STUPIDA RAZZA

martedì 27 dicembre 2022

L’anno dei falchi: le banche centrali globali alzano i tassi 137 volte

 

Dopo anni di tassi zero, l’inflazione ha costretto le banche centrali alla stretta e gli istituti di credito sono intervenuti di conseguenza: guardando le maggiori 26 banche centrali del mondo, ben 22 quest’anno hanno alzato i tassi d’interesse per un totale di 137 volte, aumentando il costo del denaro di 3,75 punti percentuali medi a testa.Ci eravamo quasi convinti che le banche centrali avrebbero lasciato i tassi a zero, sotto zero o comunque ai minimi termini, per sempre. Qualcuno accarezzava l’idea che la monetizzazione del debito e la spesa pubblica da Bengodi potessero durare in eterno. «Sarà per sempre Natale», come cantava Lucio Dalla. «E festa tutto l’anno». Sembrava una «nuova» (e comoda) normalità. Ma era troppo bello per essere vero: il 2022, anno che ha risvegliato il fantasma dell’inflazione, ha regalato a tutti una doccia fredda. Improvvisamente quasi tutte le banche centrali del mondo hanno iniziato a rialzare i tassi d’interesse come se non ci fosse un domani. Chi oggi punta il dito sulla Bce e sulla presidentessa Christine Lagarde, “colpevole” di danneggiare Paesi come l’Italia con i suoi aumenti del costo del denaro, sappia che non è la sola: guardando le maggiori 26 banche centrali del mondo (dagli Stati Uniti alla Polonia), ben 22 quest’anno hanno alzato i tassi d’interesse. In totale l’hanno fatto 137 volte: in media 6,2 volte a testa, cioè - facendo un conto grossolano ma che rende l’idea - un mese sì e uno no. Tutte insieme hanno aumentato il costo del denaro in totale di 82,6 punti percentuali, il che significa 3,75 punti percentuali medi a testa. Non solo: tante di loro hanno anche iniziato (o come la Bce hanno annunciato di farlo a breve) la riduzione del bilancio. Questo significa che stanno riducendo piano piano i titoli di Stato che avevano comprato durante le politiche ultra-espansive degli anni passati, drenando liquidità. Qui i numeri sono (per ora) piccoli, dato che molte banche centrali hanno appena iniziato la retromarcia o l’hanno solo annunciata. Ma ugualmente il trend è segnato: il bilancio della Federal Reserve Usa a gennaio ammontava a 8.750 miliardi di dollari, mentre ora è sceso a 8.580. Quello della Bce è aumentato, ma Christine Lagarde ha annunciato la riduzione a partire da marzo 2023. E in generale la liquidità globale (misurata in dollari e guardando l’aggregato M2) , tra alti e bassi dovuti anche all’effetto cambio è calata dal massimo di 103.783 miliardi di dollari a 100.480: una riduzione di 3.300 miliardi di dollari. Ed è solo l’inizio. Tassi più alti e liquidità meno abbondante, insomma: è questa la medicina amara e globale che le banche centrali stanno somministrando per combattere il nuovo virus che si è propagato nel mondo. L’inflazione. La grande stretta globale Dopo circa 15 anni di tassi bassissimi e di «quantitative easing», giustificati dalla scomparsa dell’inflazione, il mondo è dunque improvvisamente cambiato nel 2022. Un po’ perché la domanda dei consumatori si è improvvisamente svegliata dopo i lockdown del 2020-21 e un po’ perché l’offerta di beni non è riuscita a stare al passo (a causa delle catene globali delle forniture a singhiozzo e di fabbriche non pronte a soddisfare una domanda esplosa improvvisamente) l’inflazione nel 2022 si è impennata ovunque. Sin da inizio anno. Sin dal 2021, in realtà. Quando poi la Russia ha invaso l’Ucraina a febbraio, causando la più grande crisi energetica degli ultimi decenni con prezzi del gas schizzati in alzo, il “pacchetto” è stato completato: l’inflazione ha raggiunto vette che non si vedevano dagli anni ’70. In molti Paesi (Europa e Italia incluse) a due cifre. Le banche centrali non potevano che intervenire. L’inflazione è infatti la peggiore delle “tasse” perché colpisce soprattutto le classi sociali più povere, quelle per cui un aumento dei prezzi segna il confine tra il mangiare e il non mangiare. Così le Banche centrali hanno somministrato al mondo la più amara delle medicine: il rialzo dei tassi e la riduzione della liquidità. L’obiettivo è rendere i prestiti più cari e disincentivare i consumi. Frenando l’economia. Fino alla recessione. Questa è, in fin dei conti, la principale cura universalmente riconosciuta per l’inflazione: se i consumi calano, anche i prezzi calano. Oggi tutti guardano alle banche centrali con preoccupazione per la velocità di questa manovra globale, ma il problema è che le stesse banche centrali hanno aspettato troppo ad agire: credendo per molti mesi che l’inflazione fosse solo «temporanea» (a causa di previsioni sbagliate ma forse anche di un’illusione collettiva), hanno temporeggiato. L’ha fatto la Federal Reserve Usa. L’ha fatto la Banca centrale europea. Poi, quando si sono accorti che l’inflazione non era affatto «temporanea», i banchieri centrali sono corsi ai ripari con una velocità che ha pochi precedenti nella storia. Solo quattro Banche centrali (tra le maggiori 26 del mondo) si sono mosse in controtendenza: quelle di Cina (che ha lievemente tagliato i tassi nel 2022), di Giappone e Indonesia (che sono rimaste ferme) e quella della Turchia. Sebbene qui l’inflazione sia arrivata all’85,5%, la banca centrale (etrodiretta dal presidente Erdogan) ha tagliato i tassi dal 13% al 9% nel corso dell’anno.Le conseguenze della stretta La prima domanda da porsi è se questa medicina, amara, avrà effetto. Negli Stati Uniti l’inflazione sta in effetti già scendendo un po’ (a dicembre è calata al 7,1% dal precedente 7,6%), mentre in Europa si vede solo qualche irrisoria limatura. Ma se oltreoceano il caro-vita è in gran parte dovuto al surriscaldamento dei consumi (dunque gelandoli la Fed può sperare di uccidere il caro-vita), in Europa due terzi dell’inflazione sono invece dovuti al caro-energia. Questo rischia di rendere meno efficace la medicina nel Vecchio continente, anche se pur sempre necessaria per calmare anche l’”altra” inflazione: quella (sempre troppo alta) che esclude l’energia e gli alimentari. Il problema è che la medicina avrà degli effetti collaterali. Il primo, ormai praticamente inevitabile, è la recessione economica. O comunque un brusco rallentamento. Ma ce ne potrebbero essere ulteriori. Un mondo che ha vissuto con tassi a zero per più di un decennio, che ha un indebitamento da record e che ha un sistema finanziario gigantesco costruito quando i tassi erano a zero, quanto a lungo potrà resistere con il costo del denaro sempre più elevato? È vero che oggi resta ben più basso di quello visto non troppi decenni fa. Ma è anche vero che oggi il mondo è diverso da quello degli anni ’70 e ’80: i debiti (pubblici e privati) sono molto maggiori e sono stati accesi in un contesto di tassi bassi che li rendevano sostenibili. Anche il sistema finanziario globale (con una grande quantità di leva) è stato costruito in un contesto diverso da quello di oggi. L’effetto spiazzamento rischia di essere simile a quello di chi prepara le valigie per andare al mare e invece finisce in alta montagna: l’abbigliamento non va più bene. La domanda che tutti si pongono, guardando al 2023, è dunque una sola: per quanto tempo si può resistere in alta montagna con costumi, pinne e magliette? Fuor di metafora: quanto a lungo possono resistere il mondo e i mercati finanziari in un contesto così diverso da quello a cui erano abituati e in cui credevano di restare ancora per molto tempo? Le prossime mosse Anche perché non è finita qui. Le banche centrali hanno comunicato, più o meno tutte, che continueranno nella stretta monetaria. Nel 2023 si farà molto più sul serio sulla riduzione dei bilanci (e dunque dei titoli acquistati negli anni passati). Ma anche i tassi saliranno ancora. Sia la Fed sia la Bce (soprattutto quest’ultima) l’hanno detto senza mezzi termini. Siamo all’inizio di un tragitto. Il traguardo? Ancora lontano. Soprattutto in Europa.

Autotrasporto merci a rischio stop, caccia a 17mila camionisti

 

