STUPIDA RAZZA

domenica 29 maggio 2022

Gas russo, dal blocco freno al Pil (-2%)

 



Uno stop delle forniture di gas dalla Russia produrrebbe uno shock sui volumi necessari a industria e servizi e farebbe crescere ancora i costi energetici. Imponendo al Pil italiano una frenata del 2% in media l’anno nell’orizzonte 2022-2023. Nella Congiuntura flash diffusa ieri, il Centro studi di Confindustria lancia l’allarme sulle conseguenze di un blocco delle importazioni di gas da Mosca, principale fornitore della penisola, e stima «un effetto molto forte» sull’economia italiana Un eventuale stop delle forniture di gas dalla Russia produrrebbe uno shock sui volumi necessari a industria e servizi e farebbe crescere ancora i costi energetici. Imponendo al Pil italiano una frenata del 2% in media l’anno nell’orizzonte 2022-2023. Nella congiuntura flash diffusa ieri, il Centro studi di Confindustria lancia l’allarme sulle possibili conseguenze di un blocco delle importazioni di gas da Mosca, principale fornitore della penisola negli ultimi anni, e stima «un effetto molto forte» su un’economia italiana, già indebolita. Il CsC mette in fila gli effetti dello stop sui volumi a disposizione del sistema ipotizzando innanzitutto una serie di condizioni: consumi mensili ai valori del 2021, azzeramento da giugno delle forniture dalla Russia (29,1 miliardi di metri cubi) e anche da Passo Gries (2,2 miliardi di metri cubi, da dove transita il gas in arrivo dal Nord Europa) e varie fonti alternative di offerta disponibili dal prossimo inverno (15,5 miliardi di metri cubi), in base ad accordi e progetti avviati. Se il quadro fosse questo, la carenza di offerta su 12 mesi (aprile 2022- marzo 2023) sarebbe pari a 14 miliardi di metri cubi (il 18,4% dei consumi italiani). E non sarebbe concentrata tutta nei mesi di picco (quelli invernali) ma distribuita anche in quelli precedenti e successivi. Né, fa notare il Csc, lo scenario migliorerebbe con la decisione del governo di imporre una stretta sulle temperature degli uffici della Pa (escludendo, però, le abitazioni private) poiché una tale misura riduce in modo limitato i consumi annui. Senza contare che, sulla disponibilità complessiva di gas, inciderebbe anche il livello delle scorte che, quest’anno, ricorda il CsC, sono ancora più basse rispetto al 2022. Con il risultato che, se si arrivasse allo stop dalla Russia, lo scenario ipotizzato include «l’utilizzo di parte della risorsa strategica (3,8 miliardi di metri cubi sui 4,5 disponibili) che esiste proprio per fronteggiare situazioni estreme». La congiuntura flash passa poi in rassegna anche i riverberi sull’industria di un eventuale stop del gas russo. Se, infatti, come conseguenza del blocco, scattasse l’eventuale razionamento imposto dal piano di emergenza gas del governo, che andrebbe a colpire per prima l’industria (poi i servizi e, a seguire, residenziale e sistema sanitario), le imprese, per effetto della carenza totale stimata, sarebbero private «di tutta la fornitura gas di cui necessitano (cioè i 9,5 miliardi di metri cubi annui consumati finora)», mentre i servizi subirebbero un taglio pari a 4,5 miliardi di metri cubi (su 7,8 miliardi di metri cubi). E l’impatto sul valore aggiunto - che il CsC stima considerando solo gli energivori come risultante della riduzione dell’attività (totale o parziale, in base al rapporto “consumo di gas/valore aggiunto”) - sarebbe pari a 9 miliardi di euro nel periodo di 12 mesi, ai quali vanno sommati gli altri 9 miliardi dei servizi. Con un impatto totale, per il mancato approvvigionamento di gas stimato, in un calo dell’1% del Pil tra la primavera 2022 e l’inverno 2023 (un dato vicino all’indicazione data da Bruxelles), mentre nei restanti 9 mesi del 2023 la carenza di offerta sarebbe inferiore (perché entrebbero in funzione altre fonti alternative per 6 miliardi di metri cubi) e coinvolgerebbe solo l’industria, con una contrazione aggiuntiva del Pil dello 0,4 per cento. A tutto ciò, osserva il CsC, andrebbe poi sommato un altro effetto: quello di un potenziale rincaro dei prezzi delle commodity energetiche sui mercati internazionali come conseguenza della mancanza di gas russo. E, se ciò accadesse sia per il gas (oltre i 200 euro per megawattora da giugno) sia per il petrolio (quasi 150 dollari al barile), l’impatto sul Pil sarebbe più contenuto nel 2022 (-0,2%) - perché il differenziale di prezzo peserebbe solo per la seconda metà dell’anno -, mentre nel 2023 sarebbe molto più significativo (-2,2%).

La terribile passione dell’uomo per la distruzione

 

Pe n savo, mentre in televisione le immagini raccontano di intere città devastate dalla guerra, a quanto tempo ci vuole a costruire una città e quanto poco (tempo) serva per farle scomparire. Un amico mi ha messo al corrente di un progetto molto interessante ed educativo. Un fotografo italiano, Fabrizio Conti, sta scattando foto e girando documentari in città distrutte e abbandonate per via dei conflitti tra popoli e, in maniera creativa ma anche storica, ha chiamato il progetto Delenda est, premettendo via via il nome delle diverse città fotografate. Carthago delenda est è detto che impariamo a conoscere a scuola. Cartagine fu distrutta, bruciata e sulle rovine fu sparso sale affinché nulla ricrescesse. I conflitti mettono al centro del mirino le città. Chi attacca vuole distruggerle affinché nessuno ne possa più beneficiare, esattamente come accaduto ad Agdam, in Azerbaijan , prima città entrata nel progetto D ele n d a dove gli armeni hanno smontato la città pezzo a pezzo affinché nessuno potesse più abitarla. Agdam delenda est du n que, attraverso le immagini di C o nti che sono andato a vedere su Google incuriosito dalla sua missione, restituisce l’idea di una distruzione voluta, cattiva, come ad Aleppo, come a Mariupol: nel mirino entrano questi luoghi dei quali si intende cancellarne la vita e possibilmente anche uomini che avevano costruito sono gli stessi che poi hanno distrutto e allora, cosa alberga nei nostri animi e nelle nostre teste, per essere così allo stesso tempo previdenti e furiosi? Fabrizio Conti, leggo in alcune interviste, dice che dopo aver visitato Agdam ha avuto come una irrinunciabile spinta a visitare e fotografare tutte le città che hanno una storia di distruzione e nelle quali ritrova sempre lo spirito Delenda est, quella minuziosa e quasi perfezionistica maniera di distruggere una città fin dalle sue fondamenta. «È il silenzio che colpisce in questi siti. Un silenzio che fa paura». Urbicidio, lo chiama il fotografo, e a me pare una parola perfetta. Sono passati duemila anni da quando C ato n e propose - e ottenne - di distruggere una città, ma sembra oggi quello che avvenne, perché D ele n d a est nella mente degli uomini è incubo ricorrente, un desiderio malvagio che si scaglia contro l’operosità positiva che era servita alla costruzione della vita.

Verrà il giorno della vendetta degli alberi

 

Ogni tanto gli alberi vorrebbero vendicarsi del cemento. Ogni tanto gli alberi, le erbe, i fiori, vorrebbero proprio vendicarsi della prepotente indifferenza dell’asfalto. Di certo, ogni tanto gli alberi, le erbe, i fiori, i piccioni, gli scoiattoli, e i cinghiali vorrebbero proprio vendicarsi dell’uomo che ha portato via loro i boschi, che ha prosciugato fonti ed aree paludose, che ha modificato il percorso dei fiumi, spianato colline, sradicato campi di fiori, innalzato muri, sostituito le foreste antiche con nuove foreste di edifici brutti e squadrati. Certo, poi ha sentito il bisogno di ritrovare il canto di Dio in qualche piccolo spazio intermedio, e quindi ha iniziato ad allevare animali al quarto e al dodicesimo piano, a strappare piante dalla terra per contornarsi di foglie e di verde, si è ingegnato a inaugurare orti botanici, giardini privati, ha tracciato filari di alberi sempre più alti lungo i viali dove inizialmente si procedeva su cavallo e alla velocità dei carri, per poi sostituire quel ticchettio di zoccoli al crescente sferragliare di motori, clacson e tram su rotaia. I palazzi sono cresciuti sui fianchi e in altezza, i viali in ampiezza, e le città hanno divorato altra terra, hanno prosciugato altre fonti e altre aree paludose, hanno deviato altri fiumi, spianato ulteriori colline, e così via. Ma ogni tanto gli alberi vorrebbero vendicarsi del cemento. Ogni tanto gli alberi, le erbe, i fiori, vorrebbero proprio vendicarsi della prepotente indifferenza dell’asfalto. Di certo, ogni tanto, gli alberi, le erbe, i fiori, i piccioni, gli scoiattoli, e i cinghiali vorrebbero proprio vendicarsi dell’uomo e della sua vanitosa intraprendenza. E così, lentamente, come il sole ogni mattino rispunta dal solito angolo di fuga, le radici rodono quel piccolo niente che tiene al sicuro i quartieri, interi isolati vengono costantemente sorvegliati dalla vigilanza sotterranea dei faggi e delle rose, dei bagolari e dei ficus australiani, dei platani e dei pini, dei cipressi e degli olmi. Una foresta di occhi termita, formicola, coleottera intorno ai sogni degli umani, ai quali pare che la natura da città sia lì soprattutto per il proprio piacere, per ripararsi dal calore eccessivo delle estati più torride, o dai venti furiosi che certi temporali scaricano sui tetti e sulle loro teste nude. Ma questa stessa natura rigenerante, protettiva, amabile, profumata e coloratissima, che i bambini cercano, che le madri respirano a piene polmoni, che i nonni e i padri, gli amici e i colleghi, i cugini, i calciatori, i corridori, i ciclisti, i venditori di panini lungo i viali d’ingresso ai parchi, i tassisti e i docenti di letteratura inglese, le massaie e le badanti ucraine, i venditori di accendini ai semafori, e ancora la folla che si colora lungo le vie del centro nelle ore di punta, ama osservare ma all’occorrenza maledire, criticare, depistare, è all’oscura ricerca di un colossale naufragio dell’epoca moderna! La natura che si infittisce nelle nostre oasi vorrebbe soltanto portarci via tutto quello che abbiamo, vorrebbe strangolarci la notte nel sonno, vorrebbe occupare le strade e le piazze, vorrebbe capovolgere le nostre chiese, vorrebbe, nel suo silenzio assassino, dismettere la nostra storia e ricominciare a sarchiare, a edificare, a infittire, a disciogliere e ascoltare il simposiare della pioggia sul popolo delle foglie, sui tronchi scolpiti, sulle rocce abbandonate. E invece deve sorreggere luna park e commedie circensi a nostro esclusivo uso e consumo. Ora che stiamo imparando a progettare boschi verticali, con fitolacche e betulle al venticinquesimo piano, pareti ricoperte di epifite che credono di risalire foreste tropicali a Milano, a Parigi, a Nuova York, ma sono soltanto ingredienti viventi ingabbiati in una scatola per topi vegetali, ora che pretendiamo cittàforesta a nostra nuova misura e aspirazione, così come ipotizzate da professori, da architetti, da interior-design, da filosofi del saper vivere il nostro che nonostante qualche guerra rimane un gran bel tempo nel quale affondare, il Dio delle cose remote e selvatiche si dovrà conformare, si dovrà riconfigurare per non lasciarci soli nelle nostre illusioni, dopo il naufragio catastrofico delle grandi ideologie socio-economiche dei secoli appena ritagliati. Certo, qualcuno la bandiera a stelle e strisce la porta ancora in una spilletta sulla giacca di jeans, e qualcun altro, dal gusto vintage, ama sfoggiare falci e martelli d’antan, proclamandosi neocomunista romantico, ma è oramai confessata la fede vasta nella nuova chiesa della natura universale, un francescanesimo quasi buddista, o un buddismo quasi francescano, chissà come la pensano i teologi, i liberi pensatori da talk show, i poeti che hanno il nuovo libercolo da presentare al pubblico pagante ogni sei mesi. A tutto pensiamo tranne che alla eventuale, ipotetica volontà di questi nostri fratelli e sorelle dalle lunghe radici, dalle foglie turionali e capricciose, dalle cortecce luminescenti: saranno loro contenti di farci involontariamente compagnia in queste nostre esistenze troppo rapide o troppo lente, eccessivamente multitasking o al contrario esasperatamente contemplative? Chi lo chiede ai filari di platani che conducono alla grande banca, al grande arco napoleonico, al grande castello, al grande parco, al grande centro commerciale che cosa ne pensano di questa loro esistenza sequestrata? Chi lo chiede agli aceri giapponesi se sono tanto contenti di sventagliare i loro semi ad elica a decine di migliaia di chilometri dalla terra d’origine? Chi lo chiede ai milioni di bonsai che noi torturiamo con troppa acqua, o troppa poca acqua, nei nostri microappartamenti così graziosi, così minimali e moderni, così comodi e però anche scomodi? A quando un sindacato per i diritti degli alberi e delle piante, dei muschi e dei funghi, nelle nostre variopinte città? Faranno mai causa all’umanità per tutte le forme di penitenza a cui, da secoli, li obblighiamo a resistere? O continueremo a credere che lo facciamo per loro, per il bene del pianeta?

