri svedese AnnL i n d e, anche a nome dell’omologo danese. Le allusioni, neanche troppo velate, alla responsabilità di Puti n sono state fatte in più occasioni, anche se non è chiaro perché Mosca avrebbe dovuto mettere a rischio quei gasdotti che insieme ai partner europei ha impiegato anni a costruire, al costo di oltre 20 miliardi di dollari. L’interesse russo, teoricamente, sarebbe quello di mantenere intatta e funzionante la sua arma di ricatto contro l’Europa, chiudendo e riaprendo i rubinetti quando e con chi conviene di più. L’aspetto particolarmente allarmante, qualora fosse stata davvero la Russia a compiere il sabotaggio, sarebbe uno in particolare. L’incidente «tecnico», in entrambi i tronconi del Nord Stream, ha investito direttamente la Zona economica esclusiva delle due nuove matricole della Nato: due perdite di gas sono state rilevate in acque danesi, la terza ricade nella Zee svedese. Ci sarebbe da preoccuparsi dunque se si scoprisse che Mosca ha la capacità di penetrare in acque controllate dalla Nato per compiere ciò che più le aggrada, indisturbatamente. Non solo. Questa eventualità potrebbe costituire il casus belli tra Usa e Russia, dunque bisogna capire se c’è un interesse della Federazione in tal senso: diversamente, il Cremlino avrebbe dato il via a un’a z io - ne scriteriata e pericolosa. Ma in questo giallo si è inserita una dichiarazione che ha fatto davvero scalpore. L’ex ministro degli Esteri polacco e attuale europarlamentare R ad o sl av S i kor s k i ha suggerito, in un modo abbastanza pittoresco, che gli Stati Uniti sarebbero coinvolti in qualche modo nei misteriosi incidenti al gasdotto. S i ko r s k i ha postato infatti su Twitter una foto del luogo dell’incidente con la didascalia «Grazie, Usa». S i ko r s k i ha proseguito affermando che « l’unica logica di Nord Stream era quella di permettere a Puti n di impunemente ricattare o dichiarare guerra all’Europa orientale». Il ringraziamento da parte del polacco ha provocato la reazione della portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Z a k h a rova , che ha chiesto se la posizione del politico polacco fosse «una dichiarazione ufficiale sul fatto che si tratta di un attacco terroristico». S i ko r s k i ha risposto che «tutti gli stati ucraini e baltici si sono opposti alla costruzione di Nord Stream per 20 anni. Ora 20 miliardi di dollari di rottami metallici giacciono sul fondo del mare, un altro costo per la Russia per la sua decisione criminale di invadere l’Ucraina». Insomma, il politico polacco ha lodato quella che ha poi definito «un’operazione di manutenzione speciale». Anche il principale accusato ritiene che dietro quanto accaduto ci sia lo zampino Usa, tanto che il viceministro degli Esteri russo Alexander Grus h ko, ha dichiarato che Mosca è aperta a «indagare congiuntamente» per capire le cause delle fughe di gas. Il Cremlino ha definito «stupido e assurdo» accusare la Russia. Il portavoce Pe s kov ha infatti definito le perdite come «problematiche» e ricordato che il gas russo «costa un sacco di soldi e ora si sta dissolvendo nell’a ria ». Pe s kov ha insinuato che chi beneficia di più del fatto che i gasdotti non funzionino sono gli Stati Uniti: «Vediamo un aumento significativo dei profitti delle compagnie energetiche americane che stanno fornendo gas all’Eu - ropa». Il dito del portavoce del Cremlino e quello della Z a k h a rova sono stati puntati direttamente contro il presidente Usa B id e n . E tra i fan di Mosca c’è chi ha riesumato il video di una conferenza stampa tenuta da B id e n prima dell’inizio della guerra in Ucraina. «Se la Russia invaderà l’Ucra ina non ci sarà più un Nord Stream 2. Vi metteremo fine», dice il presidente Usa nel filmato. Alla domanda di una giornalista su come gli Stati Uniti potrebbero farlo, B id e n risponde: «Le assicuro che saremo in grado di farlo». Z akh arova ha dunque invitato Jo e B id e n a rispondere alla domanda «se gli Stati Uniti d’America hanno realizzato la loro minaccia il 25 e 26 settembre 2022». La Russia intende inoltre chiedere una riunione del Consiglio di sicurezza dell’Onu sui danni subiti dal Nord Stream e Nord Stream 2. 

L’Italia paga poco il gas ed esporta Ma il banco di prova sarà l’i nv e r n o

 

 I prezzi del gas in Europa mostrano in questi giorni un andamento altalenante, pur restando sempre su valori alti. Ad influenzare il corso della commodity contribuiscono diversi fatto r i . Le vicende legate ai due gasdotti Nord Stream danneggiati non hanno mosso il mercato più di tanto, considerato che il mercato aveva già scontato il fatto che il gas in Germania non sarebbe più arrivato tramite quella direttrice. Piuttosto, a muovere al rialzo i prezzi ha contribuito la vicenda che vede contrapposti in un arbitrato internazionale Gazprom, il monopolista russo del gas, e Naftogaz, la compagnia di petrolio e gas nazionale uc ra i n a . Il tema riguarda il mancato pagamento da parte di Gazprom di diritti di transito del gas in relazione allo snodo di Sohranivka, dal quale il gas non passa più da diversi mesi per una invocata forza maggiore da parte degli ucraini. Un compressore sarebbe stato infatti danneggiato nel corso di un attacco e non sarebbe possibile la r i pa ra z io n e. Naftogaz pretende invece il pagamento e ha depositato appello presso la Corte arbitrale internazion a l e. Gazprom ha quindi paventato la possibilità che il governo russo decida di includere Naftogaz tra le società da sanzionare. Ciò comporterebbe l’imp ossibilità per Gazprom di adempiere i propri obblighi contrattuali, e dunque di consegnare il gas all’Uc ra i n a . La questione riguarda anche l’Europa ed in particolare l’Italia, poiché il gas che entra in Ucraina dalla Russia viene poi esportato in Slovacchia e da lì in Austria e quindi in Italia. Si tratta dell’ultimo gasdotto ancora in esercizio dalla Russia verso l’Europa occidentale, che oggi porta circa 40 milioni di metri cubi al giorno. Nel frattempo, il prezzo in Italia è in questi giorni significativamente più basso che al Ttf. Mentre gli stoccaggi italiani sono pieni all’89%, il prezzo del gas al Psv (l’hub italiano) è stato ieri di 39 euro a MWh più basso di quello all’hub olandese sulla prima scadenza a termine (203 euro al MWh al Ttf e 164 euro al MWh al Psv). Questo perché la domanda dei consumatori è bassa, soprattutto quella industriale è molto al di sotto delle medie del periodo. Al contempo le importazioni procedono bene: ieri dall’Algeria sono arrivati oltre 80 milioni di metri cubi, dall’Azerbaigian oltre 30, i rigassificatori di Livorno e Ravenna hanno immesso complessivamente quasi 40 milioni di metri c ubi . Gli stoccaggi vengono riempiti più lentamente (ieri 47 milioni di metri cubi in iniezione), ragion per cui in alcune ore del giorno è possibile esportare alcuni quantitativi, come del resto capita spesso. Rispetto all’hub olandese, al Psv arriva meno Lng e gas dal Nord Africa, che quindi ha condizioni di prezzo diverse, ma soprattutto al momento il sistema italiano è «lungo». La situazione internazionale però non permette di rilassarsi: stiamo parlando ancora di condizioni di prezzo stellari, da sei a dieci volte superiori a quelle di un anno fa, quando già i valori erano decollati. Con l’inverno che si avvicina, il clima rimane la variabile più importante dal lato della domanda. 