Confetra lancia un’allerta sul trasporto su strada, penalizzato dalla carenza di autisti, e su ferrovia, colpito anche dall’aumento dei prezzi dell’energia (con un extracosto di circa 100 milioni di euro nel 2022): secondo l’associazione di logistica servono nuove politiche sull’intermodalità, all’interno di una strategia complessiva per il Paese sulla movimentazione delle merci. Mentre il Pnrr, pur molto utile a livello di interventi infrastrutturali, appare insufficiente per le esigenze di digitalizzazione delle imprese del settore logistico, perché, a queste ultime, sono riservati, nel piano nazionale, solo 190 milioni circa. A suonare il campanello d’allarme, dati alla mano, è il presidente di Confetra, Carlo De Ruvo. «In Italia – afferma - il settore dell'autotrasporto merci in conto terzi presenta ancora un’offerta eccessivamente polverizzata. Delle quasi 109mila imprese del settore logistico, iscritte alla Camera di commercio, quasi il 70% è rappresentato da aziende di trasporto merci su strada e, fra queste, oltre l’80% è composto da società non di capitali. Per le aziende strutturate è, inoltre, ormai pressante la problematica della penuria di autisti. Il report annuale International Road Transport Union mostra una crisi di questo lavoro a livello globale». In effetti, i dati del documento mostrano che, globalmente, a fine 2022, manca circa il 40% degli autisti che servirebbero al mondo dei trasporti. L’Europa, peraltro, risulta allineata con questo dato: manca, infatti, il 40% degli autisti, rispetto alle richieste del mercato del lavoro. In Italia, poi, secondo le stime riportate da Confetra, nell’immediato servirebbero almeno 5mila guidatori di Tir, una cifra che salirebbe a quota 17mila, se proiettata nel prossimo biennio; e molti analisti stimano che questo numero crescerà ancora negli anni a venire. E sul tema degli autisti che mancano, De Ruvo sottolinea che «per rendere più attrattiva una professione dove gli italiani sono ormai pochissimi bisognerebbe, intanto, migliorare i tempi di attesa per scaricare e caricare le merci nei porti, negli aeroporti e anche nelle aziende clienti della logistica. Ma occorre anche investire in infrastrutture per le soste che siano efficienti e dignitose. Altrimenti come può un giovane essere interessato, con la prospettiva di lunghe ore di attesa sotto il sole o al freddo dell'inverno?». A fronte di questa situazione, sottolinea De Ruvo, «diventa sempre più importante l’intermodalità con l’utilizzo della ferrovia. Il mare deve essere collegato a terra anche col treno. Invece, la quota della modalità ferroviaria per il cargo, in Italia, è ancora bassa: circa 13%, contro la media europea del 19%; ed è molto lontana dall’obiettivo del 30%, da raggiungere entro il 2030 secondo il green deal della Commissione europea. Non solo. Si sussidia l’autotrasporto e si ignora il fatto che le aziende ferroviarie sono energivore. Le società private del settore prendono energia da Rfi e non è stato loro riconosciuto il beneficio del credito d'imposta. Ma se si danno sussidi all’autotrasporto e non ai treni, si va anche contro il processo di decarbonizzazione di cui tanto si parla». Proprio su questo punto Fercargo, associata di Confetra, ha scritto al ministro dei Trasporti, Matteo Salvini e al viceministro Edoardo Rixi. «Nel settore ferroviario – si legge nella missiva - gli incrementi del costo dell'energia elettrica hanno raggiunto, nel mese di settembre 2022, punte del 540%; ad oggi si sono attestati intorno al 430%. Questi incrementi, se applicati agli oltre 50 milioni di chilometri percorsi da treni merci sulla rete ferroviaria nazionale italiana, previsti per l’intero 2022, possono essere quantificati in un extracosto di circa 100 milioni di euro nel 2022, rispetto all’anno precedente; una cifra che né le imprese ferroviarie né il mercato sono assolutamente in condizione di assorbire». Secondo De Ruvo, occorre puntare sull’intermodalità, incrementando il trasporto su ferro, per far uscire in fretta «le merci dai porti e farle arrivare negli interporti. La riforma della legge portuale del 2016 è stata attuata, per molti aspetti, solo parzialmente e manca una strategia nazionale per la portualità e, in generale, per il trasporto delle merci. In Italia abbiamo 26 interporti ed è essenziale collegarli in modo efficiente alle banchine.

Russia pronta a ridare gas all’Eur opa Kiev punta a summit di pace all’Onu

 



Vladimir Puti n si dichiara pronto ai negoziati, ma accusa l’Occidente di non voler scegliere la strada delle trattative. Il vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo M e dve d ev, intanto, avverte che l’«opera - zione speciale» verrà terminata e si guadagna una nuova nomina. «La Russia non risparmierà nessuno sforzo per abbattere il regime nazionalista di Kiev», ha affermato M e dve d ev. Puti n lo ha nominato suo vice nella Commissione militare-industriale - organo permanente che organizza e coordina le attività degli organismi esecutivi federali nell’attuazione della politica statale sulle questioni militari-industriali - e dunque potrà tenere riunioni per conto del presidente russo e avrà il diritto di «creare consigli e gruppi di lavoro nelle aree di attività della Commissione per esaminare questioni di sua competenza e preparare proposte per la loro soluzione». Kiev teme che questa sia la conferma di quanto l’Uc ra i n a teme per il futuro: i generali di Z el e n s ky credono che la Russia stia ammassando truppe e armi per una nuova offensiva invernale. Un attacco su vasta scala dal Donbass, da Sud o anche dalla Bielorussia potrebbe essere sferrato già a gennaio o al massimo in primavera, secondo gli ucraini. Puti n ha però nuovamente assicurato che la Russia è pronta a negoziare, accusando invece Kiev e i suoi alleati occidentali di «rifiutarsi» di fare altrettanto. Il ministro degli Esteri russo L av rov gli fa eco: «Zelen - s ky e i suoi padroni non vogliono compromessi che mettano fine alla guerra». Dall’a l tra parte, il ministro degli Esteri uc ra i n o, Dmytro Kuleba, ha riferito che l’Ucraina punta ad avere un summit di pace entro fine febbraio, preferibilmente alle Nazioni unite e con il segretario generale Antonio Gute r re s come possibile mediatore, più o meno nel periodo dell’anniversario dell’i n i z io della guerra da parte della Ru s s i a . Puti n ha poi parlato, in relazione alle azioni dell’Occiden - te, di «una guerra economica», basandosi anche sul fatto che gli ambasciatori all’Ue hanno raggiunto un accordo sul nono pacchetto di sanzioni contro Mosca. Nonostante questo, la Russia si dichiara pronta a riprendere le forniture di gas all’Europa attraverso il gasdotto Yamal-Europe, come annunciato dal vice primo ministro russo Alexander Nova k . «Il mercato europeo rimane rilevante, poiché la carenza di gas persiste e abbiamo tutte le opportunità per riprendere le forniture. Ad esempio, il gasdotto YamalEurope, che è stato fermato per motivi politici, rimane inutilizzato», ha detto Nova k , secondo il quale in 11 mesi del 2022 le forniture di gas naturale liquefatto sono aumentate a 19,4 miliardi di metri cubi, con una previsione di 21 miliardi entro fine anno. «Continuiamo a vedere l’Europa come un potenziale mercato dei nostri prodotti. È chiaro tuttavia che contro di noi è stata avviata una campagna su larga scala, che si è conclusa con il sabotaggio del Nord Stream», ha dichiarato ancora, aggiungendo che Mosca sta discutendo ulteriori forniture di gas attraverso la Turchia dopo la creazione di un hub nel Paese di E rd oga n . Il presidente turco, che gode sempre di più della fiducia di Mosca, ha asserito che anche secondo lui l’Occi - dente non fa altro che provocare e non cerca davvero una m e d i a z io n e. Poiché E rd oga n viene visto da Kiev come sempre più vicino a Mosca, il presidente ucraino Zele nsky cerca una sponda nell’India: in una conversazione telefonica con il premier indiano Nare ndra Modi, ha detto di «contare sulla partecipazione» del suo Paese «all’applicazione della formula di pace ucraina, annunciata al G20» di Bali. Vla - dimir Putin avrà invece un colloquio con Xi J i n pi n g e ntro la fine dell’anno: la strada è stata preparata dal fidato Me dve d ev, che aveva incontrato X i a Pechino la scorsa settimana. L’Ucraina ha invece chiesto l’esclusione della Russia dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. «Abbiamo una domanda molto semplice: la Russia ha il diritto di rimanere un membro permanente del Consiglio di sicurezza e di far parte dell’Onu? Abbiamo una risposta convincente e ragionata: no, non lo ha», ha affermato il mi - nistro degli Esteri Dmy tro Ku - l e ba . Sul campo si continua intanto a morire. L’Ucraina ha vissuto un Natale di sangue, nel quale bombardamenti e distruzione non si sono fermati, con la Russia che ha lanciato oltre 40 attacchi missilistici nel giorno di festa. L’al - larme aereo è risuonato in tutta la Nazione, a cominciare dalle regioni di Kiev e Leopoli. Proprio a Natale un caccia intercettore supersonico russo ha preso fuoco nell’ae roporto di Machulyshchy, in Bielorussia. Il MiG-31K può trasportare missili ipersonici Kinzhal. Il velivolo farebbe parte dei caccia schierati dalla Russia negli aeroporti dell’al - leato. Subito dopo si sarebbe alzato in volo un MiG-31K dell’aeronautica russa, che può trasportare missili Dagger equipaggiati con testate nucleari. Tre persone hanno invece perso la vita ieri in Russia a seguito dell’attacco di un drone ucraino nella regione di Sa ratov. Intanto nel Donbass, secondo quanto riferito dal capo d e l l’amministrazione militare regionale di Lugansk, Serg y G a id a i , battaglie sono in corso a Kreminna, con le truppe ucraine «non lontane» dalla città. «Il comando militare della Federazione Russa si è già trasferito da questa città a Rubizhny», ha aggiunto Gai - dai, sottolineando che è segno che la Russia potrebbe prepararsi a ritirarsi. Le autorità hanno esortato i residenti di Kherson, nel Sud, ad evacuare a causa dell’intensificarsi dei bombardamenti russi e Ukrenergo, operatore della rete elettrica ucraina, ha annunciato blackout d’emergenza in diverse regioni del Paese.