La pandemia ha appiccato il fuoco

 

Secondo Rand Corporation, u n’organizzazione che conduce ricerche sulla sicurezza nazionale per il dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, il 45% delle case americane custodiva una pistola nel 1980. Nel 2016 i potenziali possessori di armi da fuoco negli Usa erano scesi al 32%, grazie ai controlli sulle fedine penali degli acquirenti. Sin dall ’origine, gli americani hanno una lunga consuetudine d’uso con le armi: per la caccia, per le attività sportive, per il collezionismo, oltre che per la sicurezza personale e domestica. Il risvolto della medaglia è che più di 39.700 persone sono morte a causa di ferite da arma da fuoco negli Stati Uniti solo nel 2017. I dati sono ripresi dalle statistiche riportate dai C e n te rs for disease control and prevention e inclusi nel progetto di ricerca Gun policy in America. Se le sparatorie di massa, come la recente strage di bimbi nella scuola elementare di Uvalde in Texas, sono quelle che sconcertano di più l’o pi - nione pubblica, i numeri dimostrano che questi drammatici eventi non rappresentano la causa principale di mortalità legata al possesso di armi. Chi vive negli Stati Uniti ha sette volte più probabilità di morire per omicidio che se vivesse in un altro Paese ricco e ha 25 volte più probabilità di morire durante un omicidio con armi da fuoco. Tuttavia, «le sparatorie di massa che si verificano così regolarmente e che catturano così tanta attenzione rappresentano solo la metà dell’1% di tutte le vittime di armi da fuoco degli Stati Uniti ogni anno» si legge nella sezione intitolata «Politica sulle armi in America: una panoramica». Il problema non è tanto la quantità di armi in circolazione in America, ma dipende in prima istanza dagli individui a cui queste armi finiscono. Negli States vigono tre tipi principali di regolamentazione: le leggi sulla prevenzione dell’accesso ai bambini, che richiedono che le armi siano conservate in modo sicuro; le leggi statali sul diritto al trasporto, che specificano le persone a cui è vietato possedere qualsiasi tipo di arma da fuoco, oltre a individuare chi può portare armi nascoste (in genere agenti delle forze dell’ordine in servizio e in pensione) e le procedure per esercitare questo diritto; infine, la legge denominata Sta n d your ground law, o legge sulla resistenza, che consente ai cittadini di proteggersi se ritengono che le loro vite siano in pericolo. Durante il primo anno segnato dall’emergenza Covid19, negli Stati Uniti l’e s p l o s io - ne dell’epidemia è stata associata a un carico eccessivo di incidenti legati alle armi da fuoco, lesioni non mortali e decessi. Questa la fotografia di una recentissima indagine, Analisi della violenza sulle armi da fuoco durante la pandemia Covid-19 negli Stati Uniti, che individua un collegamento tra l’escalation della violenza armata e lo stravolgimento imposto alla vita delle persone nel biennio pandemico. Risultati: dal 1° marzo 2020 al 28 febbraio 2021 sono stati identificati 62.485 incidenti correlati alle armi da fuoco, 40.021 lesioni non mortali legate alle armi da fuoco e 19.818 morti per armi da fuoco. Il periodo di pandemia è stato associato a 8.138 incidenti in eccesso (aumento del 15%), 10.222 lesioni non mortali in eccesso (aumento del 34,3%) e 4.381 morti in eccesso (aumento del 28,4%). L’aumento della violenza legata alle armi da fuoco è stato più pronunciato da giugno a ottobre 2020, in particolare in Minnesota e nello Stato di New York. «Negli Stati Uniti, la pandemia di Covid-19 ha intensificato alcune condizioni che potrebbero contribuire alla violenza delle armi da fuoco ed è stato segnalato un recente aumento delle vendite di armi» scrivono gli autori della ricerca. In un altro passaggio, il nesso tra epidemia ed esplosioni di violenza è ancora più chiaro e tragicamente premonitore: «Il peggioramento delle condizioni economiche, la tensione psicologica e i traumi associati alla pandemia, combinati con un aumento delle vendite di armi da fuoco, potrebbero potenzialmente aumentare il rischio di violenza con armi da fuoco […] esacerbando così u n’altra grave crisi di salute pubblica negli Stati Uniti». A riscontrare queste ipotesi c’è un altro segnale allarmante: l’aumento vertiginoso del ricorso agli antidepressivi nella popolazione, inclusa quella infantile. Durante i lockdown le prescrizioni sono schizzate in tutto il mondo, come si legge nello studio Tendenze in aumento nelle prescrizioni e nei costi degli  antidepressivi in Inghilterra durante il Covid-19, pubb l ic a - to a giugno 2021 sul Natio n al Library of Medicine. Aumentati anche aggressioni, assalti, furti e cattiva condotta degli alunni in ambito scolastico. Così come i casi di suicidio, in particolare nelle adolescenti tra 12 e 17 anni, con un aumento del 15% di casi da inizio pandemia. Accanto a questa emergenza silenziosa, ce n’è un’altra, visibilissima e rumorosa, lungo le strade delle metropoli americane, da Washington, a New York a San Francisco, rappresentata dal popolo dei nuovi tossici. Secondo le stime del Cdc, 107.622 persone sono morte di overdose nel 2021 in America. Il tasso annuale più alto mai riscontrato, con un aumento del 15% rispetto al 2 02 0. «Le persone usano più droghe, diventano instabili mentalmente più spesso, e in alcuni casi uccidono gli altri. Che tipo di mente occorre per programmare di uccidere dei bambini in una scuola elementare? Devi essere così sconnesso dagli altri esseri umani da sembrarti normale» ha osservato il giornalista Tucker Carlson su Fox News. Come si produce questa disconnessione dagli altri? «Nel 2021 gli adulti americani hanno trascorso una media di 8 ore al giorno sui digital media, fissi sullo schermo e, anche se questa non sarà l’u n ic a causa, è evidente che disconnettersi dalla realtà può rendere violenti e disadattati, e spingere qualcuno fino alla pazzia». La durata media trascorsa dagli utenti, bimbi inclusi, tra web e social ha registrato un balzo del 20% rispetto al 2019. Uno dei giovani che ha speso la maggior parte del suo tempo on line, prima di pianificare la strage alla Robb Elementary School, è stato il diciottenne Sa lvad o r Ramos, che su Facebook ha annunciato che avrebbe sparato a sua nonna e poi si sarebbe recato in un istituto elementare. Anche lo sparatore di Buffalo Payton Gendron, che il 14 maggio ha sterminato 10 clienti in un negozio di alimentari, ha attribuito alla sua dipendenza dal web la colpa di essersi radicalizzato: «Ho speso un anno nel pianificare questo assalt o… Se solo potessi tornare indietro forse direi a me stesso di spegnere questi canali del c... e  di tornare alla vita rea l e » .



Usiamo lo scambio fra energia e cibo per stabilizzare il Mediterraneo

 