L’intrigo del gas nel Baltico avvicina la guerra totale

 

Mentre le superpotenze si scambiano accuse per il sabotaggio dei gasdotti nel Baltico, la situazione sul fronte ucraino scivola lungo il piano inclinato che conduce al peggior scenario. Ieri le ambasciate di Stati Uniti, Polonia e Bulgaria hanno invitato i loro cittadini a lasciare la Russia «con ogni mezzo disponibile». Lunedì la Duma terrà seduta plenaria sull’a n n e s s io - ne dei territori occupati: siamo all’escalation definitiva. Passata la sorpresa, mentre ancora il mar Baltico ribolle in superficie per il gas che fuoriesce dagli squarci nei tubi del Nord Stream, si cerca di fare il punto sui danni e sulle conseguenze della riuscita operazione di sabotaggio ad opera di ignoti. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha lanciato strali verso i non identificati autori dei danneggiamenti: «L’inter - ruzione intenzionale delle infrastrutture energetiche europee attive è inaccettabile e comporterà la risposta più severa possibile». In cosa si sostanzi la risposta e soprattutto verso chi è ancora tutto da capire. Ieri fonti governative tedesche lasciavano filtrare preoccupazione sul fatto che i due gasdotti potrebbero diventare inutilizzabili für immer (per sempre): in assenza di una rapida riparazione, l’acqua salata potrebbe corrodere l’interno delle tubature rendendole inservibili. Forse è vero, ma certo la sentenza appare un po’ frettolosa, dato che ancora non è stata stabilita l’entità del danno. Appare evidente la dissonanza tra la Commissione europea che pretende di abbandonare per sempre, in tutta fretta, le forniture di gas dalla Russia e il governo tedesco che si preoccupa per infrastrutture che in ogni caso, secondo i desideri della Commissione, non dovrebbero essere mai più util i z zate. Ci ha pensato l’agenzia federale tedesca delle reti (Bundesnetzagentur) a chiarire ieri che gli eventi riguardanti i due gasdotti Nord Stream non hanno influenza sulla situazione delle forniture di gas in Germania. Le due linee, infatti, non erano in esercizio, sia pure contenendo quantitativi di gas in pressione: la prima era ferma da quasi due mesi, la seconda non è mai entrata in marcia. Non solo: il governo di Olaf Scholzha messo a punto un piano basato su tagli ai consumi, investimenti in rigassificatori, fornitori alternativi e solidarietà europea che già teneva conto di un apporto del Nord Stream 1&2 pari a zero. L’indifferenza per la sorte dei volumi portati dai due Nord Stream si è riflessa anche nei prezzi di mercato, che sono saliti martedì solo alla notizia che Gazprom, in relazione ad una vecchia disputa con l’operatore ucraino Naftogaz, sarebbe intenzionata a sanzionare l’Ucra ina chiudendo il flusso di gas che a tutt’oggi la alimenta e che viene poi ribaltato in Europa. La Russia ha definito «stupide» le accuse di aver sabotato i propri gasdotti e si è detta intenzionata a chiedere la convocazione di una riunione del Consiglio di sicurezza dell’Onu per discutere dell’attac - co all’infrastruttura. Gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno fatto sapere che è «ridicolo evocare gli Stati Uniti per Nord Stream» e hanno invitato i cittadini americani a lasciare la Russia «finché sono a disposizione mezzi di trasporto». La Norvegia ha deciso di schierare l’esercito a protezione delle infrastrutture di produzione e trasporto di petrolio e gas, mentre la Danimarca si è detta preoccupata per la sicurezza nell’a rea del Mar Baltico. L’Agenzia danese per l’energia si aspetta che il gas finisca di fuoriuscire dalle condotte entro la fine della settimana, e solo dopo, afferma, si potrà fare una stima dei danni. Peraltro, alcune aziende specializzate danesi sembrano ritenere che le riparazioni non siano così impossibili né così a lungo term i n e. In Germania resta la profonda impressione suscitata dall’episodio. Il grande balzo tedesco verso Est, per il quale i gasdotti erano trampolino ideale, si sta trasformando in una ritirata catastrofica, sotto il severo richiamo degli Stati Uniti all’appartenenza Nato. Gli Usa hanno con la Germania un rapporto difficile, in cui la reciproca fiducia non è superiore alla freddezza. Nel maggio del 2021, ad esempio, scoppiò lo scandalo delle intercettazioni condotte dalla Nsa americana sui vertici politici tedeschi: Angela Merkel in primis, ma anche Frank - Walter Steinmeier, attuale Presidente della repubblica, e Peer Steinbrück, entrambi rappresentanti del SPD. Non era la prima volta che una simile questione emergeva, ma nell’occasione risultò che la Danimarca aveva fattivamente collaborato all’o p e ra z io n e di spionaggio e per questo le reprimende franco-tedesche si concentrarono su Copenhagen. Nessun appunto formale venne mosso nei confronti di Washington e il caso si sgonfiò abbastanza rapidam e nte. La Germania dovrà dotarsi ora di una nuova direzione, che non riguarderà soltanto le rotte di importazione del gas naturale. Più in generale, i fatti di questi mesi hanno messo in crisi il modello europeo germano-centrico, dove Berlino dettava l’agenda in tandem con la Francia. Più ancora, hanno destabilizzato la Germania e il ruolo che questa ha sempre reclamato per sé. La classe dirigente tedesca ha preteso di interpretare un ruolo che è stato incardinato nella costruzione europea, che ora si rivela in tutta la sua tragica precarietà perché lontana anni luce dalla realtà. L’idea di una rifiorita potenza tedesca è un portato storico che sembra essere ancora oggi un tratto distintivo delle élites teutoniche. Allo stesso tempo, il tentativo di rendere questo rinato dominio più accettabile vestendolo del manto europeista ha illuso la Germania che tutto sarebbe stato possibile, che tanto le sarebbe stato perdonato, che molti occhi sarebbero rimasti chiusi. Così non è stato e l’uso del veicolo europeo per allargarsi verso Oriente non ha passato l’esame della realtà. Ora si tratta di capire se Berlino nei prossimi mesi saprà trovare un proprio ruolo o se invece ripiegherà verso il topos nordico del crepuscolo degli dei.



Incubo bollette sugli italiani: una famiglia su cinque rischia di non poter pagare

 