Caro Guerri, attenzione ad Harari È lui l’ideologo del Grande reset

 

Ho letto con piacere ed attenzione la bella intervista rilasciata a Maurizio Caverzan da Giordano Bruno Guerri. È un insieme di affermazioni di buon senso con cui non si può non essere d’accordo. Ma c’è un punto che mi ha stupito. Guerri si dice affascinato, tra gli autori moderni, dai libri di Yuval Noah Harari. Identifica Harari con autore letterario, mentre per me è molto di più. È l’auto re del copione che da tre anni va in onda nella vita reale ad opera del World Economic Forum. È il teorico del futuro che ci aspetta a breve. È un utopista con una differenza fondamentale rispetto a tutti gli altri utopisti della storia. Le loro fantasie erano ambientate in un «non luogo» (utopia) a testimonianza del fatto che il loro stesso autore le riteneva irrealizzabili. L’utopia di Ha - ra r i si chiama Grande Reset, ed è in corso di attuazione, a tappe forzate, a partire dalla famosa pandemia che K l au s S chwa b ha definito un’occa - sione irripetibile di cambiamento del mondo. K l au s S chwa b esprime questo concetto nel suo libro più famoso Covid-19 The Great reset, scritto a quattro mani con Thierry Mallaret. E descrive invece nel dettaglio la natura di questo cambiamento in u n’opera precedente (La quarta rivoluzione industrial e, con prefazione, nell’e d izione italiana, di John Elka n n) e successiva (Governa - re la quarta rivoluzione indust riale ) in cui si parla apertamente di fusione della natura umana con l’intelligenza artificiale emergente. Ciò sarebbe possibile con un’agenda dì digitalizzazione che i governi di tutto il mondo hanno recepito e fatto propria. Due temi, l’agenda digitale e l’a ge nd a verde, sono al centro del cambiamento epocale in atto sul pianeta. L’uomo deve cambiare la sua stessa natura diventando dipendente dall’agen - da digitale. Contestualmente deve ridimensionare i suoi consumi alimentari ed energetici per limitare un riscaldamento globale che le élite ritengono incontestabile, ma che molti esimi scienziati ritengono invece pretestuoso. Ma cosa c’entra Yuval Noah H arar i con Klaus Schwab? S chwa b non è abbastanza rassicurante. C’è in S chwa b, nel suo accento tedesco, nella sua postura rigida e quasi militare, qualcosa di inquietante. Ed ecco che, nel tempo, l’im - maginifico H a ra r i ha sempre più conquistato il centro della scena ed è diventata la voce ufficiale dei forum di Davos. D’altronde H a ra r i non è uno scrittore come gli altri. Il suo successo è il risultato della sua identificazione col sistema. I suoi libri sono best sellers assoluti ed hanno stampato milioni di copie in tutti i paesi del mondo. Il suo libro Sapiens. Breve storia dell’uma nità è stato tradotto in trenta lingue. Il successivo, Homo deus, ha avuto una visibilità ed un rilievo anche maggiore. Ma non si tratta di un caso: il sistema lo impone. H a ra r i ha tenuto lezioni obbligatorie in tutte le grandi aziende di Silicon Valley, con lo scopo di procedere alla formazione della nuova classe dirigente. I suoi libri sono la bibbia del mondo che sta per nascere. E non uso il termine a caso perché H a ra r i vuole sostituire il nuovo Homo deus agli dei del passato che erano, secondo lui, compreso G e sù C r i s to, fake news. Nel passato l’evoluzione si è svolta naturalmente. Oggi una élite di filantropi è in grado di prendere in mano il progetto evolutivo dell’uomo e del pianeta, per costruire forme di vita inorganica e ibrida. H a ra r i viene definito transumanista e questa visione del transumanesimo ha fatto sì che la parola transumanesimo significhi oramai qualcosa di a g g h i ac c i a nte. Qualche anno fa ero interessato al transumanesimo come prosecuzione e completamento ideale dell’umanesi - mo rinascimentale. L’umane - simo ha prodotto filosofia, sapere, bellezza. La frase che meglio definisce l’u m an e s imo è la famosa definizione di Pico della Mirandola che afferma che l’uomo può scegliere cosa diventare: degenerare nell’animalità o ascendere alla natura divina, con una semplice decisione della sua anima. È un appello a migliorarsi, crescere, elevarsi. Per Ha - ra r i e per le élite di cui è espressione, i due ruoli, animale e divino, devono separarsi e non saranno più oggetto della scelta di ciascuno di noi. Le élite saranno i nuovi dei, gli uomini normali saranno respinti nel regno animale e come animali saranno allevati e controllati per non alterare l’equilibrio del pianeta. Sopravviveranno a scopi utilitaristici per integrarsi nell’agenda digitale e nella vita inorganica. E dice queste cose apertamente, senza procurare nessuna relazione, ma solo ammirazione nei suoi ascoltatori, diretti interessati e vittime designate dai suoi progett i . Capisco il fascino che un autore come H a ra r i può suscitare, soprattutto per la presunta modernità di certe sue argomentazioni. Tuttavia bisogna vigilare sulle trappole e i falsi miraggi che il suo pensiero ci prospetta.

Un programma può manipolare ogni video

 

Il 20 gennaio del 2010 un gruppo di uomini dei servizi israeliani eliminò in un hotel di Dubai Mahmoud Al Mabhouh, figura di spicco di Hamas. Fu un duro colpo per i palestinesi, ma uno smacco anche per Gerusalemme. L’operazione non fu proprio «pulita», come si dice in gergo. Le telecamere dell’albergo tracciarono i volti delle forze speciali. Dubai chiamò l’Fbi, gli inglesi scoprirono che la squadra israeliana  in missione utilizzava passaporti di veri sudditi della Corona e cacciò da Londra un paio di diplomatici di Israele. Oggi questo pasticcio non sarebbe accaduto, grazie a un sistema di software prodotto da una start up, ovviamente israeliana, che prende il nome di Toka. Tra gli advisor c’è l’ex premier Ehud Barak e tra i fondatori addirittura il generale Yaron Rosen, per anni il capo della sezione cyber dell’esercito israeliano. Se Toka fosse esistito nel 2010 avrebbe potuto agilmente intervenire sul sistema di sorveglianza dell’edificio e sostituire a posteriori o addirittura in presa diretta i volti degli agenti con quelli di altre persone. E nessuno sarebbe risalito al Mossad, garantendo a Tel Aviv un successo su tutti i fronti. La manipolazione è possibile grazie a un sistema estremamente complesso che non si basa soltanto sul software di punta (quello svelato l’altro ieri dal quotidiano Ha re et z ), ma da un sistema di connessioni che permette di setacciare e intervenire su qualunque telecamera praticamente in tempo reale. O meglio, in tempo reale se il perimetro di ricerca è più o meno limitato a un città. Per setacciare le telecamere globali collegate alla Rete ci vogliono probabilmente minuti. Ma alla fine della ricerca sarà possibile scoprire dove un singolo individuo è stato immortalato per l’ultima volta. A novembre dello scorso anno il generale Rosen ha pubblicato un editoriale sul The Time of Israel s piega n d o, da ex pilota di elicotteri, che lo scenario e le necessità di difesa nei cieli sono cambiate molto più lentamente in decenni, di quanto sta accadendo negli ultimi mesi nel teatro di guerra cyber. Per questo Israele ha, da un lato, istituito un programma (Cyber4s) per convertire in sei mesi soldati di fanteria (e non solo) in cyber guerrieri e, dall’a l tro, ha spinto il più possibile su start up come Toka. E in passato su altre già finite sulle colonne dei quotidiani perché connesse a fatti di cronaca che con il terrorismo nulla avevano a che fare. Basti pensare a Pegasus, un software spia, prodotto da Nso, e scoperto negli smartphone di numerosi politici occidentali, giornalisti o attivisti di varie Ong. Il nome Pegasus è in qualche modo collegato al Qatargate perché la scorsa primavera Bruxelles ha istituito una commissione d’i n c h ie s ta per scoprire quali governi ne facessero uso e contro chi. Da lì il timore dei servizi d’intelligence marocchini di finire nell’inchiesta e le numerose sollecitazioni al gruppo di Antonio Panzeri con l’obiettivo di mitigare le ricerche. Ma Pegasus è solo uno dei tanti software svelati. Se torniamo indietro, scopriamo che anche gli italiani di Hacking team si sono trovati coinvolti in un fatto di cronaca. Dietro all’omicidio del saudita Jamal Khashoggi s a rebb e stato testato un software in grado di bucare praticamente tutti i d e vic e. Vale la pena sottolineare che ogni volta che la stampa svela (o riceve una velina relativamente a) un software, è già pronto a entrare in commercio il modello successivo. Immaginiamo che potrà avvenire la stessa cosa anche con Toka. Il che porta a chiedersi che cosa mai sarà in grado di fare la versione agg io r n ata . Sul suo sito ufficiale Toka ancora oggi spiega che i prodotti vengono offerti soltanto alle forze armate, alle organizzazioni per la sicurezza nazionale, all’intelligence e alle forze dell’ordine «degli Stati Uniti e dei suoi più stretti alleati». Per il giornale israeliano i clienti sono almeno Israele, Usa, Germania, Australia, Singapore. «Ma sulla mappa fornita dal pagina web della start up compare anche l’Italia, senza però fornire dettagli ulteriori», si legge sempre nell’articolo. Nell’elenco seguono Spagna, Portogallo, Francia, Regno Unito, Grecia, Canada. Anche solo fermandoci alla versione attuale, è facile immaginare la rete di informazioni che può essere raccolta su ciascun cittadino. Pegasus, per esempio, era in grado di bucare tutti i telefoni eccetto il vecchio Nokia 6610. Per il semplice fatto che si tratta di un apparecchio così poco diffuso che gli sviluppatori non hanno voluto dedicare tempo a metterlo nel mirino. Se poi aggiungiamo il numero presunto di telecamere installate nel mondo, si comprende quanto il cappio attorno alla nostra privacy sia stretto. Aithority sti - ma che in Cina siano funzionanti 200 milioni di apparecchi di video sorveglianza. Gli Stati Uniti ne avrebbero 50 milioni e la Germania più di 5. Tante quante ne registra la Gran Bretagna o il Giappone. La piccola Olanda ha ben 1 milione di apparecchi attivi su un totale di 17 milioni di abitanti. Per rimanere nell’Ue , Germania e Olanda sono i Paesi più controllati. Contano infatti rispettivamente 6,2 e 5,8 telecamere ogni 100 pers o n e. In Italia, secondo statistiche non confermate, il rapporto dovrebbe essere 3 ogni 100 abitanti. Numeri impressionanti che inducono a riflettere sulle possibili conseguenze. Chi sviluppa i software e usa l’intelligenza artificiale per spalmarne l’effica - cia su milioni di obiettivi tiene sempre a precisare che «gli standard etici vengono rispettati». Il tema è però: chi li scrive o chi li aggiorna?