Se l’Euro pa tornerà a produrre grano e beni alimentari, potrà stabilizzare il Mediterraneo offrendo ai Paesi africani cibo in cambio di energia. L’Italia deve avere un ruolo da protagonista in questo processo. Anche scavalcando le obiezioni di Francia e Germania sfruttando la sponda degli Stati Un i t i .  In generale, la situazione nel sistema globale sta ridando valore al settore dell’economia primaria, cioè alle risorse basiche: cibo, energia e minerali. Finora l’Ue ha tenuto una politica dove era conveniente importare questi beni primari, limitando le produzioni nel suo perimetro. Ora il sorgere di nuovi confini nel globo, e loro derivazioni come scarsità/costi, pone all’Ue, e in essa all’Italia, la necessità di dipendere meno dalle importazioni aumentando le produzioni basiche entro il perimetro stesso. Ciò mette al centro dell’analisi di geopolitica economica la produttività del territorio nelle giurisdizioni europea e nazionali, in particolare agricola. È nelle cronache da giorni il rischio di catastrofe alimentare per il blocco delle esportazioni di prodotti agricoli da Russia e Ucraina verso i Paesi con territorio arido, con potenziale di destabilizzazione della costa Sud del Mediterraneo e impatto migratorio sull’Ita l i a . Ha forse meno visibilità, ma è già in atto con impatto pesante per l’Italia, la scarsità di grano tenero, olio di semi, eccetera che mette in difficoltà il settore della panificazione, industria dolciaria, eccetera, nonché quella dei fertilizzanti e mangimi per l’attività agricola per lo stesso motivo. L’Italia ha iniziato un’a z ione diplomatica di sblocco, il G7 cercherà mitigazioni dell’emergenza, così come l’Onu. Ma sta emergendo anche un’altra evidenza: un attore geopolitico che ha capacità di esportare cibo moltiplica la propria forza condizionante oltre a ridurre la propria vulnerabilità. Nel pensiero strategico statunitense, come in quello russo, tale fattore ha sempre avuto rilevanza. Ora l’Ue dovrà inserire l’aum ento della sua capacità alimentare non solo per dipendere meno dalle importazioni, ma anche per darsi uno strumento formidabile di stabilizzazione del Mediterraneo via condizionalità indiretta di lungo termine. Chi scrive sta annotando con matita e carta le domande da farsi per poi indirizzare la ricerca della fattibilità. La prima è: quanto e in quanto tempo l’Ue potrà diventare esportatore di alimenti? La seconda: quanto l’Italia potrà indirizzare l’Ue verso la strategia di stabilizzazione del Mediterraneo via fornitura di cibo? Ce ne sarebbe anche una terza: quanto il cambiamento climatico impatta sulle capacità produttive di cibo nelle latitudini sia europee occidentali sia più meridionali? Questa la valuteremo più avanti perché più dipendente dall’e c oad atta m e nto, ancora vago negli eurolinguaggi fanatizzati dalla concentrazione sulla decarbonizzazione, che non dall’i mpatto climatico in sé. Cerchiamo di ipotizzare una risposta preliminare alle prime due. Una prima analisi dei potenziali grezzi e macro del territorio europeo confermano l’ipotesi, se non di un raddoppio, di un aumento considerevole della produttività agricola/alimentare. Ovviamente tale analisi di potenziale deve essere filtrata da quella economica: i prezzi alla produzione devono soddisfare i coltivatori, molti più terreni di quanti liberati dall’Ue e suoi Stati qualche settimana fa per lo sfruttamento agricolo dovrebbero essere resi disponibili, bisogna risolvere la concorrenza tra uso delle risorse commestibili per trasformazione in cibo con quella per produrre biocombustibili (recentemente incentivati dall’Ue), eccetera. Ma il potenziale c’è, almeno per esportazioni nella costa africana e suo retroterra sahariano, Egitto e penisola arabica (i cui Stati, però, già si approvvigionano nell’Africa fertile, eccetera). Se poi si aggiunge,probabilmente entro un biennio, la possibilità di utilizzare almeno i tre quarti del territorio ucraino che resterà nelle mani di Kiev in convergenza con L’Ue, pur condizionata dall’A m e r ic a il cui atteggiamento potrebbe oscillare tra concorrenza e collaborazione strategica, il potenziale potrebbe aumentare, permettendo anche la costruzione di riserve nonché proiezioni geopolitiche più profonde. Tuttavia, per l’Ue e parecchi suoi Stati una politica agricola finalizzata non solo alla minore dipendenza dalle importazioni, ma anche a poter esportare grandi masse, potrebbe eccedere la capacità del «protezionismo agricolo» che è un pilastro dell’Ue stessa. Tale eventuale problema può essere risolto da una revisione dei valori a favore dell’a g r ic o ltura: se farne di più porta vantaggi, gli attori economici del settore possono godere di più incentivi. Ma la Germania potrà acconsentire a un ingaggio più deciso e impegnativo a Sud? La Francia potrà condividere la strategia «cibo per stabilità»? Quanto i due sono sensibili al pericolo migrazione per fame avendo la possibilità di scaricare tutto il rischio sull’Italia? Al momento si può rispondere per la parte economica: uno scambio contrattualizzato tra forniture di energia dai Paesi aridi del Mediterraneo e di cibo dall’Eu ro pa potrebbe portare a prezzi sostenibili, calmierati, ma incentivanti per gli agricoltori, e a una maggiore sicurezza dello stesso ciclo. Geopolitica? La vera frontiera meridionale dell’Ue è il Niger. L’Ue sta includendo sempre più l’o rga n i z za z ione unitaria degli Stati africani in operazioni di convergenza dove è implicito, oltre che il rifornimento di minerali critici, anche il contrasto alla penetrazione c i n e s e. In conclusione, chi scrive pensa che l’Italia abbia chance per portare l’Ue a Sud come detto, ottenendo sicurezza e, pur condiviso, lo status di hub, in entrata, di gas per tutta l’Ue e, in uscita, di cibo per tutto il Mediterraneo. E se l’Ue non ci volesse dare tale centralità? L’Italia dovrebbe ottenere il sostegno dell’A m e r ic a.

«Se siamo malati è per i lockdown»

 



«La salute mentale è uno dei grandi temi di questo tempo», cinguettava due giorni fa il ministro della Salute, annunciando su Twitter di aver «firmato il decreto che attiva il bonus psicologico finanziato con 10 milioni di euro». Usufruibile per coloro che hanno un Isee fino a 50.000 euro, gli altri si arrangino e paghino di tasca proprio lo s tr i z zac e r ve l l i . La farsa è diventata realtà, Roberto Speranza pensa di vantarsi d’aver offerto un ristoro mentale a milioni di italiani che soffrono di «depressione, ansia, stress e fragilità psicologica a causa dell’em ergenza pandemica e della conseguente crisi socioeconomica», e che in base al reddito più basso potranno avere un contributo da 200 a 600 euro al massimo, spendibile in sei mesi. Considerato il tariffario della categoria, avranno giusto il tempo per abbozzare due dati anagrafici, pescare un sintomo nel calderone del disagio individuale e saranno già concluse le sedute a disposizione. «Un governo che è stato al centro del malessere degli italiani per due anni, attraverso misure fortemente repressive della libertà, e che cerca di cavarsela con dei bonus, mi sembra che stia effettuando un approccio patologizzante», commenta Claudio Risé, docente universitario e psicoterapeuta, oltre che scrittore. «Dopo aver impedito agli italiani di camminare all’aria aperta, per boschi e prati che abbondano nel nostro Paese e che avrebbero aiutato molto la psiche durante l’epidemia, mentre invece li limitava in casa o li obbligava all’uso della mascherina, semmai doveva offrire delle agevolazioni per corsi che aiutano ad avere un corpo sano, allenato, che reagisce meglio a stress e malattie», aggiunge l’esperto di psic h e. Il tweet di Sp e ra n za ha scatenato un gran numero di commenti critici, spesso feroci. «Siete stati voi a creare questi problemi psicologici, adesso le cure non servono», gli ha risposto Nicole. «Prima ci fa impazzire con inutili restrizioni poi ci dà il bonus psicologico. Fa tutto lui», posta Cecilia. «Non potrò pagare la bolletta della luce e quindi me la toglieranno, ma potrò raccontarlo allo psicologo», scrive Anita. «Fortuna che la salute mentale sia uno dei grandi temi di questo tempo, altrimenti ci avrebbe stanziato i soldi utili per una colazione al bar», chiosa un altro utente mentre Francesco suggerisce a Sp eranza «dimissioni irrevocabili», come miglior rimedio «per la salute mentale di noi italiani». Il ministro della Salute, che nemmeno rilegge quanto fa scrivere o che, più probabile, sa di psicologia quanto di virologia, nel decreto sul bonus afferma che lo possono richiedere coloro «che siano nella condizione di beneficiare di un percorso psicoterapeutico». Praticamente tre quarti degli italiani, dopo due anni di Covid. «Quella di S p e ra n za è una mossa opportunistica e insieme avventuristica, perché può suscitare delle aspettative infondate affrontando questioni che sono al di fuori delle competenze di uno Stato», ragiona R i s é. « L’unica cosa che il governo poteva fare e non ha fatto, era rafforzare la psiche consentendo la libertà di espressione, di scelta, di azione. La malattia comincia quando non si è più liberi». Quindi questo bonus è tardivo, inutile e per giunta offensivo nei confronti degli italiani che si sono visti togliere il libero arbitrio. «Una graduale sparizione della libertà organizzata proprio dal ministero della Salute», sottolinea il p ro fe s s o re. La circolare sul «beneficio», di cui tanto si vanta S p e ra n za , affronta con irritante puntigliosità i parametri con cui il bonus viene concesso. «Una sola volta» sarà usufruibile, e fino al massimo di 50 euro per ogni seduta, calcola il ministro, che vive su un altro pianeta e non conosce l’onorario di uno psicologo. Costretto a chiedere quella tariffa, il professionista trascorrerà il tempo facendo sudoku dietro la scrivania o limitando al l’essenziale il colloquio con lo sfortunato paziente. Il cittadino con indicatore della situazione economica equivalente inferiore a 15.000 euro, può ricevere un massimo di 600 euro per andare a farsi analizzare; quello che ha Isee compreso tra 15.000 e 30.000 euro, non riceverà più di 400 euro; se invece l’Isee è oltre i 30.000 euro ma non supera i 50.000, il bonus si riduce a 200 euro. Per tutti, dall’ac c og l i m e n - to della domanda che va presentata all’Inps, ci sono 180 giorni utili per decidersi ad andare dallo psicologo. Scaduto il termine, tocca a chi segue nella graduatoria. Graduatorie che, badate bene, «restano valide fino a esaurimento delle risorse». Perciò molte richieste saranno accettate, ma finiti i 10 milioni di euro stanziati, se non hai soldi per pagarti lo specialista dovrai curarti ansie o stress solo imbottendoti di farmaci. E poi c’è un aggravante: se c’era tanta urgenza di sostegno psicologico, perché ai professionisti che hanno rifiutato di sottoporsi alla vaccinazione è stato proibito di seguire i pazienti persino in smart working? «Vedo molta insolenza e tanta ignoranza in questo decreto», conclude R i sé. «Una mercificazione del rapporto psicologico decisamente scandalosa, che dovrebbe vedere noi professionisti decisamente contrari», anziché aderire all’i n i z i at iva comunicando i propri nominativi al Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi.

FEAR!

 

Paura, paura mascherata da presunta competenza, con una prospettiva economica ostinatamente ottimistica, questa è la sintesi delle minute uscite mercoledi, ovvero i verbali dell’ultimo incontro della banca centrale americana.

 ” la crescita del PIL rimbalzerà nel secondo trimestre e avanzerà a un ritmo solido nel resto dell’anno “.

Inguaribili ottimisti di maniera, ottimisti di facciata!

Ieri è uscita la revisione del Pil relativa la primo trimestre…

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Ovviamente c’è chi dice che non è un problema, tanto i consumatori continuano a spendere e spandere, ma come abbiamo visto nei dettagli in questi ultimi giorni, qualcosa non quadra nelle trimestrali o le aziende si lamentano per nulla o qualcuno sta aggiustando stagionalmente i dati.

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https://icebergfinanza.finanza.com/2022/05/27/fear/

EQUILIBRISMO!

 

La valutazione del NBER è rilevante perché, nonostante sia un’organizzazione privata, è quella che normalmente determina proprio l’inizio e la fine dei periodi di recessione negli Stati Uniti.