Aumentano i divari sociali. L’insieme di schock energetico e aumento dei prezzi renderà sempre più difficile la vita per le famiglie che, pur appartenendo ad un ceto medio, riusciranno con più fatica a pagare tutte le spese mensili. Continuerà a non soffrire una piccola parte della popolazione, quel 20% più ricco che non viene toccato dalla crisi. L’allarme “bomba sociale” viene trattato dalla ricerca di Assirm e Confindustria Intelect dedicata alla condizioni economiche delle famiglie, realizzata con 1.005 interviste a famiglie su tutto il territorio nazionale (la rilevazione è stata realizzata dal 12 al 14 settembre 2022). Dall’indagine emerge che il consumatore finale potrebbe trovarsi di fronte alla drammatica scelta su cosa pagare prioritariamente: bollette, alimenti, affitto. E sullo sfondo ci potrebbe essere una nuova “ondata” di npl bancari, con conseguente crisi degli istituti di credito. Lo studio fotografa un sentiment di preoccupazione e incertezza sul futuro, trasversale e piuttosto omogeneo nel Paese. Parlando della ripresa economica, un terzo del campione (33% delle famiglie) prevede che avverrà dopo il 2024 e una quota altrettanto ampia non si sente in grado di esprimere una valutazione (36%). Solo il 16% la immagina nel corso 2023, dunque le famiglie percepiscono una situazione di incertezza persistente. Un altro dato chiave riguarda l’evoluzione delle spese correnti e per i consumi della famiglia: due terzi del campione (66%) dichiarano che nel corso dell’ultimo anno, escludendo mutui o affitti e bollette, sono state più alte o molto più alte del solito. Considerando la situazione finanziaria attuale, il 41% delle famiglie la valuta preoccupante (piuttosto o molto, contro un 20% che la valuta molto o abbastanza tranquilla). In prospettiva futura una percentuale simile (40%) pensa che sia molto o abbastanza probabile dover fare ricorso ai risparmi per far fronte alle spese fisse dei prossimi mesi (con un 24% che lo ritiene poco o per niente probabile). Tra le percezioni e i timori generati dalla situazione attuale, quasi una famiglia su cinque (18%) si dichiara molto preoccupata di non riuscire a pagare le bollette (luce, gas, acqua), la stessa quota è molto d’accordo sul fatto che, finita quest’emergenza, non ci si potrà occupare delle problematiche ambientali perché ci saranno problemi ben più gravi da affrontare. Le preoccupazioni delle famiglie sembrano riflettersi anche su alcuni cambiamenti nelle abitudini di acquisto. Infatti il 41% del campione dichiara di aver modificato negli ultimi 12 mesi il modo di fare la spesa in riferimento alla scelta delle marche: adesso sceglie prevalentemente le marche in promozione o meno costose. Analizzando nel dettaglio le diverse categorie di beni, quelle più voluttuarie hanno visto maggiori diminuzioni di spesa nel corso dell’ultimo anno, come prevedibile. In particolare si tratta delle spese legate ai viaggi e all’abbigliamento (rispettivamente 53% e 50% del campione), seguite dalle spese per il wellness/benessere fisico (49%), i device digitali (48%) e l’intrattenimento/svago (47%). Secondo Saverio Addante, presidente Confindustria Intellect, «la situazione è drammatica: gli italiani sono convinti di dover tagliare qualunque spesa non essenziale. Tutto ciò che non è strettamente necessario verrà limitato per dare precedenza alle spese indispensabili come le bollette, i mutui e le spese alimentari. Questo significa che stiamo andando incontro alla stagnazione, le industrie non producono perché i costi sono più alti dei possibili ricavi ma, dall’altra parte le famiglie non chiedono perché non hanno soldi». Matteo Lucchi, presidente Assirm, sottolinea quanto «la percezione di un consistente incremento delle spese correnti e dei consumi coinvolga la maggioranza delle famiglie. Il 41% valuta la propria situazione finanziaria preoccupante e, in prospettiva futura, una percentuale analoga ritiene di dover fare ricorso ai risparmi per far fronte alle spese fisse. Una famiglia su cinque si dichiara molto preoccupata di non riuscire a pagare le bollette».

«Dal cambiamento climatico nuove malattie, prepariamoci ad affrontare le crisi sanitarie»

 

Quando fu creata, un anno fa, la nuova autorità europea preposta a prevedere e a gestire le crisi sanitarie (nota con l’acronimo HERA) era stata accolta per lo più con una alzata di spalle. L’attenzione era tutta rivolta alla pandemia da coronavirus, in piena evoluzione. Dodici mesi dopo il nuovo organismo è già in prima linea, alle prese con il vaiolo delle scimmie e le minacce nucleari russe, mentre il cambiamento climatico è fonte di nuove e inattese malattie. «In questa fase, il nostro compito è doppio: gestire la crisi Covid, non del tutto terminata, e prepararci alla prossima emergenza – spiega il direttore di HERA, Pierre Delsaux a un gruppo di giornali europei tra cui Il Sole 24 Ore –. Sì, perché non possiamo dire con certezza che si siamo lasciati alle spalle la pandemia da coronavirus. Non si può escludere una nuova ondata di contagi». L’opinione contrasta con quella del presidente americano Joe Biden che ha annunciato all’inizio di settembre la fine dell’epidemia. Proposto dalla Commissione europea, il nuovo organismo è nato il 1° ottobre 2021. Ai tempi aveva una decina di funzionari. Oggi punta a chiudere il 2022 con 85 dipendenti (reclutati sia dentro che fuori l’esecutivo comunitario). Può contare su un congruo bilancio annuo: un miliardo di euro. HERA è nata sulla falsariga dell’agenzia federale americana BARDA (il cui acronimo sta per Biomedical Advanced Research and Development Authority). In luglio, il nuovo organismo europeo ha individuato le tre principali minacce sanitarie del momento: eventuali nuove epidemie virali; minacce chimiche, biologiche, radiologiche e nucleari; e la crescente resistenza dei microbi agli antibiotici. Nei tre campi, il compito di HERA è di promuovere l’analisi e la ricerca, stilare una lista di contromisure, assicurare una preparazione minima dell’Unione e dei paesi membri, con l’acquisto tra le altre cose di materiale e medicinali. «Ci dobbiamo preparare ad affrontare molte più crisi sanitarie che in passato – avverte il nostro interlocutore –. Tra le altre cose, il cambiamento climatico sta modificando il quadro sanitario. Stanno emergendo malattie prima inesistenti». Sul fronte nucleare e chimico, lo sguardo corre alla guerra in Ucraina e ai recenti e preoccupanti avvertimenti del Cremlino. Sul versante degli antibiotici, l’emergenza non è banale: ogni anno nel mondo 1,3 milioni di persone muoiono per via di una resistenza dei farmaci ai batteri. Il tentativo della Commissione europea è di creare una unione della salute dopo che la pandemia da coronavirus ha mostrato i limiti di lasciare la competenza sanitaria solo in mani nazionali. Non è intenzione del nuovo ente diventare la centrale d’acquisto dei medicinali a livello europeo. Il compito di HERA è di coordinare il lavoro dei paesi membri e accentrare nel caso la reazione nei momenti di emergenza, come nel caso del vaccino contro il vaiolo della scimmia. «Quando scoppiò la pandemia da Covid-19, la Commissione europea si è incaricata di negoziare con le case farmaceutiche, ma l’acquisto vero e proprio dei vaccini fu fatto dai governi – prosegue ancora Pierre Delsaux -. Nel caso del vaiolo delle scimmie, per la prima volta HERA ha acquistato i medicinali con il proprio bilancio e li ha distribuiti ai paesi membri. In tutto 334mila confezioni in 24 paesi su 27. Il negoziato è durato appena tre settimane e per noi è stato un vero successo». Nel contempo l’organismo europeo ha anche acquistato farmaci per il trattamento contro questa specifica malattia. Il dirigente di HERA è convinto che senza l’intervento dell’organismo comunitario «la maggior parte dei paesi sarebbe rimasto senza vaccini». Perché? «Prima di tutto perché il produttore è uno solo e il prodotto è molto costoso. In secondo luogo, perché per le case farmaceutiche è molto più comodo trattare con un solo interlocutore». HERA ha potuto agire in modo così veloce e flessibile perché l’organismo è una entità della Commissione, non una agenzia autonoma (gli iter procedurali sono più semplici). Sul fronte della pandemia da Covid-19 (in molti paesi europei è attualmente in corso la campagna di vaccinazione della quarta dose), sono stati distribuiti attraverso i 27 Stati membri dell’Unione europea 1,3 miliardi di dosi. Nel frattempo, l’Europa ha prodotto in tutto 4,2 miliardi di dosi, due terzi delle quali sono state esportate. «Di queste dosi, 500 milioni sono state donate», conclude il direttore di HERA, notando che la Ue «non ha chiuso le proprie frontiere», anzi ha assicurato la cooperazione internazionale.