Approfittare dello scandalo Qatar per cambiare l’ecopolitica dell’Ue

 

Sta montando nel settore dell’auto la protesta contro il calendario degli ecodivieti imposti dall’Ue: il capo di Toyota il più esplicito, seguito da Stellantis e da quasi tutti i produttori europei. Il tema riguarda i costi dei materiali per le batterie, la disponibilità delle torri di ricarica, il ritmo delle vendite dei mezzi «Bev» (Battery electric vehicle, le auto interamente elettriche), eccetera. Bersaglio è il tempo troppo rapido (2035) per l’abbandono forzato dei motori endotermici e conseguente riduzione degli addetti. Chi scrive aggiunge che se nel 2035 tutte le autovetture dovessero andare a batteria non ci sarebbe in Europa elettricità sufficiente generata da fonti pulite. A meno che in quel periodo siano disponibili decine di centrali nucleari a fissione, e relativi depositi di scorie: improbabile in termini di calendario una, eventualmente fattibile nel 2050/60 - pur ottima la nuova tecnologia di mini-centrali supersicure e con poche scorie. Soluzione? Togliere il divieto del 2035 per i motori endotermici ed incentivare un mix di opzioni comunque meno carbonizzanti: auto ibride, mezzi elettrici alimentati da cellule a combustibile (fuel cell) a loro volta alimentate da idrogeno verde, motori endotermici spinti da carburanti sintetici o da biogas, comunque auto a batteria di piccola taglia per percorsi urbani se proprio qualcuno vuole praticare questa tecnologia che non appare molto efficiente, ecc. Per inciso, già i produttori di grandi mezzi (i Tir) o di scala media (furgoni) si stanno orientando verso motorizzazioni elettriche a idrogeno, via fuel cell, che promettono percorrenze tra i 1.000 e 1.500 Km senza ricarica, probabilmente di più. In sintesi, si può ottenere l’obiett i - vo di de-carbonizzazione (al cui riguardo chi scrive attende un confronto tra scienziati che lo ritengono una priorità unica e altri che rilevano cause diverse per il riscaldamento globale) senza divieti e con incentivi ad un’a m pi a varietà di fonti energetiche e motrici per renderle meno contaminanti: cioè un mix di opzioni dove si lascia libero di evolvere l’insieme migliore di esse, rispettando il criterio di evitare un conflitto tra ambiente e sviluppo. Va detto a merito dell’Ue che da tempo finanzia progetti precompetitivi in materia di idrogeno verde, questa tecnologia pronta ad andare sul mercato con diverse applicazioni, su cui chi scrive scommette al punto da dire che nel 2023 inizierà l’età dell’idrogeno (verde). Ma sul piano generale del calendario dei divieti decarbonizzanti, l’ecopolitica dell’Ue appare un fanatismo irrazionale che crea un conflitto tra ambiente ed economia. Chi scrive è particolarmente preoccupato dall’id ea di applicare a partire, sembra, dal 2027 un dazio alle importazioni da nazioni che non rispettano gli ecostandard europei. La motivazione è quella di disincentivare la migrazione delle aziende europee in giurisdizioni meno ecostringenti. Ma i cervelloni che hanno elaborato questa idea si sono resi conto che l’Ue è un piccolo mercato di meno di 500 milioni di persone a fronte di giurisdizioni gigantesche, tipo Cina e India, o che lo stanno per diventare, per esempio Nigeria, Indonesia, ecc.? Si sono resi conto che se si mette un dazio poi c’è una ritorsione? L’Ue ha nazioni che vivono di export, tra cui l’Ita - lia, e tale approccio dazista non appare molto furbo. In sintesi, le economie emergenti del pianeta hanno già dichiarato che inizieranno a decarbonizzare seriamente, forse, attorno al 2060-70 per non compromettere il loro sviluppo. L’America sta facendo una svolta decarbonizzante, ma questa sarà molto lenta perché certamente non rinuncerà all’indipendenza energetica data dalla grande disponibilità di energia fossile. L’Ue produce solo una piccola parte delle emissioni globali, ma vuole essere la prima a ridurle mettendo a rischio il proprio sviluppo: appare surreale. Il giornalismo investigativo dovrebbe indagare sui veri motivi che hanno portato l’industria dell’auto tedesca ad abbandonare il diesel a favore della trazione a batterie: risposta, ora in via di ripensamento, alla guerra condotta contro la Germania dall’America nel passato? Pressione tedesca su quel colabrodo di influenze lobbystiche che è l’Ue per imporre l’auto elettrica in tempi remunerativi per i nuovi megainvestimenti? O pressione francese per monetizzare il suo sistema di centrali nucleari? O altro, per esempio l’i n d iv idu a z io - ne dell’ambientalismo come possibilità di dichiararsi «potenza etica» ed alzare protezionismi, nonché vantaggi morali, sui competitori? O si tratta solo di concessioni al partito verde? Andrà c h i a r i to. Ma andrà anche chiarita tutta la questione ambientale, generando obiettivi fattibili ed efficaci e non miti. Di fronte al cambiamento climatico deve prevalere l’ecoadattamento, cioè la creazione di una tecnologia sistemica con migliaia di applicazioni che permettono ai sistemi umani di operare con qualsiasi variazione ambientale, e non il mito di fermare un mutamento planetario: l’Ue dovrebbe puntare al primato mondiale dell’ecoadattamento tecnologico e non a quello degli ecodivieti. Quando mettere al centro del dibattito politico questo tema? Già in vista delle elezioni del Parlamento europeo - con attenzione a ridurre la sua permeabilità a qualsiasi interesse particolare spinto da corruzione - nel 2024 con la speranza di poter modificare l’e c o p o l i t ic a europea in direzione realistica nel 2026, data già prevista per una sua eventuale revisione. I partiti avranno paura di perdere consenso perché questo favorisce il mito? Si confrontino sulla stampa gli argomenti pro e contro, si abbia fiducia nel buon senso della gente.

lunedì 28 novembre 2022

L’ARSENALE DEI VACCINI MRNA ECCO QUAL È IL VERO OBIETTIVO

 

Dobbiamo «rassegnarci all’Mrna», come si è lasciato scappare il professor Bassetti. I nuovi vaccini sono infatti le «armi» di un «arsenale» che punta a rivoluzionare il modo in cui il mondo affronterà i problemi della salute. Come stabilito al G20. È strano immaginare un sistema sanitario pubblico concentrato sulla vaccinazione di tutti i sani, anziché sulla cura dei soli malati. Il futuro, però, è questo, ed è ormai delineato con chiarezza. Qualcuno, come Matteo Bassetti, lo ha già anticipato dichiarando che dobbiamo «rassegnarci a un futuro a mRna». Un lapsus freudiano, perché di solito non ci si «rassegna» alle buone notizie, quando sono tali. Il documento ufficiale che decreta il cambio di paradigma, epocale, è il testo conclusivo del G20 dei ministri della Salute (per l’Italia, Orazio Schill ac i ), pubblicato lo scorso 28 ottob re. Per i Grandi del mondo, le tre questioni prioritarie per la salute sono: «Costruire la resilienza (ancora!, ndr) del sistema sanitario globale, armonizzare i protocolli sanitari mondiali, espandere gli hub globali di produzione e ricerca», con particolare attenzione a quelli che lavorano sulla tecnologia mRna (come la Fondazione mRna di Padova, che ha ricevuto 320 milioni del Pnrr coinvolgendo ben 36 «spoke» nella mangiatoia). L’obiettivo è «facilitare un migliore accesso ai servizi». Più ospedali? Più medicina territoriale? Più medici? Macché: il G20 identifica questi servizi con «vaccini, terapie ( le g g i farmaci, ndr) e diagnostica» (Vtd) a livello globale, ossia profilassi preventive per evitare che ci si ammali, nell’ambito dell’approccio One Health di cui ha parlato anche il presidente Giorgia Meloni a Bali. Un arsenale a mRna realizzato innanzitutto per combattere le prime dieci minacce alla salute globale individuate dall’Oms (Ebola, Sars, Mers, lo stesso Covid che ha una mortalità dello 0,02% o la «malattia X», che ancora non si sa cosa sia, ma per prudenza è in lista). Nel mondo occidentale, però, si continua a morire di infarto, ischemia, cancro, diabete, malattie respiratorie. Ed è questo il punto d’approdo delle terapie a mRna: terapie e vaccinazioni non per le malattie del terzo mondo ma per quelle del primo. Le malattie non trasmissibili, insomma: tumori, diabete, glaucoma, le cosiddette «malattie dei ricchi» e dei servizi sanitari «ricchi». Mesi fa, il direttore di Oms Europa, Hans Kluge, aveva spiegato che siamo chiamati a combattere una «permacrisi» globale. La popolazione mondiale aumenta (abbiamo da poco superato gli 8 miliardi), curare tutti non è più sostenibile e le tecnologie terapeutiche a mRna - nella mente dei cervelloni della salute globale - rappresentano la soluzione. È su queste che si stanno concentrando i maggiori investimenti, miliardi di euro destinati non a migliorare strutture ospedaliere, costruire più ospedali o formare nuovi medici, ma a far produrre, per ogni malattia, vaccini e terapie ad hoc da aziende e organismi privati. Quelli coinvolti dai Grandi del mondo sono i soliti, riconducibili a una sola persona, quel Bill Gate s benedetto dal World economic forum: Global fund (cui l’Italia ha versato finora più di un miliardo e mezzo di dollari), Gavi Alliance, Cepi, Unitaid, eccetera, ai quali il G20, che rappresenta le istituzioni, riconosce ufficialmente il ruolo di «partner». È rivolto a loro, e alle «filantropie» (citofonare S o ro s ), l’ap - pello a «sostenere investimenti, organizzazioni e iniziative sanitarie». Un vaccino per evitare il cancro, un vaccino per evitare il diabete, e via dicendo, da somministrare a tutti, dai neonati ai centenari. Sembra un futuro lontano, ma è già il nostro presente. Lo step successivo, sperimentato per la prima volta con il Covid, è il passaggio all’obbligatorietà di queste profilassi vaccinali e terapeutiche con la giustificazione che «non si possono intasare gli ospedali». Qui, rientrano in scena le istituzioni, con il meccanismo gradualmente avviato in pandemia. In teoria, tutta l’impalcatura del green pass non serve più; in realtà continua a esistere. In teoria, soltanto i medici e soltanto in pochissimi Paesi (tra i quali, neanche a dirlo, l’Ita - lia) sono stati forzati a vaccinarsi; in realtà nel documento del G20 la certificazione verde anti Covid deve essere implementata su scala globale, dato che i ministri «si adoperano per procedere verso meccanismi che convalidino la prova della vaccinazione». In teoria, l’obbligatorietà è durata pochi mesi e ha riguardato soltanto un vaccino, l’anti Covid; in realtà sarà estendibile ad altri vaccini perché «bisogna capitalizzare il successo degli standard esistenti e del green pass per rafforzare la prevenzione e la risposta alle future pandem ie » . Non è un caso che la federazione nazionale degli Ordini dei medici (Fnomceo) abbia modificato le regole deontologiche della professione, annunciando che saranno introdotti articoli relativi ai vaccini e alle vaccinazioni: i medici non potranno sconsigliarne l’utilizzo. L’a rc h et i p o, insomma, abbiamo imparato a conoscerlo: perennizzazione della crisi sanitaria attraverso il paradigma ideologico della «permacrisi», commissionamento del prodotto salvifico (vaccini e terapie mRna) a privati che ne assicurano produzione e gestione - e fin qui niente di nuovo - ma poi anche deresponsabilizzazione dello Stato a discapito del cittadino, perché le tasse (già molto alte nell’Ue) non bastano più. Ciliegina sulla torta: i nuovi farmaci saranno realizzati nei Paesi poveri del mondo: una mancia non si rifiuta a nessuno e la propaganda buonista vuole sempre la sua parte.