Ma non per noi, noi sappiamo per esperienza che le prossime revisioni, sui mercati immobiliari, del lavoro e delle vendite al dettaglio saranno pesantemente negative, alcune avvisaglie si intravvedono nei dati, ma fa comodo leggerli in superficie.

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https://icebergfinanza.finanza.com/2022/05/23/equilibrismo/

SOFT LANDING!

 

Inutile ricordare che siamo grati agli amici di Hedgeye, grandi professionisti con il loro spettacolare disegnatore che ogni giorno ci allieta con i suoi capolavori, ironici e allo stesso tempo terribilmente efficaci…

Ieri un vero amico come Raffaele mi ha ricordato che Target ha avuto qualche problemo, ma non solo Target…

LEGGI TUTTO:

https://icebergfinanza.finanza.com/2022/05/19/soft-landing/

giovedì 19 maggio 2022

Si ripete lo scontro tra Usa e Russia Ma stavolta l’obiettivo si chiama Cina

 

Ottobre 1962. Un brivido di paura percorse il mondo. Una flotta sovietica stava facendo rotta verso la Cuba di Fidel Cas tro, a bordo trasportava missili Mrbm in grado di trasportare testate nucleari. Tra Usa e Urss vigeva, in una logica di diffidenza reciproca, un sistema di deterrenza basato sul fantasma apocalittico del conflitto nucleare. L’equ il ib rio, pur precario, resse, le nostre vite lo testimoniano. La vicenda come noto si concluse con l’ordine di Nikita S. Khrus hchev di invertire la rotta. John F. Kennedy, poco prima, aveva lanciato un appello agli americani: «Non rischieremo prematuramente e senza necessità una guerra nucleare mondiale dopo di cui anche i frutti della vittoria sarebbero cenere sparsa sui nostri cadaveri; ma nemmeno indietreggeremo di fronte a un tale rischio». La logica fa capolino in quel «senza necessità» che lumeggia ancora l’attu a l i tà . RAGIONI E CONSEGUENZE Per gli storici non è ancora chiara la motivazione prevalente dell’accaduto. Forse fu un tentativo da parte sovietica di recupero del gap missilistico rispetto alle dotazioni Usa (almeno dieci volte superiori) che contraddiceva i successi ottenuti nello spazio (l’anno prima Yuri Gagarin sulla Vostok 1 aveva volato nello spazio cosmico). Anche se Cuba era costantemente minacciata dalle avances destabilizzanti delle amministrazioni americane, per il Pentagono era una specie di fissazione (operazione Mongoose), sembra sproporzionata la scelta di armare l’isola con armi così estreme. O, forse, proprio la risoluzione finale degli accordi era ciò che K h r u s h ch ev voleva dopo la grande esibizione delle performances tecnologiche e tattiche sovietiche. Una riduzione degli esperimenti e delle testate nucleari, troppo onerose per una potenza in ascesa; una relazione paritetica, il «filo rosso», tra il Cremlino e la Casa Bianca; lo smantellamento dei missili Jupiter in Italia e Turchia; infine, una specie di ammissione di colpa da parte americana nell’impegno di non invadere l’isola più spavalda della terra. C’è, però, un precedente molto meno noto. Ke n n e dy, in piena crisi, convocò, nell’am - bito di consultazioni multilaterali, il cancelliere tedesco Konrad Adenauer per condividere lo stato della crisi. La Germania Occidentale era sul filo della Cortina di ferro e avrebbe subìto la prima, devastante, ondata dell’attacco nucleare in caso di conflitto. Il cancelliere, dopo il primo incontro in cui si palesava la possibilità di una escalation militare, si rifiutò di proseguire il colloquio e rientrò in patria. A pochi anni dalla sconfitta dell’Asse e in un Europa che si stava ancora leccando le ferite, nessuno avrebbe accettato di sacrificarsi per la convenienza strategica degli Stati Uniti, il che, credo, servì a depotenziare il fervore belluino del Pentagono. A fianco della Germania Ovest c’era tutta l’Europa continentale, in particolare il IV governo di Amintore Fanfani che investì tutta la prerogativa diplomatica disponibile per la rimozione dei missili Icbm dislocati in Puglia e Basilicata. Oggi la scuola realista sta affidando ancora a un premier tedesco, Olaf Scholz, di fatto già riluttante a potenziare il supporto militare all’Ucraina, le poche speranze di scompigliare la marcia entusiasta dei paesi della Ue verso un’alta probabilità di uno scontro terminal e. IL RAFFRONTO CON OGGI Quel pericolo non è affatto più improbabile rispetto alla crisi del 1962: allora il vis à vis vedeva due paesi vittoriosi con un surplus di potenzialità distruttiva e simbolica. L’attuali - tà contempla una nuova potenza in ascesa entrata prepotentemente in partita, la Cina, paradossalmente anche grazie alla professione di strategia unilaterale statunitense nella presunzione di allineare il mondo e allevare il futuro a proprio piacimento. La potenza affermata è ora costretta a rilanciare tutto il suo egemonismo nel bel mezzo di una estenuante crisi valoriale ed economica, con dentro la bomba ad orologeria di un deficit commerciale micidiale. Mentre la Russia sta scivolando fuori orbita, la sua potestà e credibilità sono ogni giorno più compromesse. Proprio qui sta il punto, all’elegante simmetria della trappola di Tuc id id e che fatalizza lo scontro tra due potenze, Usa e Cina, la Russia rappresenta per gli Stati Uniti, nella visione infausta di una alleanza tra Cina e Russia, l’anel - lo debole da rendere inerte il prima possibile, depotenziando sul nascere quella eventualità. La guerra scatenata dalla Russia è solo l’acme di un contenzioso tra la Casa Bianca e il Cremlino più o meno sotterraneo e iniziato dagli anni Novanta. La reattività russa, messa alle strette, rischia di essere ancora più pericolosa di quella della potente Unione Sovietica del 1962. Vi è, al di là del regime assolutistico di Vladimir Puti n , la tenuta spirituale e simbolica del popolo russo, che fa rendere temibile una resistenza ad libitum alle sofferenze, impensabile per l’O c c id e nte. Della stessa natura è fatta la resistenza della popolazione ucraina, oggi sottoposta a martirio nell’epica opposizione all’invasione che ha sorpreso le stesse previsioni dell’inte ll igence russa e di quella tedesca. Le sanzioni, pur deprimendo la vita e le consuetudini quotidiane, avranno bisogno di troppo tempo per piegare l’hu - mus di quelle genti, le stesse che ritroviamo nel Tol s to j di «Guerra e pace» o nei lunghi supplizi dei «Racconti di Kolyma» di Sa l a m ov. La storia antiliberale della Russia è il suo humus sociale, fatto di silenzio e remissività, di fede e incantamento, come lo furono nella profezia redentiva della dittatura del proletariato, nonostante quell’incanto smentisse costantemente ogni promessa di libertà per il proprio p o p o l o. IL RUOLO DELL’E UROPA Anche dopo l’evap o ra z io n e dell’Urss, la Madre Russia ha collezionato troppi errori strategici (non ammissibili nemmeno se indotti dalla «manina» degli apparati più bellicisti della controparte storica) a cominciare dalla pochezza creativa, dall’incapacità di imporsi quale soggetto imprescindibile del consolidamento della pace globale attraverso alleanze e prassi testimoniali di influenza. Furono disattesi dialettica e contraddittorio con l’economia di mercato, ogni ipotesi sperimentale di democrazia e del suo fine epistemologico più profondo: l’emanci - pazione dei più. Non l’insana uguaglianza, l’ipocrisia ideologica del medesimo, ma il libero dispiegamento della differenza ontologica degli esseri, ossia della vera ricchezza dell’umano celata nell’i nt i m a possibilità di autodeterminazione e nel mistero di esistere. E l’Europa? È in stallo economico e culturale, un luogo dell’attesa, un parco delle rimembranze senili. Priva di disegno prospettico unitario e di spirito tensivo, a differenza della povera Europa del 1962, vive ma sopravvive a se stessa abdicando all’idealità insieme alla sua determinazione aggressiva che pure la fecero grande. Appiattita su arrocchi interni demodè mentre copia alla lettera l’etica censoria della Critical race theory, della cancel culture e del verbo militante di Washington. La gente sembra in attesa di una soluzione salvifica. La guerra ci porta solo la soluzione recessiva, una nuova edizione della stagflazione, recessione produttiva più inflazione, omettendo la possibilità di una escalation geografica del conflitto. Intanto, mentre si fraseggia apertis verbis di razionamenti energetici e alimentari, dal contingentamento delle scorte di materie prime, sono partiti i rincari di tutti i beni, comprese le medicine salva vita. Prepariamoci a una simmetrica riduzione dell’at - tesa di vita, selettiva come sempre. L’inflazione in aprile è del 6,2%, in piena ascesa. Il Pil promesso al 4,7%, nel primo trimestre precipita a meno 0,2%. L’oneroso contributo alla militanza pro Kiev non può bastare. Ancor più se i costi degli embarghi e del potenziamento militare dell’Ucra in a per il suo vantaggio tattico sono finalizzati a intensificare il conflitto per logorare la Russia. Fino a quando? UN ALGORITMO IN POLITICA La logica e la forza dell’istanza morale dovrebbero padroneggiare i due tropismi della paura, da un lato quello che ci paralizza, dall’altro ciò che accompagna l’avvedutez - za, l’attenzione verso ciò che ci potrebbe danneggiare e la cura per ciò che esiste a cominciare dal sé, l’amor proprio. Sto appellandomi a una sana paura, alla precauzione. Il sentimento che può contraddire l’assolutismo delle scelte unilaterali, a partire dall’intensi - ficazione della militarizzazione dello scontro, delle parole sempre più brutali e sguaiate nella demonizzazione dell’av - versario. Non c’è solo insensatezza e avventatezza al comando del mondo, è in funzione l’algoritmo ontologico che acceca il senso del limite dinnanzi alla presunzione di essere nel giusto come in tutte gli universalismi militanti. Troppe volte finiti nell’ossimoro delle guerre umanitarie, le «guerre g i u s te » . L’algoritmo politico ha sostituito la dialettica democratica del contraddittorio e della tolleranza, lo vediamo in Italia dove il parlamento è sospeso ad interim, gelato da un nuovo «stato di eccezione» che oggi contempla solo la scelta eterodiretta dell’escalation bellica. Tutto ciò non crea solo dipendenza e consuetudine nelle menti, ma l’automatismo si infila anche nelle prassi collettive e soprattutto in quelle delle stanze dei bottoni. È la matrice dell’algoritmo che impone sequenza, procedura e finalità, il suo perfettismo eccede la nostra imperfezione e i vaghi sentimenti, ispira l’o r i z zo nte transumano. La certezza di un nuovo determinismo attraversa il pensiero, una volta stabilito l’obbiettivo esso si tramuta in verità. Legge e desiderio si identificano. Tutto diviene coazione a ripetere, automatismo paranoico dell’e s c a l at io n estraneo alle conseguenze. Pare di sentire le parole del fisico Julius Robert Oppenheimer. «Quando vedi che qualcosa è tecnicamente attraente, vai avanti e la fai e ragioni circa il da farsi solo dopo che hai avuto il tuo successo tecnico. Questo è stato il nostro approccio con la bomba atomica». 