Gli Usa contro la cina : Harris «Rafforzeremo legami con Taiwan»

 

Gli Usa intendono approfondire i legami «non ufficiali» con Taiwan. Lo ha detto la vicepresidente Usa Kamala Harris, nel corso della visita in Asia, dal Giappone. Per Harris le azioni della Cina nel Pacifico, con le esercitazioni militari e le incursioni dimostrative su Taiwan, sono «inquietanti» e «minano l’ordine internazionale basato sulle regole». Harris ha ribadito che gli Usa «si opporranno a ogni cambiamento unilaterale dello status quo di Taiwan» e «continueranno a sostenere l’autodifesa di Taiwan». Dura la risposta di Pechino che ha accusato Washington di non rispettare gli impegni. Per il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Wang Wenbin, «gli Usa devono tornare ad aderire alla politica dell’Unica Cina e chiarire in modo inequivocabile che si oppongono a tutte le attività separatiste di Taiwan».

giovedì 29 settembre 2022

Bruxelles propone nuove sanzioni contro la Russia

 

Bruxelles ha annunciato nuove misure contro Mosca, all’indomani dell’esito plebiscitario dei referendum «farsa», sull’annessione dei territori ucraini occupati. «La Russia deve pagare per questa ulteriore escalation», ha detto la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, presentando l’ottavo pacchetto di sanzioni. «La Ue non accetterà mai» l’esito dei referendum, ha aggiunto. Tetto al prezzo del petrolio Anche in risposta alla minaccia di usare armi nucleari nel conflitto in Ucraina, Bruxelles propone «nuovi radicali divieti all’importazione di prodotti russi, per tenerli fuori dal mercato europeo e privare la Russia di ulteriori 7 miliardi di euro di entrate», ha detto ieri von der Leyen. La Commissione propone anche di estendere il divieto di esportazione in Russia di tecnologie militari, componenti elettronici e sostanze chimiche. Von der Leyen ha aggiunto che la Ue deve «porre le basi legali» per fissare un tetto sul prezzo del petrolio russo. L’Unione ha già deciso di vietare l’import di greggio trasportato via mare a partire dal 5 dicembre (5 febbraio 2023 per i prodotti raffinati). Sul price cap c’è un accordo di principio tra i Paesi del G7, riguarda il petrolio venduto dalla Russia a Paesi terzi, attraverso il divieto di assicurare e trasportare il greggio, se non si rispetta il tetto. Nel pacchetto c’è anche la proposta di vietare ai cittadini Ue di sedere negli organi di governo delle società di Stato russe. Sarà poi estesa la lista nera degli individui sanzionati, includendovi «le persone coinvolte nell’occupazione russa e nell’annessione dei territori ucraini, compreso chi ha organizzato i referendum», ha spiegato l’Alto rappresentante Ue per la politica estera, Josep Borrell. Nell’elenco finirà anche «chi diffonde disinformazione sulla guerra e chi finanzia le aree occupate dalla Russia in Ucraina». Le persone che aiutano la Russia a eludere le sanzioni rischieranno di finire a loro volta sotto sanzioni. «La nostra strategia sta funzionando, le nostre misure stanno avendo un effetto persuasivo», ha detto Borrell. Orban si smarca Il pacchetto di sanzioni arriva mentre salgono le tensioni per il sabotaggio dei gasdotti Nord Stream 1 e 2 nel Mar Baltico. Le proposte devono essere approvate dai 27 Paesi membri della Ue, un passaggio che potrebbe richiedere tempo. Il premier ungherese Viktor Orban ha già annunciato che nel Paese sarà indetta una consultazione nazionale sulle sanzioni energetiche contro la Russia. Annessione sempre più vicina I capi delle regioni coinvolte nei referendum hanno fatto appello al presidente russo Vladimir Putin per una rapida annessione. «Il Donbas è Russia, lo era, lo è e lo sarà», ha dichiarato Denis Pushilin, il leader dell’autoproclamata Repubblica popolare di Donetsk, dove il referendum è passato con il 99,2%. Si votava anche nel Luhansk (98,4% di sì), Kherson (87%) e nella regione di Zaporizhzhia (93,1%), quella dell’omonima centrale nucleare, più volte sfiorata dai combattimenti negli ultimi mesi. Putin potrebbe annunciare l’annessione già domani, nel suo discorso al Parlamento, che lunedì si riunirà in sessione straordinaria. Le quattro regioni costituiscono il 15% del territorio dell’Ucraina e Kiev ha più volte affermato che la loro annessione precluderà qualsiasi negoziati di pace. Le aree interessate non sono peraltro sotto il pieno controllo delle forze russe. Per annettere i territori dovrà essere stipulato e ratificato un trattato dal Parlamento russo. Le regioni saranno a quel punto considerate territorio nazionale russo, sottoposto al sistema di difesa di Mosca, come più volte dichiarato dal Cremlino. Condanne all’annessione sono arrivate da diversi Paesi. Perfino la Serbia, storico alleato di Mosca, prende le distanze. «Noi difendiamo la nostra integrità territoriale ed è nel nostro interesse difendere l’integrità territoriale di Paesi riconosciuti internazionalmente», ha detto il presidente Aleksandar Vucic. Dagli Usa arrivano nuovi aiuti militari all’Ucraina, per 1,1 miliardi di dollari. Anche Washington studia nuove sanzioni contro Mosca. Merkel: prendere Putin sul serio L’ex cancelliera tedesca Angela Merkel invita a «prendere sul serio le parole di Putin e a non liquidarle a priori come se fossero un bluff, per preservare margini di manovra».

Bollette al rialzo dei record, atteso un rincaro del 100%

 