mercoledì 23 novembre 2022

Criptovalute nel caos Genesis può fallire Dopo il no di Binance al salvataggio

 

E adesso la tempesta che si è scatenata nel mondo delle criptovalute può davvero diventare uno tsunami. Cz ha infatti detto no: la società di prestiti in criptovalute G e ne s i s  global trading, in drammatica ricerca di liquidità, si era rivolta a B i n a n c e, ma la più grande borsa di criptovalute fondata e guidata da Changpeng Zhao, detto appunto Cz, ha risposto picche a causa di un potenziale conflitto di interessi. Da notare che Cz si era offerto di dare una mano a Ftx , ma dopo aver guardato i conti della società si era tirato indietro, aprendo così la strada al fallimento della borsa cripto di Sam Bankman-Fried. Secondo il Wall Street Journal, Genesis ha bisogno di un miliardo di dollari, ha chiesto aiuto anche ad Apollo Global Managem e nt e la risposta è stata la stessa di Cz: «No». Sembra quindi che il destino di Genesis sia segnato. D’altronde dal 16 novembre Genesis ha bloccato i prelievi e l’erogazione di p re s t i t i . «Non abbiamo in programma di dichiarare bancarotta a breve. Il nostro obiettivo è quello di risolvere consensualmente la situazione attuale senza la necessità di alcuna dichiara zione di fallimento. Genesis

continua ad avere conversazioni costruttive con i creditori», ha detto un portavoce di

Genesis.

Il classico esempio di dichiarazione che vorrebbe rassicurare e invece provoca l’e f fetto

contrario. La società si era già

inguaiata all’inizio dell’a n n o,

quando aveva prestato 2,4 miliardi di dollari a Three Arrows capital, finita in bancarotta poco tempo dopo.

EPICENTRO DEL BITCOIN

La società madre di Genesis è

Digital currency group (Dcg),

che sul suo sito si definisce

«l’epicentro del bitcoin e dell’industria della blockchain».

E non esagera. Nel portafoglio

di partecipazioni del gruppo

fondato nel 2015 da Barry Silber t si contano 165 società e si può trovare il gotha del mondo cripto (non ci sono comunque Binance e Tether): da Coinba - s e, che fino al fulmineo avvento di Ftx era la più grande borsa critpo negli Stati Uniti oltre a essere stata la prima a quotarsi al Nasdaq, a eToro per arrivare a C h a i n a lys i s , la società di analisi più reputata del settore. Per non parlare di Ftx. Il Wall Street Journal s o s t ie n e che Genesis ha erogato prestiti ad Alameda, società affiliata a Ftx che dava in garanzia Ftt, i token della borsa cripto di Bankman-Fried. Token che ora valgono zero. Ora in caso di fallimento di Genesis quali sarebbero le ripercussioni su Dcg, l’epicentro del bitcoin e dell’industria blockchain?

Una nuova crisi

 



La crisi delle criptovalute può trasformarsi facilmente in una nuova crisi di sistema dei mercati finanziari, e l’eventualità non deve essere sottovalutata dopo il fallimento di Ftx. Per evitare un bis del 2008 e del caso Lehman Brothers servirebbe un intervento rapido delle banche centrali per rassicurare i risparmiatori. L’appello è venuto dal presidente della Consob, Paolo Savona, durante la presentazione di un libro sull’ex governatore della Banca di Italia, Antonio Fazio. «Se importanti società decidono di non rimborsare», ha spiegato Savona, «quote di fondi comuni, questi a differenza delle banche non hanno un fondo di garanzia o una banca centrale in grado di intervenire. È’ una lacuna che va colmata». Anche perché- ha continuato il presidente della Consob- «Non rimborsare quote di fondi significa che la crisi c’è già. Quanto dobbiamo aspettare perché esplodano 10 o 15 grandi casi che la rendano sistemica?».Se dobbiamo parlare di competitività del sistema Italia devo dire cose su cui sarò facilmente frainteso. Negli ultimi sette anni la bilancia dei pagamenti italiana è stata strutturalmente in attivo, una condizione che io e Antonio Fazio ab - biamo sempre sognato e non abbiamo mai ottenuto. Quindi sulla competitività il giudizio non può essere negativo e tranchant. Certo, la Cina è cresciuta fortemente e la quota italiana nel commercio mondiale si è ridotta come peso di circa il 50 per cento. Il resto del mondo è cresciuto, ma noi non siamo andati indietro. Però, attenzione: le cose nel Paese non vanno così mal e. E allora perché non si fanno gli investimenti? Perché non c'è sufficiente fiducia per mobilitare l’i m p re n d itoria privata, mentre ci sono enormi pressioni per mobilitare l’i m p re n d i to r i a pubblica. Il problema quindi è la fiducia: non riusciamo a ricostruire una fiducia che utilizzi questi vantaggi rappresentati dalle esportazioni, che sono le nostre pietre miliari della crescita. L’altro punto è il volume del risparmio. Fra il 2021 e il 2022 - mi tocca pure fare l'apologia del governo che non c'è più - si era creata questa ondata di fiducia, che a seguito della cessazione dei vincoli derivanti dai lockdown, aveva addirittura determinato una crescita troppo forte in tutte le parti del mondo, che ha sostenuto l’i n f l a z ione attingendo all’enorme liquidità che c’era in circolazione, quella che gli economisti oggi stanno riesaminando a fondo. IN UNA SITUAZIONE DI VANTAGGIO Su questi due elementi si era diffuso un tale desiderio di ripresa che ci siamo trovati rispetto al resto dell’Europa in una situazione di vantaggio che addirittura ha consentito al governo che è andato via di dire: «Vi lasciamo una situazione in cui noi siamo leggermente meglio del resto dell’Eu ropa». E dal punto di vista statistico va benissimo. Però alla fine nel momento in cui si affermavano queste cose sono arrivati due nuovi problemi esterni al Paese. Uno è l’inflazione, l’altro è la necessità di riprendere in mano i problemi del debito pubblico. Questa condizione dell’i nflazione non può essere affrontata con gli strumenti classici - attraverso una stretta monetaria o il ritorno a una stretta fiscale – perché dobbiamo cercare una misura precisa che ancora non è stata trovata, che sia a metà strada fra la dose di restrizione monetaria e la dose di misure minime possibili di - chiamiamole - “cautele fiscali”. Se sbagliamo questa dose, inevitabilmente i problemi si trascineranno. L'inflazione peraltro ha eroso oggi il potere di acquisto dei salari, ma anche quello dei 5 mila miliardi di risparmi mobiliari che abbiamo a disposizion e. Come ristabiliamo la fiducia? Partiamo dai fatti. Primo: l’imprenditoria italiana ha mostrato le sue capacità nel mantenere quella competitività testimoniata dal surplus della bilancia dei pagamenti. Secondo fatto: l’Italia è uno dei tre paesi sui 27 d’Europa che ha un avanzo di partita corrente. Questo significa che noi viviamo al di sotto delle nostre risorse. Il resto del mondo pensa invece che noi viviamo al di sopra delle nostre risorse e non è vero. Questo vuole dire che noi ci rappresentiamo all'estero molto, molto male. Usando gli strumenti di comunicazione e gli strumenti politici questo cambio di immagine dell’Italia è un passaggio importante. Gli economisti possono fare la loro parte fornendo le statistiche che dimostrano che l’Italia ha una bilancia dei pagamenti strutturalmente attiva. Abbiamo anche un enorme risparmio, ma purtroppo larga parte affluisce all’estero: significa che non riesce a saldarsi con la volontà di crescita dell’Ita l i a , e questo è il primo dei problemi che deve affrontare e risolvere la politica. QUANDO IL NULLA GARANTISCE L’INCERTO C’è qualche altra cosa che sta avvenendo ora. Abbiamo ignorato gli sviluppi degli strumenti virtuali come le c r i pto cu r re n cy che sono utilizzate per fare da collaterale dei derivati (quindi il nulla che garantisce l’i n c e rto, visto che le formule per la valutazione del valore di mercato dei derivati non esistono), e oggi abbiamo una situazione instabile. Siamo in una situazione classica che ci aveva insegnato il nostro maestro Guido Carli spiegando che i ritardi nelle decisioni costano più di decisioni anche sbagliate, ma prese imm e d i ata m e nte. Oggi le banche centrali, nonostante si trovino in una situazione di restrizione monetaria relativa per combattere l’in f la zio ne, qualora arrivasse la crisi derivante dall’i n qu i n a m e nto dei criptoderivati attraverso i loro fallimenti (l’u ltimo dei quali è Ftx ), devono dire che interverranno per dare la liquidità alle imprese ovviamente non truffaldine. Già l’a n nu n c io che le banche centrali non si tireranno indietro di fronte a una situazione di crisi sistemica consentirebbe di risparmiare tantissime risorse rispetto ai costi sopportati davanti alla crisi del 2008 perché si scelse di procrastinare in ogni modo la decisione, facendo poi fallire Lehman Brothers e salvando tutto il resto impegnando cifre pazzesche. Sarebbe costato molto meno intervenire subito annunciando che sarebbe stato rimborsato il risparmio che certo incautamente si era infilato in quelle situazioni tutto sommato con il consenso delle autorità. Anche adesso si è dato il messaggio fino a poco tempo fa che il problema era modesto e che quindi non era il caso di intervenire. Ma se importanti società decidono di non rimborsare le quote di fondi comuni... beh, i fondi comuni a differenza delle banche non hanno la liquidità necessaria a compensare e non hanno un fondo di garanzia o una banca centrale in grado di intervenire. Questa è una lacuna istituzionale molto grave che va colmata e va colmata subito dicendo «lo faremo». Questo è urgente per le banche c e ntra l i . BISOGNA DIRE «LO FAREMO» L’inflazione? Uno dei miei maestri keynesiani che ci veniva a trovare spesso in Banca di Italia, Karl Brunn e r, ci diceva che «il problema dell’inflazione è non averla. Se incappi nell’i n f l azione, stai attento a come ne esci». Credo non ci sia definizione migliore sul momento che noi stiamo v ive n d o. Bisogna fin da adesso organizzarci e presentare dei programmi di intervento che impediscano che l’esplosione della crisi già in essere. La crisi c’è, perché non rimborsare quote di fondi significa che la crisi c’è già. Quanto dobbiamo aspettare perché esplodano dieci o quindici grandi casi in grado di fare diventare sistemica la crisi? È un fatto molto, molto serio che bisogna affrontare subito. *testo dell’intervento alla presentazione del libro di Ivo Tarolli “Antonio Fazio e i fatti italiani”.