La scomoda verità di Berlusconi sull’U c ra i n a

 

 L’altra sera, a Treviglio, Silvio Berlusconi ha detto quello che tutte le persone assennate pensano: se vuoi la pace non puoi riempire l’Ucraina di armi, perché altrimenti ti prepari alla guerra. Intendiamoci: si può anche decidere di partecipare a un conflitto contro u n’aggressione che si ritiene ingiustificata e vigliacca; tuttavia, bisogna avere l’onestà di dirlo con chiarezza e di spiegarlo agli italiani, senza giocare con le parole e senza furbizie tipo quelle dei pagamenti in euro che magicamente si trasformano in rubli. Sì, lo ammetto, il Cavaliere ha un pregio che altri politici, di destra e sinistra, non hanno: sull’i nva s io n e dice in pubblico ciò che pensa, mentre altri, pur pensando le stesse cose, non hanno il coraggio di parlare fuori dai denti. Sarà perché il leader di Forza Italia ne ha viste tante, sarà perché è sempre stato un p o’ politicamente scorretto, ma al momento è l’u n ic o che ha fatto un discorso politico e non si è fatto trasportare dai guerrafondai da salotto. A differenza di ciò che ha scritto il Corriere della Sera nella sua edizione di ieri, B e rlu s c o n i non ha giustificato Puti n , ma anzi si è dichiarato deluso dal comportamento del presidente russo. Il Cavaliere non si è messo a spiegare che la guerra poteva essere evitata se soltanto qualcuno avesse fatto qualche cosa prima che i carri armati russi varcassero il confine ucraino. Né ha sostenuto che la Nato è stata troppo aggressiva e ha sbagliato ad allargare ad est la propria zona di influenza. No, il leader di Forza Italia questi argomenti non li ha neppure sfiorati e dunque è difficile sostenere che abbia anche lontanamente cercato di trovare una ragione che consentisse l’i nva s io n e. Semplicemente, si è limitato a dire quello che nel nostro piccolo scriviamo dalla fine di febbraio, ovvero che se mandiamo le armi agli ucraini siamo in guerra anche noi, non solo l’e s e rc ito di Kiev. Se spedisci cannoni e armi pesanti partecipi a un conflitto anche se i tuoi soldati non hanno sparato un colpo e solo un ipocrita può sostenere che non sia così. Ma la parte più interessante dell’intervento di B e rlu s c o n i non riguarda ciò che è stato in questi mesi, bensì ciò che sarà nei prossimi, e cioè come si esce dalla situazione in cui Putin per primo, ma anche alcune scelte dei leader europei ci hanno ficcato. Ovvero: come si fa la pace e come si evita che le industrie rimangano senza gas, l’inflazione superi il 10 per cento (la previsione è del governatore della Banca d’Inghilterra) e l’intera eurozona precipiti in una recessione dalla quale farà fatica a risollevarsi. Le parole del Cavaliere da questo punto di vista sono la parte più interessante del discorso: «Non abbiamo veri leader nel mondo, non li abbiamo in Europa. Un leader mondiale che doveva avvicinare Puti n al tavolo gli ha dato del criminale di guerra (sembra alludere a Jo e Bid e n , ndr), gli ha detto che doveva andare via dal governo russo e finire in galera (…). Capite che con queste premesse il signor Pu - ti n è ben lontano dal sedersi a un tavolo». In effetti, difficile dargli torto: se vuoi trattare con uno non gli puoi dire che lo vuoi morto o rinchiuso in galera. Magari lo puoi pensare e forse anche sognare come esito finale, ma se vuoi trattare queste parole non sono certamente distensive. Il Cavaliere poi ha continuato guardando in casa nostra: «Avremo forti ritorni delle sanzioni alla Russia sulla nostra economia, già si è fermato lo sviluppo, ma ora ci sarà anche una diminuzione del Pil». E non solo: «Ci saranno danni ancor più gravi in Africa perché nei porti dell’Ucraina sono ferme tonnellate di grano e mais. In Africa non hanno più la possibilità di fare il pane ed è possibile che ci siano ondate di profughi». Non voglio attribuirmi meriti, ma le frasi del leader di Forza Italia sembrano prese direttamente da uno dei tanti editoriali sulla guerra che abbiamo pubblicato negli ultimi due mesi. Siamo state infatti tra le pochissime voci, anzi forse l’unica, a schierarci senza se e senza ma contro l’i nv io delle armi e ci siamo presi insulti dalla grande stampa per aver detto che era indispensabile una trattativa che facesse tacere i cannoni. Qualcuno ci ha risposto che era immorale invocare un negoziato. Anzi, ci siamo sentiti definire pacifisti cinici, pronti alla resa sulla pelle degli ucraini. A dire il vero, c’è anche chi si è spinto oltre il limite, accusandoci di essere diventati putiniani. Ora, a dire le stesse cose che abbiamo scritto noi è l’uomo che tre nt’anni fa, per fermare i comunisti e in nome della libertà, scese in campo. Ed è la stessa persona che a Pratica di Mare fece sottoscrivere un accordo fra Nato e Russia. Diranno che anche lui si è venduto all’ex agente del Kgb? E i politici di destra e sinistra (anche del Pd), gli imprenditori grandi e piccoli, che in privato mi ripetono che regalare missili a Kiev è una follia, avranno il coraggio di dire ciò che pensano in pubb l ic o?

Caro Draghi, per colpa dell’Ue la recessione è un rischio vero

 

Quando la campagna tardava a dare i suoi frutti o non li dava proprio Giuseppe, un contadino della borgata dove ho vissuto la mia adolescenza, si rivolgeva alla sua amata mula e le diceva: «Cara mula, qui invece d’a n d a’ avanti si rincula». Se al posto della mula, con tutto il rispetto, ci mettiamo il nostro governo e se al posto del contadino Giuseppe ci mettiamo Fabio Balboni, economista di Hbsc (importante banca internazionale), e se al posto della campagna ci mettiamo l’economia italiana il discorso non cambia. L’economia rincula. Almeno secondo Balboni, che tuttavia non è esattamente l’ultimo arrivato né ultima arrivata è la banca che rapp re s e nta . Non molti giorni fa il nostro presidentedel Consiglio Mario Draghi disse così: «A oggi non vedo una recessione quest’anno e il motivo è che abbiamo chiuso l’anno scorso molto, molto bene, e quindi ci portiamo dietro una crescita - come si dice - acquisita. Mi pare molto difficile che que s t’anno ci possa essere una recessione…». Fa bio Balboni, senior economist di Hbsc, dopo che la Commissione europea ha tagliato le stime di crescita dell’Italia per il 2022 al 2,4% dal precedente 4,1% ha sostenuto che «Le prospettive d el l ’economia italiana rimangono soggette a forti rischi di ribasso, considerato che l’Italia è tra i maggiori importatori di gas naturale russo e quindi potrebbe essere gravemente colpita da eventuali e improvvise interruzioni delle forniture». E fin qui anche noi sapevamo che il caro bollette sta determinando problemi gravissimi nel nostro Paese sia alle imprese, che consumano molta energia, sia alle famiglie appartenenti alle fasce di reddito medie e basse. Quello che però non sapevamo - o meglio che pensavamo ma evitavamo allo stesso tempo di pensare che avvenisse - era che tutto questo potesse trasformarsi in una possibile recessione ed invece lo stesso Balboni - che, intendiamoci, non è che qui stiamo prendendo come l’Oracolo di Delfi pendendo dalle sue labbra come una folla di allocchi - ha sostenuto che i rischi di ribasso del Pil sono aumentati in modo significativo e, anche se il settore dei servizi dovrebbe rimanere ben sostenuto grazie all’effetto delle riaperture, non si può escludere una recessione, quindi c’è quanto meno perplessità circa la possibilità che la forte ripresa registrata nel 2021 regga e trascini anche quella del 2022. Del resto, lo stesso M a r io Dragh i, molto prudentemente e in controtendenza rispetto ad altri entusiastici ministri, aveva ammesso in più occasioni che quella ripresa del 2021era anche dovuta al fatto che quanto più si cade in basso tanto più alto è il rimbalzo. È quella che in economia potremmo chiamare la «legge della palla» che non si riferisce alle palle che spesso i politici sparano in economia, ma più nobilmente al fatto che a un tonfo verso il basso, proprio come nel caso della palla, corrisponde un rimbalzo potente, al contrario delle palle dei politici che una volta sparate a terra si schiacciano al suol o. La possibile recessione è colpa del governo e in particolare di Mario Draghi? Pensiamo che la maggiore colpa sia europea, non per un acritico quanto sciocco filo draghismo, ma perché pensiamo che dinnanzi a una crisi economica della portata attuale o l’Eu ro pa rivedeva e sospendeva seriamente i vincoli del deficit e del debito assumendone la garanzia (e ciò poteva essere fatto in vari modi), o avrebbe dovuto immediatamente intervenire con un Energy fund per sostenere le economie dei Paesi, e non pensando che questa crisi si sarebbe risolta con le sanzioni alla Russia e con u n’ipotetica centrale unica di acquisto del gas che per ora è stata scritta in qualche documento e si è ascoltata in qualche intervento tanto roboante quanto vuoto. Spesso le due caratteristiche vanno di pari passo. Non siamo assolutamente d’accordo con le misure di politica economica che sono state intraprese dai governi Conte I e II né con l’ultima manovra finanziaria del governo Draghi. Sono stati soldi dispersi in mille rivoli e che hanno avuto un impatto risibile se non nullo sull’e cono mia i ta l i a n a . Ma quando le crisi investono un continente che ha anche una sua unità politica come l’Europa non si può pensare che gli Stati membri risolvano i problemi, oltre un certo limite, da soli, perché questo sarebbe come pensare che un singolo Stato dell’America del nord avrebbe potuto risolvere da solo la crisi pandemica e così non è stato attraverso un massiccio e poderoso intervento del governo federale. Ancora una volta l’Europa non c’è, non c’è stata e se c’è stata lo ha fatto non centrando la qualità degli interventi né fornendoli delle risorse necess a r ie.