«Stiamo cercando di vedere se ci sono i margini per contenere gli aumenti», sussurrava ieri il presidente dell’Autorità per l’energia, le reti e l’ambiente (Arera), Stefano Besseghini, a margine della prima della due giorni della ventunesima edizione dell’Italian Energy Summit organizzato a Milano da Il Sole 24 Ore e dal 24 Ore Eventi, che è stato aperto dall’intervento del direttore del Sole 24 Ore Fabio Tamburini e che ha visto la partecipazione di oltre 2.600 iscritti tra pubblico in streaming e presenti in sala. Secondo gli operatori del settore le stime dei rincari sono impietose, un +100% per la componente energia delle bollette della luce, da 25 centesimi al chilowattora un raddoppio a 50 centesimi, e fanno apparire addirittura sobrie le previsioni del +60% preconizzate con ottimismo martedì dagli esperti di Nomisma Energia. Con ogni probabilità la delibera dell’Arera sarà emanata oggi oppure domani, e sarà operativa da sabato 1° ottobre. È l’aggiornamento trimestrale delle tariffe elettriche per gli ultimi irriducibili consumatori domestici e per le piccolissime imprese rimasti ancorati al vecchio mercato tutelato, con le tariffe regolate dall’Arera, i quali finora hanno evitato gli aumenti di mercato sentiti in pieno dai consumatori sul settore libero. Da mesi l’Authority e il Governo hanno adottato contromisure finalizzate a risparmiare i rincari fulminanti ai consumatori tutelati. Ma ora le manopole della sintonia su cui manovrare sono arrivate a fine corsa e dalle bollette non si può più nascondere mezzo anno di aumenti ripidi che gli altri consumatori hanno già sentito. Serviranno, dunque, nuovi interventi per alleggerire l’effetto persistente dei rincari. «C’è una situazione di difficoltà complessiva e fisiosologica che dobbiamo affrontare — ha aggiunto Besseghini. — Proprio in questo momento è importante che ci sia una grande presenza nei ruoli di responsabilità, anche in questa fase di transizione politica». Un altro tema rovente che ha tenuto ieri banco è quello della sicurezza energetica e dei rischi che i consumatori possano soffrire durante l’inverno razionamenti al metano o all’eletUcraina, ha spiegato il top manager, «come Eni siamo stati molto rapidi sulla diversificazione dei fornitori di gas, l’Algeria ha più che raddoppiato il suo contributo, ci darà 3 miliardi di metri cubi addizionali da questo inverno e arriveremo a regime a 9 miliardi di metri cubi in più: complessivamente il contributo del Paese sarà di 20 miliardi di metri cubi e rimpiazzerà, per noi, buona parte del gas russo». Poi, si sono aperti nuovi capitoli che guardano a Egitto, Qatar, Nigeria, Angola, Congo, Indonesia e Mozambico, da dove arriveranno flussi aggiuntivi di Gnl. Per emanciparsi dal gas russo, però, servono ha ribadito Descalzi, i nuovi rigassificatori galleggianti. Perché, è il suo messaggio, occorre accelerare anche sulle infrastrutture ed eliminare gli ultimi colli di bottiglia sulla rete. L’ad di Enel, Francesco Starace, ha invece spostato il focus sugli effetti della volatilità dell’indice Ttf sulle utitricità che con quel metano si produce. Ma nel corso della discussione sono emerse anche altre partite, tutte strettamente legate all’emergenza gas, a cominciare dal ruolo dell’Algeria. Da dove l’Italia importa a rubinetti spalancati e il cui metano in questi giorni presenta prezzi più convenienti rispetto ad altre fonti di approvvigionamento. Mentre lavorano già al massimo i tre rigassificatori esistenti nell’attesa che arrivino a dama i due impianti galleggianti (Piombino e Ravenna) che Snam ha acquistato su mandato del governo. 8Come l’import di gas, in forte accelerazione, dall’Azerbaigian attraverso il Tap. L’Italia sta quindi costruendo il suo percorso di addio progressivo dal gas di Mosca e lo sta facendo anche attraverso un’altra leva strategica che ieri, come ha annunciato il ministro della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, ha raggiunto l’obiettivo del 90% in anticipo rispetto alla scadenza di fine autunno. «Un traguardo reso possibile dall’intenso lavoro portato avanti dal governo in questi mesi, grazie anche a Snam e al supporto del Gse e dell’Arera», ha sottolineato Cingolani. «Tale risultato ci consente di puntare verso un obiettivo ancora più ambizioso, al quale lavoreremo nelle prossime settimane, volto a raggiungere il 92-93% di riempimento degli stoccaggi, così da garantire maggior flessibilità in caso di picchi sui consumi invernali». Sulle riserve e sul contributo fornito, in qualità di operatore di ultima istanza insieme a Snam, è tornato anche l’amministratore unico del Gse, Andrea Ripa di Meana, che ha passato in rassegna, con un lungo excursus, le attività della controllata del Mef, impegnata in prima linea su diversi fronti, non ultimo quello dei due decreti per garantire elettricità e gas a prezzi calmierati a clienti industriali ed energìvori (energy and gas release). Il primo fronte è già arrivato a traguardo, mentre sul secondo, ha spiegato Ripa di Meana, «i margini saranno definiti dal nuovo governo. Lo strumento c’è già e volendo lo si può attivare con immediatezza». Accanto agli stoccaggi, c’è poi tutta l’attività di diversificazione energetica che il governo sta portando avanti e che ha visto l’Eni al fianco dell’esecutivo. E proprio il numero uno del gruppo, Claudio Descalzi, ha rimesso ieri in fila le tappe dell’affrancamento energetico. Dall’inizio della crisi in  Ucraina, ha spiegato il top manager, «come Eni siamo stati molto rapidi sulla diversificazione dei fornitori di gas, l’Algeria ha più che raddoppiato il suo contributo, ci darà 3 miliardi di metri cubi addizionali da questo inverno e arriveremo a regime a 9 miliardi di metri cubi in più: complessivamente il contributo del Paese sarà di 20 miliardi di metri cubi e rimpiazzerà, per noi, buona parte del gas russo». Poi, si sono aperti nuovi capitoli che guardano a Egitto, Qatar, Nigeria, Angola, Congo, Indonesia e Mozambico, da dove arriveranno flussi aggiuntivi di Gnl. Per emanciparsi dal gas russo, però, servono ha ribadito Descalzi, i nuovi rigassificatori galleggianti. Perché, è il suo messaggio, occorre accelerare anche sulle infrastrutture ed eliminare gli ultimi colli di bottiglia sulla rete. L’ad di Enel, Francesco Starace, ha invece spostato il focus sugli effetti della volatilità dell’indice Ttf sulle utility. «Siamo nella situazione in cui molti paesi europei sono dovuti intervenire a livello di governo per sostenere alcune grandi aziende che si trovavano in difficoltà, riteniamo che sia giusto che lo facciano tutti, quindi anche il governo italiano, per mettere tutti sullo stesso livello», ha detto parlando degli esborsi di cassa che le utility sono chiamate a fare a fronte di contratti di derivati sulla vendita di energia negoziati nelle Borse europee. E in Italia? Secondo il ceo di Enel, servirebbero garanzie pubbliche per utility in modo tale che le banche possano anticipare la liquidità. Servono, quindi, interventi a sostegno del sistema ma è necessario anche garantire il rispetto del cronoprogramma fissato dall’esecutivo per l’entrata in servizio dei rigassificatori galleggianti per i quali, ha ricordato il ceo di Snam, Stefano Venier, «abbiamo presentato le relative istanze a luglio e i cui processi autorizzativi dovrebbero concludersi per fine ottobre-inizio novembre». Venier ha poi spiegato che Snam ha intenzione «di avviare con Eni un progetto al largo di Ravenna, dove sperimenteremo la cattura della CO2 prodotta dalle imprese della Pianura Padana». Cruciale, poi, sarà anche il contributo di rinnovabili e accumuli, come ha evidenziato l’ad di Terna, Stefano Donnarumma. «Terna ha da tempo evidenziato la necessità di promuovere lo sviluppo di capacità di accumulo di grande taglia, fondamentale per accumulare grandi volumi di energia nelle ore centrali della giornata, quando la produzione del fotovoltaico è strutturalmente sovrabbondante, per restituirla soprattutto nelle ore serali e notturne». Mentre l’ad di Italgas, Paolo Gallo, ha posto l’accento sul ruolo della distribuzione gas che dovrà lavorare «per rendere le reti smart, intelligenti e flessibili», spianando così la strada alla possibilità che le infrastrutture esistenti accolgano in futuro anche i gas green (biometano e idrogeno). Tutti gli operatori hanno comunque insistito sull’esigenza di continuare ad accelerare su transizione green e neutralità carbonica. «La decarbonizzazione della nostra economia non è moda, è una esigenza di business poiché consente di produrre energia a prezzi competitivi», ha chiosato Luca Dal Fabbro, presidente di Iren.



Nord Stream: la Ue rafforza la sicurezza delle infrastrutture

 