Pure sotto le coperte siamo in recessione Coccole e narcisismo hanno ucciso l’EROS

 

Dopo un’epoca di esibita, consumata (apparente?) libertà sessuale, oggi di esibirci sotto le coperte non ne abbiamo più né la voglia né il coraggio e neppure la fantasia. Un calo del desiderio che si diffonde anche tra i giovani. I motivi? Noia, vite di fretta, lavoro sopra tutto… E rapporti dove alla passione si preferisce il rifugio di una tiepida tenerezza. Nel prossimo numero di Pa - n o ra m a in edicola, un’inchiesta sulla crisi di Eros, che qui a nt i c i p i a m o.

«Per un’ora d’amore non so cosa darei» cantavano i Matia Bazar nel 1975. Un bel niente, risponderemmo oggi. Neanche alla peggiore serie tv ci sentiremmo di rinunciare per un’ora d’amore. Chi più ne ha la forza, la voglia e il coraggio? Non lo si dice, ma ormai si pensa. Il grande psicoanalista Luigi Zoja ha descritto il calo della sessualità nel suo ultimo saggio, Il declino del d esid e rio (Einaudi). «Il problema è immenso, le discussioni che lo riguardano invece sembrano squittii di topo», osserva dal suo studio milanese. Ai primi del Novecento di sesso se ne parlava molto, negli anni Settanta non si faceva altro che parlarne (e farlo). Era una macchina che metteva in moto settori della cultura e dell’e c o n omia. Oggi non mette in moto nulla. Continua Z o ja: «È una tendenza che si è manifestata con l’inizio degli anni Duemila. Le uniche ricerche complete sono le tre inglesi Natsal, la quarta è in via di realizzazione. […] Dai Natsal, che indagano 60 anni di vita sessuale britannica, emerge come tra i giovani ci sia un ritorno alla monogamia, una richiesta di esclusività del partner. Con tutte le insicurezze che i giovanissimi si trovano ad affrontare, non vogliono anche quella sentimentale. E al tempo stesso dicono che non sono più così interessati alla sessu a l i tà » . Secondo l’ultimo rapporto Censis-Bayer sui nuovi comportamenti sessuali degli italiani tra 18 e 40 anni, 700.000 non hanno una vita erotica, 1,6 milioni non hanno mai avuto rapporti, mentre l’astinenza è capitata almeno una volta a 13 milioni, con una durata media di sei mesi. Le coppie bianche con relazioni stabili ma «no sex» sono circa 220.000. […] Intanto in America si parla già di sex re c essio n : «In un futuro visibile non si torna indietro. Siamo arrivati a quello che Max Weber chiamava il “d i s i n c a nto del mondo”. Si è perso il senso di appartenenza, la religione, la credenza. Quello in cui viviamo è lo stadio finale del “d i s i n c a nta m e nto”, un’imme rsione in un mondo senza trascendenza, di completa solitudine. La riduzione della sessualità a un atto unicamente biologico, di idraulica del corpo, è tremendo, ma è molto difficile si recuperi quello che si chiamava “fare l’a m o re” o meglio l’Eros». P l ato n e nella Re p ubb l ic a scriveva: «Dalla somma libertà viene la schiavitù maggiore e più feroce». […] L’uomo è sicuramente quello che sta attraversando la crisi peggiore, non ha capito quanto la donna sia cambiata, resta ancorato a un passato glorioso, dove era quello che non doveva chiedere mai. Ne è convinto anche Fabrizio Quattrini, sessuologo clinico, docente all’Università dell’Aquila, il cui ultimo libro Il piacere maschile (G i u nt i ) fotografa la débâcle: «Ho notato più che un calo, una modalità diversa di vivere l’intimità». Signora mia, il piacere dannunziano è una chimera. Siamo all’a st inenza, alla quaresima perenne. «Seguo tante coppie in difficoltà che da tre, quattro anni non fanno più sesso», racconta lo psicoterapeuta, che tuttavia vede in questo declino solo la punta dell’iceberg. «C’è un egoismo che porta alla perdita della libido. Siamo immersi nella fretta e si fa fatica a formare una coppia. Vedo situazioni atipiche e nascoste: dal marito che va a trans all’a m a nte donna per la moglie. Il mondo non sta rinunciando al sesso, sta solo cambi a n d o » . […] Intanto il sesso riproduttivo non sente l’e m e rgenza del momento: lo dicono le statistiche, riportate dall’analisi del saggio La trappola delle culle ( Rubbettino) di Luca C i fo n i e Diodato Pirone. Nel 2021 i figli sono stati 1,25 a testa, meno della metà del 1964, che è considerato una specie di paradiso perduto della natalità, un Eldorado che sarà impossibile riconquistare. Così mentre da noi sono venuti al mondo solo 399.000 bambini (per la prima volta nella nostra storia), in Francia ci hanno doppiato con 742.000 nascite. La ginecologa A l e ssandra Kustermann, prima donna primario della clinica Mangiagalli di Milano, conferma tutto: «È vero che c’è un calo del desiderio e sono diminuite le nascite, non solo in Italia, ma nel mondo occidentale. L’i p otesi che si sia ridotta la sessualità, il desiderio e quindi la natalità potrebbe essere interessante. Io lo penso da anni. Una delle domande che faccio alle donne che vengono in visita è quante volte la settimana hanno rapporti sessuali. Q u a ra nt’anni fa mi rispondevano: tre, quattro volte. Oggi al massimo due. Un dato importante da rilevare è anche un calo della fertilità, dovuto all’aumento dell’età della donna alla prima gravidanza. Le giustificazioni sono: siamo stanche, lavoriamo, ci sono i bambini, la casa. Ma la sessualità è una parte importante della relazione con il partner e il calo di frequenza dei rapporti è significativa, secondo me, della difficoltà della coppia. Dell’ac co ntentar si di un rapporto fatto di affetto, magari di carezze, ma che non corrisponde all’immaginario della relazione uomo-donna. Oggi forse decidere di diventare una famiglia è più difficile: non è una necessità». L’aveva previsto Herber t Marcuse nel suo Eros e Civiltà: l’inevitabile «desessualizzazione» nella società capitalistica. Per scendere dalle vette della Scuola di Francoforte alla nostra misera realtà: qui non si batte più un chiodo. 