Eni rompe gli indugi e apre i conti in rubli come chiesto da Gazprom

 

Eni rompe gli indugi e avvia la procedura per l’ap ertura di due conti presso Gazprom Bank, in euro e rubli, per il pagamento del gas russo «senza accettazione di modifiche unilaterali dei contratti in essere». La decisione, fanno sapere dal cane a sei zampe, è «condivisa con le istituzioni italiane». Il lodo Nabiullina va. Il sistema escogitato dalla governatrice della banca centrale russa, Elvira Nabiullina, per permettere alle aziende europee di pagare il gas fornito da Gazprom senza infrangere il quadro sanzionatorio europeo è stato sdoganato dall’Un io n e europea. Il commissario Fra n s Timmermans, in una intervista radiofonica, ha infatti affermato che il pagamento in euro non viola le sanzioni e dunque, considerato lo schema disegnato dal decreto di Vladimir Putin del 31 marzo scorso, di per sé il versamento di una somma in euro su un conto presso Gazprom Bank non è in contrasto con il quadro sanzionatorio. Più ancora, e per fatti concludenti, il lodo Nabiullina è stato accolto dalle compagnie europee acquirenti della materia prima. Le quali, nell’imminenza della scadenza per il pagamento, hanno deciso di rompere gli indugi e, pur tra mille cautele, annunciare l’apertura degli ormai famigerati conti «K» presso Gazprom Bank. Eni, in particolare, ha emesso ieri un lungo comunicato stampa in cui articola nel dettaglio come procederà in questi giorni per adattarsi alle richieste provenienti da Gazprom Export. Possiamo solo immaginare il lavoro di fino degli uffici legali nel redigere il comunicato stampa, che annuncia l’apertura dei conti «senza accettazione di modifiche unilaterali dei contratti in essere». La decisione di aprire i conti, afferma Eni nel suo comunicato, è stata presa in accordo con le autorità italiane ed avviene su base temporanea, «confermando espressamente l’allocazione a carico di Gazprom Export di ogni eventuale costo o rischio connesso alla diversa modalità esecutiva dei pagamenti». In particolare, «le attività operative di conversione della valuta da euro a rubli saranno svolte da un apposito clearing agent operativo presso la Borsa di Mosca entro 48 ore dall’accredito e senza coinvolgimento della Banca centrale russa». Eni ha già chiarito a Gazprom Export «che l’adempimento degli obblighi contrattuali si intende completato con il trasferimento in euro, e rinnoverà il chiarimento all’atto di apertura dei conti K». Quello che emerge dai primi due giorni di questa settimana è che di fronte agli imbarazzanti balbettii del governo e ai silenzi dei ministri competenti, sono stati due tra i maggiori soggetti economici italiani a dettare la linea politica in questo difficile frangente. Lunedì l’amministratore delegato di Intesa San Paolo, Carlo Messina, in una intervista alla Stam - pa ha pronunciato parole assai nette contro l’ipotesi di un embargo sul gas: «Dobbiamo essere consapevoli in quanto l’al - ternativa non è tra pace e condizionatore ma fra pace e cosa mangiamo. Tra pace e condizionatore io scelgo senza dubbio la pace, ma se dovessimo scegliere tra pace e cosa mangiamo, questo significherebbe uno scenario di guerra. Dovremmo affrontare picchi di disoccupazione con 500.000 o 1 milione di persone». Affermazioni crude che hanno il pregio di sgombrare il campo dalla retorica paternalistica del condizionatore come strumento di pace. Ieri invece è stato il turno di Eni, che ha rotto gli indugi e, come abbiamo spiegato, ha avviato le procedure per l’aper - tura presso Gazprom Bank dei due conti correnti necessari al pagamento del gas prelevato dal fornitore russo. A fronte dell’ondivago e burocratico atteggiamento della Commissione europea, che ha parlato molto in termini legali senza mai chiarire fino in fondo, si tratta di un atto di realismo, che evita (almeno per il momento) un danno enorme per il nostro paese quale sarebbe, appunto, la chiusura dei flussi di gas dalla Russia. Nello sfacelo di una Europa sempre più in confusione, emerge chiara l’ipocrisia di Bruxelles, che aggira le sue stesse sanzioni non potendo fare a meno della Russia.

lunedì 16 maggio 2022

Ecco L’IMMIGRAZIONE che verrà

 

I rincari delle materie prime e il blocco delle derrate alimentari provenienti da Russia e Ucraina stanno affamando l’Africa con il rischio di massicce ondate di disperati in fuga non dalle guerre ma dalla fame. Un’e m e rge n - za che la Ue si ostina a non considerare. Un effetto collaterale soprattutto per il nostro Paese, che finora non è stato messo nell’agenda europea, né in quella italiana.L’atte n z io n e generale è concentrata sull’evoluzione del conflitto in Ucraina ma c’è un effetto collaterale che finora non è stato messo nell’agenda europea e nemmeno italiana, anche se toccherebbe da vicino il nostro Paese. È il rischio di una migrazione di massa dall’A f r ic a spinta dall’intensificarsi dei problemi economici e agroalimentari. Il blocco russo dei container nei porti del Mar Nero, carichi di grano e mais (ben 25 milioni di tonnellate sono ferme), sta mettendo a dura prova i Paesi africani. Il prolungamento della guerra porterà in Ucraina al taglio delle semine primaverili di cereali. Saranno dimezzate su una superficie di 7 milioni di ettari rispetto ai 15 milioni precedenti l’invasione della Russia. Il che si aggiunge alle difficoltà del commercio internazionale di materie prime a g r ic o l e. Le Nazioni Unite hanno già lanciato l’allarme per il pericolo di una catastrofe globale sul piano agricolo e alimentare come mai era accaduto dalla seconda guerra mondiale, quale effetto collaterale del conflitto ucraino. Secondo un’analisi di Coldiretti sulla base dei dati del centro studi Divulga, rischia di venire a mancare oltre un quarto del grano mondiale. Ucraina e Russia controllano assieme il 28% degli scambi internazionali di frumento, con oltre 55 milioni di tonnellate movimentate, ma anche il 16% del mais (30 milioni di tonnellate) per l’alimentazione degli animali negli allevamenti e ben il 65% degli scambi di olio di girasole (10 milioni di tonnellate). Milioni di tonnellate di grano sono intrappolate in magazzini a terra o su navi che non possono muoversi. Il direttore esecutivo del World food programme, Dav id B ea s ley, l’ha definita una «catastrofe su catastrofe» sottolineando che «44 milioni di persone nel mondo stanno marciando verso la fame». Ha aggiunto che «il tempo sta per scadere e il costo dell’inerzia sarà più alto di quanto si possa immaginare». Se i porti non dovessero riaprire i contadini ucraini non avranno un luogo dove conservare il prossimo raccolto di luglio e agosto, è lo scenario tracciato dal Wfp, con il risultato che «montagne di grano andranno perse» mentre il mondo implora a i uto. In questo momento in Africa 1 persona su 5 ( 282 milioni di abitanti) soffre di denutrizione e 93 milioni di persone in 36 Paesi stanno rimanendo senza cibo. I Paesi colpiti da guerre, guerriglie e violenze sono 20 con 7 colpi di Stato che si sono verificati solo nell’ultimo anno. Secondo Oxfam, i beni alimentari in tutto il continente sono schizzati alle stelle, più alto del 30-40% rispetto al resto del mondo, in proporzione al Pil pro capite. La Fao ha denunciato un aumento record del costo dei prodotti alimentari, un trend che può avere affetti destabilizzanti in molti Paesi poveri, soprattutto in Nord Africa. In Libia, Egitto, Tunisia, Algeria non arrivano più le navi cariche di grano a causa del conflitto russo. Il Libano deve l’81% delle sue forniture di cereali all’Ucraina. Il Cairo sta trattando con mercati alternativi e ha avviato la stagione di approvvigionamento di grano con due settimane di anticipo per non rimanere a secco. Una contestazione di agricoltori contro il governo si è svolta in Libano, all’i n aug u ra z io n e della fiera agricola di Tripoli dove erano presenti alte cariche politiche. Questo mix di fattori, ovvero l’instabilità politica, l’aumento delle materie prime e la crisi agroalimentare creano sfollati, profughi, migranti. All’esodo di centinaia di migliaia di persone dall’Ucraina si aggiungerebbero nuove ondate dal Nord Africa. L’Europa è pronta a gestirle? Domanda retorica. Il blocco delle esportazioni e i rincari di materie prime e carburanti colpiscono le industrie e allargano le fasce di povertà. Il flusso migratorio n Gianandrea Gaiani, lei dirige la testata Web Analisi difesa ed è stato consigliere per le politiche di sicurezza dell’allora ministro Matteo Salvini: crede ci sia davvero il rischio di una forte migrazione dall’Africa come effetto collaterale della guerra uc ra i n a? «In Africa sta esplodendo il problema alimentare. Russia e Ucraina sono grandi esportatori di grano ora bloccato nei porti. A questo si aggiunge la mancanza di fertilizzanti e l’aumento dei prezzi energetici. Un mix esplosivo che sta creando effetti devastanti sulla produzione agricola nel terzo mondo. Non è difficile prevedere che spinti da una crisi alimentare importante, i movimenti migratori dall’Africa aumentino». L’Europa è pronta a dare una risposta a questo tema? «Il ministro dell’I nteg razione francese ha dichiarato che i profughi ucraini potranno integrarsi bene nel mercato del lavoro europeo. Non concordo: la crisi energetica sta mettendo in difficoltà il mercato del lavoro europeo. Il caro energia e il previsto embargo del gas russo faranno perdere centinaia di migliaia di posti di lavoro portando povertà e disagio sociale. In questa situazione l’Europa sarà in grado di gestire e accogliere massicci movimenti migratori?». Non vedo il tema all’o rd i n e del giorno dell’agenda europea. Disattenzione e rinvio del problema? «Bella domanda. La Ue è vittima del diktat anglo americano che questa guerra va prolungata per indebolire la Russia. È un mantra che forse può rientrare negli interessi americani, ma sentire esponenti del Parlamento europeo e la presidente della Commissione europea parlare di vittoria dell’Ucraina fa venire i brividi. Sottovalutano i disastri che questa politica sta portando all’Un io n e europea. La guerra avremmo dovuta mediarla già otto anni fa, per impedire che si sviluppasse e avevamo gli strumenti per farlo come principali acquirenti di gas russo che transita in parte attraverso i gasdotti ucraini. Avremmo avuto la leva finanziaria ed economica per tentare di indurre i due Paesi al compromesso. Non lo abbiamo fatto allora e non lo facciamo ora, per seguire la logica di guerra ad oltranza voluto dagli Stati Uniti per indebolire i russi. Il risultato sarà la devastazione dell’Ucraina, il logoramento della Russia e soprattutto l’impoverimento dell’Eu ropa » . L’Europa quindi non è pronta ad accogliere maggiori flussi migratori? «Assolutamente no. Avremmo già costi di welfare importanti a causa della crisi economica ingigantita dalla guerra. Se aumenta la disoccupazione, il bisogno di ammortizzatori sociali interni crescerà. I maggiori costi energetici stanno portando al collasso le aziende e gli aiuti dei governi non possono durare all’infinito. Questo vale soprattutto per l’Italia che non ha il carbone della Germania o il nucleare della Francia. Come ha ammesso Confindustria, un terzo dell’industria italiana non ha più interesse a produrre perché i costi sono più alti del prezzo a cui vendere la merce. Le aziende che chiudono non riapriranno alla fine della guerra, le avremo perse per sempre. Sento parlare di aumento delle spese per la difesa. Tema rilevante e di grande attualità, ma sarà difficile portare avanti questo progetto nel momento in cui dovremo pensare a sussidi di disoccupazione su vasta scala». Che dovremmo fare? «Italia ed Europa hanno tutte le condizioni per svolgere un ruolo di mediazione, ma abbiamo accettato la narrazione orribile che la guerra è cominciata il 24 febbraio: invece è cominciata nel 2014 con la destabilizzazione dell’Ucraina. Per otto anni lo abbiamo ignorato e oggi ci esplode in faccia. Speriamo di non dover scoprire in ritardo anche le nuove ondate migratorie dai Paesi afro-asiatici».