Il probabile sabotaggio dei due gasdotti Nord Stream I e Nord Stream II nel Mar Baltico ha messo in allarme sia l’Unione europea che la Nato. Entrambe hanno annunciato un rafforzamento della sicurezza delle infrastrutture più importanti, soprattutto quelle energetiche. Si sospetta che dietro alla vicenda si nasconda la Russia. Da Mosca, il Cremlino ha respinto qualsiasi responsabilità. Anzi, ha accusato gli Stati Uniti di aver sabotato i due impianti. «Ogni deliberata interruzione delle infrastrutture energetiche europee è totalmente inaccettabile e sarà affrontata con una risposta forte e unitaria», ha dichiarato ieri in un comunicato l’Alto Rappresentante per la Politica estera e di Sicurezza Josep Borrell. Successivamente, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha presentato le attese proposte di nuove sanzioni contro Mosca, nel quadro della guerra in Ucraina (si veda l’articolo a pagina 10). L’Alto Rappresentante ha preannunciato che l’Unione europea intende rafforzare la sua «resilienza nella sicurezza energetica». Proprio nel giugno scorso, Parlamento e Consiglio hanno trovato una intesa su un nuovo regolamento tutto dedicato alla protezione delle infrastrutture più importanti. Quante alle cause dell’incidente nel Baltico, Josep Borrell ha parlato di «atto deliberato», mentre il portavoce del cancelliere Olaf Scholz ha escluso «una causa naturale». Se Copenaghen e Stoccolma hanno evitato di accusare Mosca, il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki è stato invece più esplicito nel puntare il dito contro la Russia: «Vediamo chiaramente che si tratta di un atto di sabotaggio, il quale probabilmente segna un nuovo passo nell’escalation della situazione in Ucraina». Ha aggiunto la presidente del parlamento lituano Viktorija Cmilytė-Nielsen: «Le nostre infrastrutture non sono sicure. Siamo dinanzi a un avvertimento». Dello stesso tenore anche la reazione del segretario generale della Nato Jens Stoltenberg che ieri ha incontrato il ministro degli Esteri danese Morten Bodskov (il danno ai due gasdotti è stato individuato al largo dell’isola danese di Bornholm). L’Alleanza atlantica ha attribuito l’incidente a un «atto di sabotaggio», e ha spiegato che sul tavolo dei paesi membri dell’organizzazione militare c’è ormai «la protezione delle infrastrutture più importanti». Per tutta risposta, il portavoce del Cremlino Dimitri Peskov ha dichiarato che le accuse a Mosca sono «prevedibili e stupide». Ha aggiunto che i danni ai gasdotti hanno causato al suo paese perdite economiche. Annunciando una prossima riunione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, la portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova ha accusato gli Stati Uniti, ricordando che in febbraio il presidente Joe Biden aveva detto: «Se la Russia invade l’Ucraina, non ci sarà più il Nord Stream II». Tornando alla situazione nel Mar Baltico, il capo dell’Agenzia danese per l’Energia, Kristoffer Böttzauw, ha spiegato che il gas continuerà a uscire dai fori fino alla fine della settimana. Solo dopo, gli esperti potranno «cercare di indagare sulle cause, avvicinandosi ai gasdotti». Secondo fonti tedesche citate dal quotidiano Der Tagesspiegel, l’impianto potrebbe non essere più utilizzabile, se non venisse riparato in breve tempo. Il rischio è che venga messo fuori uso dall’acqua marina. I due gasdotti danneggiati non erano funzionanti da tempo. Gran parte del gas giunge oggi in Europa dalla Norvegia. Oslo ha annunciato di voler rafforzare la sicurezza dei suoi impianti petroliferi, sorvolati nelle ultime settimane da droni sospetti. «Reagiremo con fermezza se dovesse accadere qualcosa di simile» a quanto accaduto nel Mar Baltico, ha avvertito il premier Jonas Gahr Store. Ciò detto, per ora «non ci sono indicazioni concrete di minacce dirette alle installazioni petrolifere norvegesi».

«Economia, danni più gravi senza il rialzo dei tassi»

 

La Bce resta determinata a riportare la stabilità dei prezzi e l’inflazione al 2% nel medio periodo. E lo farà «continuando ad alzare i tassi più volte nelle prossime riunioni», anche se dovesse arrivare la recessione. E questo anche perché la Bce «non ha ancora raggiunto il tasso neutrale», che è la prima tappa della normalizzazione della politica monetaria. A confermare la determinazione della Bce è stata ieri la presidente Christine Lagarde, aprendo il dibattito del Frankfurt Forum organizzato dall’Atlantic Council, un convegno internazionale sui rapporti tra Usa ed Europa. «Riportare l’inflazione al 2% è quello che dobbiamo fare, e lo faremo», ha sottolineato Lagarde, «il nostro obiettivo primario non è quello di ridurre la crescita, di creare recessione» o disoccupazione. Se la Bce non riuscisse a centrare il suo obiettivo, che è la stabilità dei prezzi, «il danno all’economia sarebbe ancora maggiore». Sul confronto tra Europa e Usa, Lagarde ha sottolineato che le radici dell’inflazione europea e americana sono molto diverse. L’inflazione nell’area dell’euro è salita per il 60% per i prezzi dell’energia, mentre negli Usa questo peso è la metà. Anche l’aumento dei prezzi dei beni alimentari è maggiore nell’euroarea rispetto agli Usa. Il mercato del lavoro è diverso sulle due sponde dell’Atlantico: negli Usa i salari stanno crescendo del 5-7% mentre in Europa del 2-3%. Nel contesto dei negoziati sindacali in arrivo, Lagarde ha fatto intendere che l’aumento dei tassi serve a mantenere ancorate le aspettative sull’inflazione al 2% nel medio termine, dovrebbe dunque servire a frenare le rivendicazioni sindacali. L’inflazione negli Usa è trainata dalla domanda, quella nell’area dell’euro dall’offerta, ha detto Lagarde, e questo rende il compito della Bce più difficile perché la politica monetaria non può fermare la guerra né può tagliare i prezzi dell’energia. In quanto al ruolo dell’euro, che è la seconda valuta più usata nel mondo dopo il dollaro Usa, Lagarde ha detto che per aumentare il ruolo e il peso internazionale della moneta unica europea servono capital market union e titoli di Stato europei come i Treasuries Usa. In risposta a una domanda sul nuovo strumento anti-frammentazione “TPI”, Lagarde ha puntualizzato che verrà usato per i Paesi che «si comportano bene», che rispettano le regole europee. E ha riaffermato che sarà azionato con «la saggezza collettiva» del Consiglio europeo. Ma non è l’unico strumento anti-frammentazione nella cassetta degli attrezzi della Bce, altri potranno essere usati se e quando necessario. Stando a fonti bene informate, il TPI non è stato ancora attivato. Per ora la Bce sta contrastando la frammentazione con la flessibilità dei reinvestimenti dei titoli scaduti del programma pandemico PEPP.

Usa , Polonia e Bulgaria invitano a lasciare la Russia Merkel: «Prendere Putin sul serio»

 

«Lasciate immediatamente la Russia»: l’appello lanciato in contemporanea dagli Usa, dalla Polonia e dalla Bulgaria ai propri cittadini riflette tutta la drammaticità del momento, con i timori di escalation nucleare nella guerra tra Russia e Ucraina. Intanto l’ex cancelliera tedesca, Angela Merkel, avverte: «Le dichiarazioni di Putin vanno prese sul serio». D a quando ha lasciato la guida della Germania, Angela Merkel è intervenuta raramente in pubblico, sempre riluttante a commentare l’invasione dell’Ucraina. Ma quando ieri l’ex cancelliera tedesca ha spiegato che prendere sul serio le minacce nucleari di Vladimir Putin non sarebbe segno di debolezza, ma di saggezza politica, è tornata con il pensiero a Helmut Kohl. Ne ha ricordato la determinazione a capire gli altri, e a guardare più lontano, senza perdere di vista «il giorno dopo». Come avrebbe agito oggi Kohl? «Avrebbe fatto qualunque cosa per proteggere e ristabilire la sovranità dell’Ucraina», ha risposto Merkel. Ma avrebbe anche pensato a ciò che oggi è inimmaginabile, «a come ristabilire un giorno i legami con la Russia». La capacità di abbracciare il passato e il futuro delle relazioni tra Mosca e l’Occidente per cercare una via d’uscita al presente è forse una delle qualità che più sono mancate alla leadership europea in questa fase. Ma ormai i fatti hanno iniziato a correre più veloci della possibilità di affrontarli: e anche quei margini di manovra che forse Kohl o la stessa Merkel avrebbero voluto continuare a cercare, si stanno rapidamente chiudendo. Il punto di non ritorno potrebbe scoccare già domani, quando Putin interverrà davanti alle Camere riunite per annunciare verosimilmente l’annessione di regioni ucraine che ancora i russi non hanno neppure conquistato del tutto. Donetsk, Luhansk, Kherson, Zaporizhzhia: terre sotto occupazione in cui nel giro di una settimana è stata organizzata una consultazione senza alcuna legittimità internazionale. Schede raccolte casa per casa da funzionari e soldati armati di kalashnikov. Pseudo-referendum anticipati in tutta fretta per riguadagnare l’iniziativa in una fase della guerra in cui i russi stavano perdendo terreno. Vantando consensi che sfiorano il 100%, Putin si dirà disponibile ad accettare le richieste dei capi delle amministrazioni messe in piedi dagli occupanti a essere inseriti nella Federazione. A rendere il tutto ancora più surreale, verrà seguito scrupolosamente un percorso burocratico di consultazioni, passaggi costituzionali e conferme parlamentari che dovrebbe concludersi il 4 ottobre. Ma che già permette a Putin di chiamare patria quelle regioni ucraine in guerra, forse di arrivare a oltrepassare un’altra terribile linea rossa, schierandovi armamenti nucleari. Sperando di mobilitare il Paese così come avvenne nel 2014, con l’annessione della Crimea. Un colpo di mano concluso però allora in pochi giorni, accolto da un balzo della popolarità del presidente. Oggi, di fronte a una guerra vera e alla chiamata alle armi, la risposta dei russi è la fuga verso i confini.