Tra i giovani boom di miocarditi dopo il vaccino

 

Uno studio canadese registra casi di miocarditi quasi 150 volte maggiori del previsto dopo il vaccino. Tassi più alti tra gli under 30. Leggete questo numero ad alta voce. Scandite bene ogni cifra: 148,32. È il rapporto tra le miocarditi diagnosticate e le miocarditi attese nei ragazzi della Columbia britannica, di età compresa tra 18 e 29 anni, fino a marzo 2022, dopo la seconda dose del vaccino Moderna. Sapete cosa significa? Che le infiammazioni al cuore sono state quasi 150 volte di più di quanto era stato previsto, in base alle precedenti statistiche sulla malattia. È una delle scoperte contenute in uno studio appena pubblicato dal Canadian medical association journal, rivista scientifica canadese. Gli autori hanno monitorato i 4 milioni e mezzo di inoculati della provincia più occidentale del Paese, misurando i tassi degli effetti collaterali cardiaci a sette e a 21 giorni dalla prima, dalla seconda e dalla terza dose. Complessivamente, si sono verificate 99 miocarditi per 100.000 sh o t a una settimana dalle punture, contro le 6,7 preventivate: 14,81 volte di più. Prendendo come riferimento il periodo più lungo, il dato arrivava a 141 miocarditi effettive contro le 20,1 pronosticate (7,03 volte di più). I tassi di miocarditi erano maggiori tra i ragazzi delle classi 12-17 anni e 18-29 anni, specie se di sesso maschile. Nella prima fascia, le reazioni registrate sono state oltre 25 volte di più di quelle preventivate; nella seconda, 9,87 volte di più; tra 30-39, 6,17 volte di più. Inoltre, come dicevamo sopra, è stato comprovato che il rischio massimo è rappresentato dalla seconda dose di Moderna: dai 18 ai 29 anni, entro sette giorni dalla somministrazione, il tasso di miocarditi schizzava a 22,05 per 100.000 inoculazioni (contro il 5,06 di PfizerBiontech); dai 30 ai 39, si attestava a 6,99 (contro lo 0,46 di Pfizer-Biontech). Evidenze simili per la finestra di rischio di 21 giorni: tra 18 e 29 anni, tasso di 22,97 miocarditi per 100.000 dosi dopo il secondo sho t di Spikevax, contro il 5,84 di Comirnaty; tra 30 e 39, 6,99 contro 1,38. È un particolare rilevante anche per l’Italia: fino a primavera - dunque, fintantoché si vaccinava in massa la popolazione giovane - una buona quota di punture si faceva con il siero di Moderna. Il calcolo del rapporto tra i danni cardiaci diagnosticati e quelli attesi, poi, ha portato in luce un altro dettaglio preoccupante: per gli adolescenti, il pericolo di miocarditi rispetto ai precedenti storici sembrava aumentare con il primo booster. Dopo la seconda dose di Pfizer, stando alle informazioni raccolte in Canada, il differenziale toccava quota 134,29. Dopo la terza, saliva a 139,80. In soldoni: in età puberale, si verificavano quasi 135 volte più reazioni avverse al cuore di quelle che era ragionevole aspettarsi, entro sette giorni dalla seconda dose; e quasi 140 volte di più dopo il primo richiamo. Pure nei più grandi è accaduto qualcosa di simile: nei trentenni, a fronte di un rapporto tra miocarditi registrate e miocarditi attese di 3,35 dopo la seconda dose Pfizer, se ne osservava uno di 11,84 dopo la terza; negli over 40, si passava da 8,05 a 25,51. Stessa dinamica, allargando la finestra di rischio da una settimana a 21 giorni. Ricapitolando: in termini di incidenza, le miocarditi tendevano a verificarsi soprattutto in seguito al ciclo primario, tranne che tra gli adolescenti vaccinati con Pfizer, a 21 giorni dal richiamo (il tasso di miocarditi, in effetti, saliva da 6,73 a 9,75 con la terza dose). Il rapporto tra casi osservati e casi attesi, invece, era quasi sempre più elevato con il booster. Tuttavia, gli scienziati che hanno vergato la ricerca canadese hanno trovato una specie di gabola, per salvare l’ortodossia vaccinale. Visto che l’incidenza delle miocarditi cala tra gli anziani, i quali, al contempo, sono più esposti alle conseguenze gravi nel Covid, includerli nelle stime sposta l’asticella verso l’eterna giostra delle inoculazioni. E siccome ci sono più effetti avversi dopo la seconda dose che dopo la terza, gli studiosi sostengono che pure inseguire i ragazzi con la siringa debba rimanere «la strategia preferenziale». Il punto è che, per dimostrare il vantaggio degli antidoti, essi citano un report americano risalente all’e s ta - te del 2021. Ovvero, a prima che comparisse la meno patogena variante sudafricana. Lo scorso febbraio, un paper pubblicato dall’Euro p ea n journal of clinical investigatio n , giungeva già a conclusioni molto diverse: «Nei ragazzi tra 12 e 17 anni, la vaccinazione con due dosi era uniformemente vantaggiosa solo in ragazze non immuni al Covid con comorbidità. Nei ragazzi con una pregressa infezione e n e s su n’altra patologia, persino una sola dose comportava più rischi che benefici». Ora, in pieno scenario Omicron, la bilancia pende ancor di più a favore di una moratoria sulle punture. Se ne stanno rendendo conto un po’ ov u n que, dalla Scandinavia alla Columbia britannica. Da noi, quando suonerà la sveglia?

Tesla, titolo dimezzato Pesano Twitter e Cina

 



Sembrano lontanissimi i tempi (aprile) in cui il titolo Tesla garantiva una capitalizzazione vicina al trilione di dollari. Complici l’avventura del ceo Elon Musk per la conquista di Twitter (la caduta è iniziata proprio quando è stata lanciata l’offerta da 44 miliardi di dollari per il social di microblogging), gli enormi problemi logistici e di produzione causa Covid e la crescente competizione con i brand locali in Cina, il tonfo in Borsa per Tesla è stato clamoroso: -52% quest’anno, a 530 miliardi. Attenzione, in seconda posizione il maggior produttore mondiale, la giapponese Toyota, capitalizza 200 miliardi. Ne vale la metà la stella nascente, Porsche. Le Tesla (169 dollari) dovrebbero riguadagnare l’80% per raggiungere il prezzo obiettivo mediano (302 dollari) degli analisti. Intanto Tesla si confronta con il mercato cinese, il suo secondo, dove l’80% delle vendite è ormai appannaggio di brand autoctoni, Byd in testa. Per incoraggiare i clienti la casa americana ha tagliato i prezzi e adottato incentivi, ma gli ordini sono insufficienti secondo gli analisti. Per le big europee non va meglio. Ha tagliato i prezzi su due modelli elettrici anche Mercedes-Benz. Mentre Volkswagen ha abbassato i target delle vendite 2022 del 14%, anche per il ritorno di Pechino alla politica Zero Covid.

L’aumento della cigs del 65% campanello d’allarme sulle crisi

 

L’allarme per lo stato di crisi delle imprese industriali e commerciali è confermato dall’ampio ricorso a settembre alla cassa integrazione straordinaria. Mentre va esaurendosi l’impatto negativo del Covid-19 sulle attività produttive, la nuova emergenza è legata alla guerra in Ucraina e all’aumento dei prezzi e delle materie prime. Le oltre 15 milioni di ore di Cigs autorizzate dall’Inps a settembre superano del 65% il dato di agosto (una crescita ben superiore rispetto all’incremento complessivo della Cig che sfiora il 9%). È il quadro che emerge dal rapporto realizzato dall’Associazione Lavoro&Welfare di Cesare Damiano, il cui centro studi Mercato del Lavoro e Contrattazione ha rielaborato i dati Inps evidenziando, in particolare, i 15 settori nei quali cresce la Cigs, con le “colonne” del Made in Italy come il Tessile (+347%), Trasformazioni minerali (+202%), Pelli e Cuoio (+189%), Metallurgico (+186%), Commercio (+127%), Vestiario e Abbigliamento e Arredamento (+110%). Per dimensioni e peso sul sistema produttivo, spicca il settore Meccanico (+23% su agosto). In maggior sofferenza, le Regioni del Nord - nel Centro il Lazio -, dove si genera la maggior parte del Pil, dalle quali arriva la maggior richiesta di decreti di Cigs: la Lombardia 349 (+25%), il Lazio 245 (+94%), l’Emilia-Romagna 158 (+33%), il Veneto 132 (+71%) e il Piemonte 127 (+2%). «La situazione attuale è caratterizzata da un maggiore ricorso alla Cigs, il cui utilizzo riguarda generalmente le situazioni di crisi aziendale – commenta Cesare Damiano-. È un segnale della crisi che comincia a mordere seriamente il nostro tessuto produttivo, con le riduzioni produttive indotte dalla carenza e dall’aumento del costo delle materie prime. Una situazione che si fa dura per le famiglie e per le imprese». Rispetto a settembre del 2021 il ricorso alla Cigs diminuisce di circa l’1%, ma nel periodo gennaio-settembre 2022, rispetto allo stesso periodo del 2021, la Cigs aumenta di oltre il 25%, con oltre 153 milioni di ore autorizzate. Si attendono, a breve, i dati di ottobre dell’Inps per vedere se questo quadro sarà confermato. Nelle causali in crescita le crisi Il numero delle aziende in crisi che fanno ricorso a decreti di Cigs fino a settembre 2022 diminuisce rispetto allo stesso periodo del 2021: sono 1.470 (-14,73%). Si modifica la composizione delle aziende che ricorrono ai decreti di Cigs, con un aumento tra i grandi gruppi commerciali e industriali con molte unità produttive presenti sul territorio nazionale: da 2.614 siti del 2021 a 3.752 (+43,53%). In crescita i ricorsi alla Cigs per Crisi aziendale (+39%), con 317 decreti sono quasi il 19% del totale dei decreti. In forte aumento anche i Contratti di Solidarietà: sono 789 decreti (+83%), quasi la metà di tutti i decreti di Cigs concessi (47%), un anno fa erano il 20,23% del totale. «Molti contratti sono la riaccensione di decreti già presenti in precedenza ma sospesi per Covid - spiega Giancarlo Battistelli, che ha curato il rapporto-. Questi contratti di solidarietà consentono la riduzione di orario e la salvaguardia dell’occupazione. Il loro aumento testimonia una sotto-utilizzazione delle attività a cui sono legati e una presenza occupazionale non utilizzata». Con causale “Sospensione Cigs” si registrano 210 decreti (-81%), sono quasi il 13% del totale dei decreti di Cigs. Infine, le aziende che chiudono definitivamente, passando attraverso i decreti di Cigs, sono 130 (la stessa percentuale del 2021) pari a quasi l’8% dei decreti di Cigs. «Il maggiore ricorso alla Cigs è legato alla possibilità di intervenire negli stati di crisi aziendali - continua Battistelli -, per favorire processi di riorganizzazione, riduzioni di orario con i contratti di solidarietà ed altre causali, compresi interventi nelle chiusure di aziende».I lavoratori interessati Il rapporto ha tradotto le ore totali autorizzate di Cig (Cigo, Cigs, Cigd, Fis) equivalenti a posti di lavoro con lavoratori a zero ore, tra gennaio e settembre 2022, che corrispondono ad un’assenza completa di attività produttiva per oltre 296mila lavoratori, di cui oltre 98mila in Cigs, 17mila in Cigd, oltre 107mila in Cigo e 73mila in Fis. In base alle ore di Cig, nel 2022, fino a settembre, si sono perse quasi 58 milioni di giornate lavorative. Il massiccio ricorso agli ammortizzatori sociali ha avuto ricadute economiche per i lavoratori che fino al mese di settembre, hanno avuto una diminuzione complessiva del monte salari di oltre 1 miliardo e 260 milioni di euro al netto delle tasse. Il conto per ogni lavoratore in Cig a zero ore, fino a settembre corrisponde ad una perdita del reddito di oltre 4.480 euro al netto delle tasse. Se il conto si fa non sulle ore autorizzate, ma sul “tiraggio”, ovvero sull’effettivo utilizzo della Cig, che è stato mediamente del 26,60% bisogna rivedere questi numeri al ribasso. La Cigs nell’ultimo decennio Per il periodo gennaio-settembre di ogni anno, nel 2012 la Cigs ha totalizzato oltre 247 milioni di ore, contro i 120 milioni del 2022. La punta più alta è nel 2014 con oltre 342 milioni di ore. «Sembrerebbe che oggi si stia molto meglio - aggiunge Battistelli- ma è un’impressione parziale perché, ancora oggi si risente della possibilità nella fase transitoria di trasformare le ore dei decreti di Cigs in ore caricate nella Cigo o nella Cigd». Prima del Covid, ovvero dal 2012 al 2018, la Cigs scende da 247 milioni di ore a 69 milioni di ore (-72%) nei mesi che vanno da gennaio a settembre. Mentre dal 2018 al 2022, la Cigs torna a salire: da 69 milioni di ore a 120 milioni di ore (+73%). «In questa fase, ancora non è del tutto trasparente lo stato di crisi delle aziende - conclude Damiano-. Il periodo Covid-19 ha finito per nascondere lo stato di crisi preesistente nelle aziende che si sta gradualmente manifestando. Il problema sull’occupazione si porrà nel medio periodo, se non ci sarà una ripresa in grado di saturare la capacità produttiva».