«Vaccino, con tre dosi ci si ammala più di chi non è vaccinato»

 

« N - E- S - S - U - N- O » . Spero che scritto così si capisca la determinazione e la decisione con cui il professor Giovanni Frajese endocrinologo e docente all’universi - tà del foro italico risponde alla domanda che in tanti si fanno e cioè che senso abbia imporre la vaccinazione anti Covid a chi è già guarito da questa malattia. «È una coercizione priva di qualsivoglia base scientifica. E questo lo sa qualsiasi medico. Ed è la cosa che più mi fa impazzire». Lei è stato sospeso per inosservanza dell’obbligo pur essendo guarito dal Covid. «Non hanno radiato professionisti che rompevano il femore per poi poter intervenire chirurgicamente e veniamo sospesi per sostenere tesi che si imparano al secondo anno di medicina». Cosa insegna professore? «Scienze mediche e tecniche app l ic ate » . Che tradotto significa? «Tecnologie di avanguardia a livello medico». Anche il vaccino mRna è tecnologia di avanguardia? «Sperimentale e d’ava n g u a rd i a . È una metodica che si studia dal 1987, anno in cui Robert Malone ha registrato il primo brevetto. Oltre tre nt’anni che la si studia. Senza alcuna applicazione pratica prima dello scorso anno. Anche perché gli studi effettuati in maniera adeguata non le consentivano di passare lo s c r ut i n io » . C io è ? «Il limite era l’efficacia. Nel tempo, sottolineo. Nel caso dei vaccini il limite di efficacia che può essere considerato è non inferiore al 50%. Già dopo un anno di studio, che non è stato fatto prima di mettere i vaccini in commercio, ma che ora dopo un anno abbiamo, possiamo dire che non solo questa efficacia è inferiore al 50%, ma è addirittura n egat iva » . Il che sig nifica? «Che le persone vaccinate con due dosi e nel tempo con tre si ammalano più facilmente dei non vaccinati. E infettano più facilmente». Il contrario d el le motivazioni addotte per imporre l’obbligo di vaccinazione con annesse restrizioni delle libertà... «Non dimentichiamoci che hanno inizialmente tirato fuori un livello di efficacia relativa rispetto al placebo del 95%. In pratica ne sostenevano l’efficacia assoluta. Quasi nessuna possibilità di ammalarsi. Basta vedere la storia con tutte le persone che si sono ammalate dopo essersi vaccinate. Un numero che non aveva nessun senso». Ora a che punto siamo? «Vanno avanti cambiando le definizioni. Prima parlavano ufficialmente di immunità. Adesso si parla invece di protezione. Parola più vaga non potevano usarla. Dal momento che da vaccinato infetto e posso infettare». Il grande pubblico ha iniziato a conoscerla nel momento in cui di fatto ha zittito in tv un imbarazzato Pierpaolo Sileri, suo ex compagno di corso all’un ive r s i tà , a proposito del carattere sperimentale del vaccino. «Gli effetti avversi possono essere a brevissimo termine di tipo allergico, o avvenire a distanza di pochi mesi, o a medio e lungo termine. Nel caso scoprissimo effetti tra tre anni e fossimo in presenza di un farmaco lo si ritirerebbe dal mercato, ma trattandosi di una persona sana già vaccinata non si può tornare indietro. Hanno trattato la popolazione, e in particolare i bambini, come cavie sperando che non succedesse niente. Speranza che già vediamo mal riposta, purtroppo. Al di là del fatto che stanno cercando ogni spiegazione pur di non dimostrare la correlazione degli effetti con la vaccinazione». I dati sulla mortalità in eccesso di cui parliamo da giorni sulla Veri - tà non la sorprendono… «Per mesi ho sperato di avere torto. Ora possiamo solo sperare che gli effetti a medio lungo termine non siano così gravi. Speranza che, ahimè, si affievolisce quanto più si continua a rivaccinare le persone. Avrei preferito la pubblica gogna per aver peccato di prudenza. Ma purtroppo così non è». Perché è sbagliato sottoporre le persone a continui richiami? «Prima di oggi avete mai sentito di vaccinazioni che hanno bisogno di tre/quattro dosi? Il capo di Moderna sostiene che stanno preparando nuovi cicli vaccinali fatti di tre dosi per la Omicron; derubricata dalla stessa Oms a sindrome influenzale. Andiamo avanti con tre dosi all’anno per ciascuna variante? » . Dal vaccino mu ltid o s e alla multi mu ltid o s e .? «I segnali di una possibile anergia del nostro sistema immunitario (incapacità di reazione, n dr ) c on stimolazioni così ravvicinate nel tempo e così importanti sono preoccupanti. Se come dicevo prima una persona vaccinata si ammala più facilmente vuol dire che il sistema immunitario già non sta funzionando bene. Si rischia la compromissione del sistema immunitario che, ricordiamo, serve a proteggerci non solo dai virus, ma pure dai tumori e dai batteri». Lei non è un uomo di legge, ma un medico. Però vi sono sempre più giudici che si stanno pronunciando contro la legittimità dell’obbli - go vaccinale. «I giudici stanno iniziando a leggere le carte. Quella che inizialmente sembrava una presa di posizione univoca e massiccia sta venendo meno. La Commissione medico scientifica indipendente, di cui faccio parte, ha collaborato, in qualità di consulente, al procedimento instaurato in Sicilia e poi approdato al consiglio di giustizia amministrativa in Sicilia. La corte ha fatto una serie di domande molto circostanziate. Ha ottenuto la risposta da parte del governo redatta da Rezza e Locatelli, e anche da parte nostra. Le nostre risposte non erano solo date, ma anche referenziate con articoli scientifici a supporto». Cosa l’ha colpita della memoria R ez za- L o catel l i ? «Hanno sostenuto che l’immu - nità da guarigione dura solo sei mesi, mentre nel frattempo è stato acclarato che gli anticorpi circolanti e mucosali derivanti da guarigione si mantengono per almeno 18 mesi. Ragionevole dedurre che la protezione sia permanente». Un processo istruttorio non banale che ora approda addirittura in Corte costituzionale. Un segnale importantissimo. È come se ravvisassero l’enormità della cosa. Che aspettative ha? «Abbiamo chiesto come Cmsi un confronto aperto, leale, franco e pacato col governo e il ministero della Salute. L’unico che abbiamo avuto è stato di fronte alla giustizia amministrativa siciliana. Loro hanno dato risposte scritte. Noi siamo andati lì di persona. I professori Bellavite e Donzelli hanno avuto un ruolo ancora più attivo di me. E questo è il risultato. Immaginate se il confronto fosse pubblico». L’ordine dei medici di Firenze fa un appello nazionale a farla finita con questa storia dell’obbligo vaccinale. Le continue contestazioni impediscono addirittura l’appro - vazione dei bilanci inficiando il funzionamento dell’o rga n o. «Una soluzione politica. Piuttosto che confrontarsi cercano la terza via, punto. Ma la scienza non è politica. La scienza è prima di tutto d at i » . Da medico cosa la spaventa di più dei vaccini mRna? «La mancanza di studi di canceroginità e di genotossicità. Le fonti per così dire istituzionali - anzi pseudo-istituzionali - escludono la possibilità di retro-trascrizione del mRna vaccinale sul nostro dna. Questa affermazione risulta purtroppo smentita da uno studio svedese sulle linee cellulari epatiche. Lo studio ha dimostrato esattamente il contrario. La retro-trascrizione non solo è possibile ma è stata addirittura riscontrata». Mi aiuta a capire meglio? Ch e vuol dire retro -tra s c r i z io n e ? «Vuol dire che quel codice che è stato inserito nel corpo entra a far parte del tuo dna con la possibilità di vederlo trasferire alle generazioni future. Stiamo cioè parlando di un danno potenziale tale da far tremare i polsi. Non si ferma alla singola persona che è stata vaccinata. Una trasmissione sul patrimonio genetico dei figli con conseguenze inimmaginabili. Si sta parlando di una modifica del dna umano. Non so se sono stato chiaro». Chiaro. Cosa pensa della persistenza dell’obbligo di mascherin a? «È uscito da poco un articolo in versione preprint, in attesa di pubGIOVANNI FRAJESE blicazione. Uno studio tutto italiano. Le università sono quelle di Bologna, Ferrara e Perugia. Gli autori si sono presi la briga di misurare la quantità di anidride carbonica che viene inalata a seguito dell’ut i l i z zo delle maschere, siano esse le Ffp2 oppure chirurgiche. È uno studio chiave, perché siamo l’unico maledetto Paese che continua a costringere le persone - soprattutto i bambini - a indossarla. Spero che sia pubblicato al più presto. Ma i dati sono chiari. Il livello di sicurezza accettabile è di 5.000 ppm, parti per milione. Dato un volume cioè di un milione di unità, l’anidride carbonica non dovrebbe superare le 5.000, 5.000 milionesimi. Ebbene questo livello di tossicità viene superato nel 40% delle persone che utilizzano la mascherina chirurgica e nel 99% delle persone che portano la Ffp2». Mamma mia… «Eh, ma il livello di tossicità aumenta con l’abbassamento dell’età. Quindi nei bambini. Con una media di 12.847 parti per milione. L’intervallo delle osservazioni è più o meno 2.898. Si può quindi arrivare a quasi 16.000 parti per milione. Oltre tre volte il limite massimo consentito. Mentre cioè gli effetti sul contenimento dei contagi sono risibili, stiamo causando un danno molto serio sui bambini, visto che gli obblighiamo a portarla per ore. È impensabile torturarli con misure che non hanno alcuna evidenza s c ie nt i f ic a » . Una curiosità. Come fa a mantenere la calma in televisione? «Mi metto dietro a me stesso e lascio che le cose siano. Non mi metto al piano loro. Altrimenti la comunicazione perde di efficacia. Questo lo puoi fare se dentro di te sai di avere ragione».

venerdì 13 maggio 2022

Gli Usa ordinano, l’Ucraina combatte l’Italia e l’Ue pagano (2,5 miliardi)

 