mercoledì 28 settembre 2022

Grillo propone ancora la settimana corta al lavoro

 

L’Europa la sperimenta. L’Italia prova a rilanciarla con chi ci crede da tempo. Beppe G r i l l o, mentre si gode il 15,5% del suo Movimento, ributta in mezzo un tema a lui particolarmente caro. «La settimana lavorativa di quattro giorni è un toccasana per i lavoratori, le aziende, le società e può anche essere una via per affrontare il cambiamento climatico. Ecco perché è così importante riprenderci la nostra vita!», ha scritto su Twitter rilanciando un post del suo blog. Un intervento firmato da Ju - liet Schor, docente di sociologia all’università di Boston. L’INTERVENTO «Mi occupo di Lavoro dagli anni ‘80 e non ho mai visto niente di simile a quello che sta succedendo oggi – spiega la professoressa – L’ansia alimentata dalla pandemia sta aumentando in tutto il mondo. Negli Stati Uniti, più della metà di tutti i dipendenti dichiara di sentirsi stressata per gran parte della giornata. Le dimissioni dal lavoro sono a livelli record. Le persone si stanno esaurendo. In risposta, un numero crescente di aziende offre una settimana di quattro giorni, 32 ore, ma con cinque giorni di paga. Ora, non è un’idea nuova, ma la pandemia le ha messo il turbo. I datori di lavoro si stanno rendendo conto che se possono ripensare a dove lavorano le persone, possono anche ripensare a quanti giorni trascorrono al lavoro». I COMMENTI AL TWEET Tutto molto bello. Ma se Grillo sembra entusiasta non si può dire lo stesso di chi ha commentato il tweet. «Va benissimo, ma come lo paghiamo il personale per 4 o 7 giorni. E i negozi e supermercati sempre aperti? – scrive una donna – Allora doppio personale, ok, ma poi ce le paghi tu le bollette e gli affitti, perché raddoppiando la spesa del personale non raddoppiano le entrate!! Non so se mi sono spiegata bene!!». Mentre un altro: «Egregi Juliet Schor e Beppe Grillo sono figlio e nipote di contadini. Ho 71 anni, sono laureato in Ingegneria chimica con lode ad inizio ‘75. Come voi, credo che il lavoro globale metta ansia (decrescita felice Serge Latouche) ma chi paga il debito Italiano che sto lasciando ai miei 4 nipoti?». Domande legittime a Grillo che già dal 2013 voleva lanciare una proposta di legge, proponendo una settimana lavorativa a 36 ore. di liquidità - precisa - Sono due anni che non lavoriamo. Nessuna impresa che non lavora può sostenere nè mutui nè affitti che non sono mai stati sospesi» chiarisce prospettando il rischio della distruzione delle piccole imprese del settore lasciando spazio allo shopping a buon mercato di grandi operatori internazionali. «Uno scenario che davvero non mi auguro» conclude. capozzi@veritaeaffari.it © RIPRODUZIONE RISERVATA LA DECRESCITA FELICE La settimana corta è emanazione prediletta della teoria della decrescita felice. Basata sul pensiero dell’e c o n o m i s ta Serge Latouche, è storicamente uno dei cavalli di battaglia del Movimento 5 stelle. I cui esponenti l’hanno adottata spesso in versioni semplificate a cura di divulgatori come Maurizio Pallante e C l aud io M e s s o ra . In sostanza il pensiero sostiene che: produrre e lavorare di meno non è qualcosa di negativo, ma un modo necessario per condurre una vita più sana e sostenibile. Non solo a livello ambientale, ma in tutte le declinazioni di sostenibilità, un concetto spesso abusato. In quest’ott ica ad essere preso di mira è proprio il Pil, come indicatore di benessere. Al bando la ricchezza quindi. Grillo dalla sua ci ha provato in vari modi a divulgare la dottrina. L’ha fatto anche citando più volte il celebre discorso di Bob Kenn e dy che bandiva proprio il Pil come indice di prosperità. Una volta a una tv svedese Grillo dichiarò: «Il mercato racconta balle… la crescita non va aiutata, la crescita non porta posti di lavoro… no n porta ricchezza, perché crea divario tra chi ha e chi non ha, e questa è la crescita». 

Dollaro schiacciasassi globale: il record dal 2002 pesa su tutti

 

Il dollaro è la vera croce e delizia in questo momento per gli investitori. È croce perché quando sale depaupera il valore in un colpo solo di bond, azioni, materie prime e delle altre principali divise. È delizia per quegli investitori istituzionali che stanno scegliendo di posizionarsi sui titoli di Stato Usa a breve termine che offrono rendimenti d’altri tempi, superiori al 4%. Nel complesso però prevale l’effetto distruttivo del super-dollaro che ieri ha superato, stando alla misurazione del dollar index che lo confronta con un basket di divise internazionali, i 114 punti. Posizionandosi sui livelli dell’estate 2002. Così i 120 punti del top del febbraio di 20 anni fa non sembrano distanti mentre gli investitori di tutto il mondo si augurano che il record dei 165 visto nel 1985 resti solo un lontanissimo ricordo. Il dollaro è sia il termometro del rischio - funge da rifugio di ultima istanza - che naturale valvola di sfogo dei capitali in un contesto le banche centrali si stanno rilevando quantomai aggressive per provare ad arginare l’inflazione. Il pallino in mano c’è l’ha la Fed, dato che le materie prime sono quotate in dollari. Di conseguenza quando la Fed alza i tassi, dà una spinta al dollaro e costringe gli altri Paesi ad importare inflazione nel momento in cui hanno bisogno di biglietti verdi (per loro sempre più cari) per acquistare le commodities. Un circolo vizioso che potrebbe spingere molte banche centrali ad alzare i tassi oltremisura rispetto a quanto necessitano le rispettive economie, con l’intento di difendere la propria moneta dal super-dollaro. Questa spirale si sta disegnando in un contesto pericoloso, lo stesso in cui il debito globale aggregato ha superato i 300mila miliardi di dollari, tre volte tanto i valori che esibiva nel 2008 prima dello scoppio dell’ultima grande bolla finanziaria. Il quadro è quindi molto fragile e delicato con la volatilità del mercato obbligazionario (indice Move) letteralmente preso di mira dagli investitori nelle ultime sedute con cali record e conseguente impennata dei rendimenti, che ha superato i 153 punti e si è ampiamente distaccata da quella del mercato azionario (Vix a 33 punti) con cui solitamente viaggia a braccetto. Di conseguenza, delle due l’una. C’è da aspettarsi o che il Move si attenui con i bond che vadano a trovare un po’ di quiete oppure che il Vix continui a salire. A quel punto andrebbe monitorata la panic zone oltre i 40 punti, quella che storicamente innesca vendite forzate da parte dei fondi e margin call. Non si può però neppure ignorare che a questi livelli molti indicatori segnalino valutazioni estreme. L’elastico sembra davvero troppo tirato. «Quand’è così l’elastico o si rompe oppure funge da molla per un riequilibro delle quotazioni - spiega Salvatore Scarano, trader professionista nonché ideatore e principale ispiratore del progetto di analisi flussometrica Volcharts -. Prendiamo l’indice S&P 500, rotto il supporto dei 3.660 troverebbe un’area di approdo a 3.575 punti dove l’analisi dei flussi indica che sono stati posizionati molti capitali che hanno lavorato e costruito quell’area per oltre un mese nel 2020. Anche l’elastico del dollaro sembra molto tirato in area 115 punti. Difficile che i mercati reggano per altri 2-3 mesi valutazioni così estese». Può accadere di tutto e le Borse sono sempre lì per sorprendere, soprattutto in questa fase quando non solo Powell, ma tutti gli investitori sono in una posizione data dependent, ovvero in attesa di nuovi dati macro che possano delineare un quadro recessivo che in questo contesto di lotta all’inflazione sembrerebbe paradossalmente come una notizia molto positiva lato investing. Del resto che il mercato sia giunto a un bivio ce lo segnalano altri indicatori di natura contrarian, quelli che molto spesso, chiamano un’inversione, quand’anche breve, di tendenza. «Le opzioni put acquistate dai trader sono sugli stessi livelli record del 2008 e del 2020 - spiega Stefano Bottaioli, responsabile territoriale di Banca Consulia -. I segnali tecnici di DeMark indicano il completamento tra oggi e domani del ciclo 9+13 che di solito precede un’inversione. E per chiudere, i titoli dell’S&P 500 che quotano sopra la media a 200 giorni sono appena il 12% e appena il 3% quelli sopra la media a 50. Di solito quando si presentano estremi del genere si rimbalza. L’unica volta che non è successo è stato nel 2008. Quando poi è venuto giù tutto».