Qualche giorno fa, in un’intervista a R ep ub b lic a, il segretario del Pd Enrico Letta ha definito ignominiosa l’id ea che in Ucraina ci sia una «guerra per procura», ovvero che gli ucraini stiano combattendo per conto degli Stati Uniti o della Nato. «I protagonisti sono gli ucraini, sono loro che stanno morendo e saranno loro a decidere se e a quali condizioni accettare una soluzione diplomatica». Ovviamente, il segretario de ll’Alleanza atlantica Jens Stoltenberg si è incaricato subito di smentirlo, correggendo Volodymyr Zelensky, il quale aveva aperto all’id ea di una pace in cambio della cessione alla Russia della Crimea. «La Nato non accetterà mai l’a n n e ssione», ha spiegato, quasi che la penisola occupata da Puti n nel 2014 faccia parte dell’organizzazione e dunque sia compito suo decidere se accettare o meno le decisioni di Kiev o di Mosca. Tuttavia se, nonostante le parole di Stolten be rg , L etta continuasse a ritenere ignominiosa la definizione di «guerra per procura» a proposito del conflitto, il segretario del Pd potrebbe rileggersi l’intervista che Philip Breedlove ha concesso un mese fa a The Argument, il podcast del Ne w York Times. Alla domanda di Jane Coaston, che gli chiedeva se gli Stati Uniti fossero in guerra, Bre e d l ov e, che non è il portavoce di Puti n , ma un ex generale americano che fino al 2016 è stato al comando della Nato, ha risposto secco: «Io penso che siamo in una guerra per procura con la Russia. Stiamo usando per procura gli ucraini come nostre forze». Sì, l’alto ufficiale con 4 stellette ha detto proprio così: stiamo usando gli ucraini per combattere al posto nostro. E alla obiezione della Coa s to n che gli ha chiesto se una guerra per procura può continuare a rimanere tale, sottintendendo il rischio di un coinvolgimento nel conflitto dei Paesi Nato, Bre ed l ove ha detto di ritenere che questo sia il piano corrente e che non ci sia intenzione di cambiarlo. Dunque, con buona pace di L etta , gli Stati Uniti stanno «usando» gli ucraini e la Nato sta combattendo una guerra contro la Russia per procura. La vera ignominia non è dire la verità, come facciamo noi e Bre e d l ove, ma sostenere ipocritamente il contrario e lasciar intendere che siano gli ucraini a decidere e a dettare le condizioni. Come abbiamo visto, non è così. Gli ucraini sono vittime due volte: prima dei russi, che hanno invaso il loro Paese, e poi degli occidentali, che li armano fino ai denti mandandoli a combattere senza però avere alcuna intenzione di sporcarsi le mani e la coscienza. Europa e America, in questo modo, ritengono di averle pulite e di poter continuare nella finzione. Tuttavia, l’asino, anzi gli asini (ossia tutti quelli che si bevono le frottole che vengono diffuse a reti e giornali unificati) cascano quando si fanno i conti. Come abbiamo scritto più volte, la guerra non è gratis, ma si paga in termini di vite umane e di costi. I morti sono ucraini, i soldi invece sono nostri, ovvero dei Paesi europei che sostengono il conflitto. Z el e ns ky, dopo aver fatto appello alla Ue, alla Nato e all’A m erica, ha battuto cassa, dicendo che per resistere alle truppe russe ha bisogno di sette miliardi al mese. Il suo vice si accontenterebbe di cinque, ma se si vuole evitare la capitolazione di Kiev bisogna pagare. Gli Stati Uniti hanno stanziato 33 miliardi, che non si sa se serviranno a comprare nuovi cannoni o a finanziare la ricostruzione. Sta di fatto che per sostenere l’Ucraina impegnata in una guerra per procura - come dice Bre e d l ove - l’A m e r ic a ha messo mano al portafogli. E l’Europa? Finora i singoli Paesi si sono limitati a inviare a Kiev un po’ di fondi di magazzino del ministero della Difesa. Vecchi missili e vecchie mitragliatrici, ma se il conflitto dovesse durare, l’a r m a m e ntario non sarebbe sufficiente. Quindi, la Ue si preparerebbe a staccare un assegno di 15 miliardi di euro, un paio dei quali sarebbero a carico dell’Italia. Tuttavia, tutto ciò potrebbe non bastare, perché se si vuole davvero fiaccare la Russia, o per lo meno pensare di farlo, bisogna disporre l’embargo degli idrocarburi. Germania e Austria paiono orientate a porre il veto sullo stop al gas, ma potrebbero dire sì al divieto di importare petrolio. L’unico Paese che si oppone a questa misura sembra essere l’Ungheria, e per convincere O r bá n la Ue sarebbe pronta a usare il metodo Erdogan, cioè a pagare tre miliardi pur di ottenere il via libera, comprando il consenso. Fatti i conti e sommati gli 800 milioni stanziati per gli aiuti all’Ucraina, la guerra a questo punto ci sarebbe già costata 2,5 miliardi, una spesa che dimostra come anche le regole della finanza pubblica si possano piegare alle esigenze. Basta che Bruxelles o Washington lo desiderino. Se invece a desiderarlo sono i lavoratori con 40 anni di contributi che ambiscono alla pensione, nisba. Eh, già. La libertà ha un prezzo, quella dalla Fo r n ero un altro.

Prima la moda green, poi la guerra Le bollette continueranno a salire

 

Mario Draghi e il suo ministro Roberto Cingolani s ta n - no svendendo l’Italia alla Ue e agli Usa. Stanno prendendo denaro - quello del Pnrr, che peraltro è in parte a strozzo, visto che dovremo restituirlo e con gli interessi - in cambio di macelleria sociale, visto che il prezzo dell’e ne rg i a , elettrica e non, si avvia a decuplicarsi rispetto al prezzo degli ultimi vent’anni. E ove l’energia aumenta di prezzo, l’inflazione è assicurata. Coi salari invariati, la prospettiva è l’indigenza nera per i poveri e la povertà per la classe media. Nei primi vent’anni del millennio il prezzo medio del megavattora elettrico si attestava a circa 50 euro, ma è salito a 125 nel 2021, fino a 250 dello scorso ap r i l e. Prima della guerra sembrava che fosse la Germania ad avvantaggiarsene. Essa aveva preso accordi con Vladimir Putin per diventare un centro di raccolta quasi esclusivo del gas russo e quindi un quasi esclusivo centro di smistamento del medesimo gas verso altri Paesi della Ue. I tubi che portano gas dalla Russia alla Germania senza passare né per l’Ucraina né per la Polonia giovano sia a Mosca che a Berlino. A Mosca perché indeboliscono l’Ucraina, che ha preminenti introiti per i diritti di passaggio del gas, e a Berlino perché indeboliscono gli altri Paesi europei, che alla dipendenza da Mosca aggiungono quella da Berlino. Per la Polonia più che un indebolimento sarebbe un disastro, visto che essa dipende dal carbone, che avrebbe in abbondanza, ma il cui uso la Ue (cioè la Germania) vorrebbe proibire. Di queste cose ne scrivevamo già lo scorso agosto. La Germania ha un altro vantaggio dai prezzi alti dell’elettricità negli altri Paesi della Ue: la cosa favorisce l’implementazione degli impianti cosiddetti alternativi - eolico e fotovoltaico - che essa prima produce e poi vende ai gonzi. Rivediamo perché. Oggi, il governo italiano paga 24 miliardi tetti fotovoltaici che producano 1 gigawatt elettrico. Dopo 20 anni, che è la vita di quei pannelli, avranno prodotto meno di 200 milioni di megawattora, che a 50 euro per megawattora fanno 10 miliardi. La perdita secca è 14 miliardi. Se però il megawattora sale a 200 euro, il ricavato finale da quei tetti diventa 40 miliardi, con un guadagno di 16 miliardi. Con questa aritmetica i finti tonti credono di convincere i tonti veri che il fotovoltaico è un affare. Naturalmente non lo è, ma l’acquisto è approvato e Berlino gode e festeggia. Siccome, poi, questi impianti alternativi lo sono di  nome ma non di fatto, anche Mosca stappa una bottiglia di champagne per ognuno di quei tetti che i gonzi europei installano, non potendo costoro, in virtù di quei tetti, rinunciare a una sola molecola di gas. Il cerchio si chiuderebbe qui se non ci fosse il terzo incomodo: gli Usa. Ai quali del benessere degli europei non gliene può fregar di meno. Anzi. Il tubo Russia-Germania lo hanno sempre ostacolato, con la logica che se una cosa fa piacere a Mosca allora deve essere ostacolata da Washington. E quanto alla Ue, beh... «fuck the Eu», per dirla con le parole pronunciate da V ic to r i a Nu l a n d - sottosegretario di Stato americano agli affari in Eurasia - a Geoffrey Pyatt - ambasciatore americano in Ucraina - mentre i due, in una conversazione telefonica intercettata, stavano compilando la lista dei componenti del governo ucraino dopo il colpo di Stato del 2014, compilazione dalla quale la Ue era tenuta, con quelle gentili parole, esclusa. Grazie alla segnalazione di un colto, anche se per certi versi stravagante, blogger (è doveroso ringraziarlo: si chiama Massimo Mazzucco), ho appreso di un film documentario del 2016 - U k rai n e on fire - ove il noto regista e produttore americano O l ive r Sto n e indaga sui fatti occorsi in Ucraina nel 2013-14. Nel film, Sto n e intervista V i k to r Ya nu kov ich , il legittimo presidente ucraino che nel 2014 fu destituito con un colpo di Stato preceduto da proteste di piazza. Il pretesto delle proteste fu il rifiuto di Ya nu - kov ich di sottoscrivere accordi commerciali con la Ue. Giova riportare le parole di Ya nu kov ich , al quale Sto n e chiedeva chiarimenti su come nel 2013 egli si stesse muovendo per cercare di risollevare l’Ucraina dalla disastrosa condizione economica nella quale il predecessore l’aveva fatta piombare. «Avevamo due possibili alleati: prima di tutto, contavamo sul Fondo monetario internazionale, ma dopo un anno di trattative, il Fmi ci proponeva condizioni che erano inaccettabili, perché ci chiedeva un sostanziale aumento delle bollette energetiche - luce e gas - ma la cosa avrebbe comportato un forte aumento delle spese per il popolo, visto che il loro stipendio sarebbe rimasto invariato. Rifiutammo l’offerta, facemmo altre proposte al Fmi, ma ci furono tutte rifiutate. L’a l tro alleato era la Russia. Questa era pronta a sottoscrivere accordi, ma noi avremmo dovuto tenere in considerazione il loro interesse». L’intere ss e della Russia era chiaro: gli scambi tra Russia e Ucraina erano liberi e le frontiere aperte, ma se l’Ucraina avesse sottoscritto quegli accordi con la Ue, i prodotti Ue avrebbero transitato senza controllo in Russia, a meno che le frontiere con l’Ucraina avessero cessato di essere aperte. «E così ci prendemmo una pausa, un momento di riflessione», riferisce Ya nu kov ich . Insomma, su un piatto della bilancia c’erano le offerte della Ue, che però erano capestro per il popolo ucraino, e sull’altro la continuità dei buoni rapporti con la Russia. Yanukovich si rifiutò di svendere il proprio Paese e seguì quel che seguì: proteste prima, e colpo si Stato poi. D ra g h i eC i n gol a n i , invece, non hanno alcuna esitazione: loro ci svendono e basta.