Sabotato il gasdotto dalla Russia Adesso l’Europa è davvero nei guai

 

Europa in subbuglio, accuse di sabotaggio che volano da un capo all’altro del continente e gasdotti Nord Stream 1 e 2 fuori uso a tempo indeterminato. Lunedì mattina, a Sudest dell’isola di Bornholm, in pieno mar Baltico, una falla apertasi nel gasdotto Nord Stream 2 lascia fuoriuscire gas che, giunto in superficie, fa schiumare la superficie del mare. Il gasdotto non era in esercizio ma conteneva gas in pressione. Poco dopo, altro allarme, questa volta dal gasdotto Nord Stream 1 a Nordest della stessa isola, molto più al largo, in acque svedesi: falle in entrambi i tubi del gasdotto, che era fuori servizio (ma pieno di gas) dopo lo stop dello scorso agosto deciso dalla Russia. Dalle immagini disponibili in corrispondenza di una delle falle, il mare ribolle in un’area di un chilometro di diametro. Dunque, tre rotture su tre tubi in tre punti diversi. Difficilmente quanto accaduto può essere derubricato a casualità. A Sudovest dell’isola danese scorre anche il nuovo gasdotto Baltic Pipe, che collega la Polonia alla Norvegia, inaugurato giusto ieri. Spiccano le dichiarazioni del centro sismologico svedese, che, al pari di quello danese, lunedì avrebbe registrato esplosioni sottomarine nella zona delle perdite di gas dei due gasdotti. «Difficile credere che le perdite nei gasdotti Nord Stream siano casuali», ha detto il primo ministro danese Mette Fre d e r i k s e n . Il viceministro degli Esteri polacco Marcin Prz yd acz ha accusato esplicitamente la Russia: «Se è capace di una politica militare aggressiva in Ucraina è ovvio che non si può escludere alcuna provocazione, anche in Europa occidentale», ha dichiarato. In Germania, un portavoce si è espresso con molta prudenza affermando di non avere ancora notizie certe, mentre i giornali tedeschi non esitano a parlare di sabotaggio. Cauta appare anche Bruxelles: «Le fughe non hanno messo a repentaglio la sicurezza degli approvvigionamenti», ha dichiarato Tim M c P h ie, portavoce della Commissione europea. Durissimo il governo ucraino: «Si tratta di un attacco terroristico pianificato dalla Russia e un atto di aggressione all’Ue», ha affermato senza mezzi termini M i k h ayl o Po d olya k , consigliere di Volodymyr Z el e n s ky. In giornata si è fatta sentire anche Mosca: «Si tratta di una situazione molto preoccupante e senza precedenti, che richiede immediate indagini. Non possiamo escludere che sia il risultato di un atto di sabotaggio», recita un comunicato del Cremlino. Ha parlato anche il segretario di Stato americano, Antony B l i n ke n , secondo il quale «i primi report indicano che le fughe di gas siano state causate da un attacco». «Nei prossimi mesi dobbiamo lavorare per mettere fine alla dipendenza energetica dell’Europa dalla Russia», ha poi concluso. Sempre da Washington, la portavoce della Casa Bianca, Ka r in e Jea n- P ie r re ha affermato che «i nostri partner europei condurranno le indagini, noi siamo pronti a sostenere i loro sforzi». «Questo episodio dimostra quanto sia importante il nostro impegno comune per trovare forniture di alternative», ha concluso la portavoce. Gli avvenimenti convulsi delle ultime ore richiamano alla mente la conferenza stampa del 7 febbraio scorso, tenuta a Washington dal presidente americano Jo e B id e n in occasione della prima visita alla Casa Bianca del cancelliere tedesco Olaf Scholz. Nell’occa - sione, B id e n affermò che «se la Russia invade […] l’Uc ra i n a allora non ci sarà più un Nord Stream 2». Alla domanda di una giornalista che chiedeva come pensava di impegnarsi su questo, dato che il Nord Stream 2 è sotto il controllo tedesco, B id e n rispose dicendo: «Noi saremo in grado di f a rl o » . Il Nord Stream 1 è stato fermato dalla Russia lo scorso agosto, mentre il Nord Stream 2 è stato bloccato alla partenza dalla Germania su caldo invito degli Usa. A prescindere da chi possa aver procurato i danneggiamenti, chi trarrebbe beneficio da una definitiva chiusura del Nord Stream 1 & 2? In tanti, sembrerebbe. La Germania aveva già imboccato con decisione la strada dei razionamenti e in Europa si considerava già un dato di fatto che dai due Nord Stream non sarebbe più arrivato gas. Il governo tedesco vede così svanire un’opzione, quella dell’apertura del Nord Stream 2, che stava diventando imbarazzante, sia per le continue istigazioni di Vladimir Putina sfidare il veto americano sia per le pressioni politiche interne. Da mesi infatti una parte dei socialdemocratici, la Linke e manifestazioni popolari chiedevano insistentemente l’apertura del Nord Stream 2. Il fronte Nato, con Usa e Gran Bretagna in prima fila, vede eliminata la tentazione latente per la Germania di deviare dal sentiero delle sanzioni e ricadere nelle braccia dell’antico fornitore di gas, spaccando il fronte occidentale. Fine delle tentazioni. Ucraina e Polonia possono accusare la Russia di voler scatenare il panico in Europa e la Russia, dal canto suo, può giocare il ruolo della vittima. Qui si inserisce anche la dinamica del prezzo. Ieri il future di ottobre quotato alla Borsa di Amsterdam ha chiuso a 208 euro al megawattora. Quasi il 20% in più in un solo giorno. Il motivo non è tanto per il presunto sabotaggio per la notizia diffusa dopo le 16 del deragliamento dell’arbitrato tra Gazprom e Naftogaz, l’operatore ucraino. L’ipotesi se confermata porterebbe allo stop dei flussi anche dalle parti di Kiev. Nel mezzo di questi intrecci strategici stanno le imprese e i cittadini, soprattutto tedeschi, che non avranno gas sufficiente e si preparano a un mesto inverno di razionamenti. Ce lo ricorda il segretario della Nato Stolte n b e rg : «Prepariamoci a un duro inve r n o » .