Ocse: nel 2023 non ci sarà la recessione globale

 

Indebolita dalla guerra in Ucraina e dal peggiore shock energetico dagli anni Settanta, l’economia mondiale frena, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti, anche se dovrebbe riuscire a evitare la recessione l’anno prossimo, sempre che il quadro non peggiori. Lo scenario è quello dell’ultimo outlook dell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che per l’Italia prevede una contrazione alla fine dell’anno e una sostanziale stagnazione (+0,2% appena) nel 2023. La crescita mondiale rallenterà quest’anno al 3,1% (a settembre la stessa Ocse aveva previsto un +3,1%) contro il 5,9% del 2021, per poi calare al 2,2% nel 2023 e risalire al 2,7% nel 2024. Principale motore della crescita nel biennio 2023-2024 saranno i Paesi emergenti dell’Asia, che peseranno per tre quarti, mentre Europa, Nord America e Sud America registreranno basse performance. A cominciare dall’Europa, che più di tutti sente il peso del conflitto in Ucraina e del conseguente shock energetico nonché – ma questo è un problema condiviso con l’altra sponda dell’Atlantico – dell’inflazione fuori controllo. Per l’Eurozona, l’Ocse prevede quest’anno un incremento del 3,3% del Pil, che frenerà bruscamente nel 2023 (+0,5%) e risalirà all’1,4% nel 2024. A soffrire di più sono le economie tradizionalmente dipendenti dalle importazioni di energia russa, come quella tedesca: per Berlino si prevede l’anno prossimo una contrazione del Pil dello 0,3%, comunque meno marcata dello 0,7% stimato a settembre; meglio andrà invece in Francia, dove la dipendenza è minore e dove si stima una crescita dello 0,6%. Per l’Italia, dopo la crescita sostenuta dei primi trimestri del 2022 (che si tradurrà in un +3,7% annuo), l’Ocse rileva indicatori che puntano a un declino dell’attività e fanno prevedere qualche contrazione trimestrale. Il 2023 dovrebbe tuttavia registrare un lievissimo segno positivo (+0,2%), prima di ritrovare la crescita vera e propria (+1%) nel 2024. Il debito pubblico si attesterà al 146,5% nel 2022, per poi ridursi al 144,4% nel 2023 e al 143,3% nel 2024. «Pensiamo che le politiche attuate oggi cominceranno ad avere un impatto nel 2024 – ha dichiarato il capo economista dell’Ocse, Alvaro Santos Pereira - e pensiamo che ci sarà un rimbalzo dell’economia italiana. Ripeto – ha aggiunto però - quello che già da tempo diciamo: prima di tutto ciò che è importante per l’Italia è la prudenza di bilancio, perché c’è comunque un indebitamento abbastanza forte». Fuori dall’Eurozona, peggiora lo scenario nel Regno Unito, maglia nera del G7 per i prossimi due anni (con una contrazione dello 0,4% nel 2023) per effetto di alta inflazione ed elevati tassi di interesse. Anche per quanto riguarda gli Stati Uniti, l’aggressiva politica della Federal Reserve per contenere l’inflazione produrrà una frenata della crescita: dall’1,8% di quest’anno allo 0,5% del 2023 (+1% la stima per il 2024). L’Ocse tuttavia, in linea con le principali banche centrali e con la Commissione europea, in questa fase prolungata di alta inflazione (8,3, 6,8 e 3,4% le stime per l’Eurozona tra il 2022 e il 2024) non vede alternative a politiche monetarie restrittive, accompagnate da misure mirate da parte dei governi. «L’ulteriore inasprimento della politica monetaria – si legge nel rapporto presentato ieri - è essenziale per combattere l’inflazione e il sostegno della politica di bilancio dovrebbe diventare più mirato e temporaneo». «Non prevediamo una recessione – ha sintetizzato il segretario generale dell’Ocse, Mathias Cormann, presentando l’outlook – ma certamente un periodo di marcata debolezza». Il condizionale tuttavia rimane d’obbligo. I numeri indicati fanno parte dello scenario base dell’Ocse, che non manca di ricordare che c’è il rischio di più gravi carenze di gas, con effetti a cascata sulla catena produttiva. In questo caso, le ricadute su crescita e inflazione potrebbero essere consistenti. Soprattutto in Europa, dove l’Ocse stima nel 2023 un impatto fino a 1,4 punti percentuali di Pil in meno e 1,25 punti percentuali in più per l’inflazione. A quel punto, diversi Paesi non riuscirebbero più a scongiurare la recessione.

Gazprom minaccia l’Ue: ridurremo i volumi di gas in transito dall’Ucraina

 

La Ue ha indicato il valore del price cap sul gas a 275 euro per megawattora. Oltre questa soglia si bloccano le contrattazioni. Perplessità dall’Italia. Intanto la russa Gazprom torna a minacciare tagli alle forniture nel gasdotto che passa dall’Ucraina Trovato l’accordo sul price cap, ora l’Europa rischia di subire un nuovo taglio alle forniture di gas russo. Gazprom, che con una coincidenza quanto meno sospetta, ieri ha minacciato di ridurre i volumi che transitano dall’Ucraina: l’unica rotta ancora utilizzata per servire i clienti tradizionali, oltre che da sempre quella preferita per raggiungere l’Italia. La stretta comincerà il 28 novembre, lunedì prossimo – proprio quando le previsioni meteo annunciano un’ulteriore discesa delle temperature nel continente, sotto le medie stagionali – a meno che prima di allora non si arrivi ad una (improbabile) ricomposizione dell’ennesima disputa con Kiev, che Gazprom stavolta accusa di trattenere gas destinato alla vicina Moldova. Il gestore della rete ucraina, Gtsou, respinge ogni addebito: «È una grossolana manipolazione dei fatti, per giustificare la decisione di limitare ulteriormente le forniture di gas ai Paesi europei», si legge in un comunicato. È un copione simile a quelli già andati in scena più volte in passato, con conseguenze pesanti su prezzi e offerta di energia nel 2006 e poi di nuovo nel 2009, in quelle che vengono ricordate come “guerre del gas”. Ma oggi tra Mosca e Kiev è in corso un vero e sanguinoso conflitto, combattuto con le armi, in cui l’esercito russo non ha esitato a distruggere infrastrutture energetiche, con gravi danni per la popolazione civile. Quanto al gas, la rotta via Ucraina non è più una delle tante a disposizione di Gazprom, ma l’unica rimasta per rifornire l’Europa occidentale. I gasdotti gemelli del Mar Baltico – il Nord Stream 1 e il mai utilizzato Nord Stream 2 – sono infatti entrambi fuori uso dopo il sabotaggio dai contorni tuttora misteriosi avvenuto a fine settembre. E prima ancora la Polonia aveva rescisso il contratto per il transito di gas russo nel suo territorio, riservando di fatto la pipeline YamalEurope ai flussi da ovest a est. Via Ucraina ( utilizzando un solo punto di accesso, quello di Sudhza) Gazprom oggi esporta circa 43 milioni di metri cubi di gas al giorno: volumi scarsi ma ancora insostituibili per l’Europa. Se restassimo senza saremmo costretti ad aumentare il ricorso agli stoccaggi, col rischio di esaurirli prima della fine dell’inverno e di non essere in grado di riempirli di nuovo a sufficienza: con le forniture russe azzerate potrebbero mancarci 30 miliardi di metri cubi di gas da mettere via per il prossimo anno termico, ha avvertito di recente l’Aie. Eppure il prezzo del combustibile ieri non è salito più di tanto: il rialzo è stato di poco superiore al 4% al Ttf per il gas in consegna a dicembre, che è tornato a superare 120 euro per Megawattora. Sono livelli elevati, quasi il quadruplo rispetto alla norma in questo periodo dell’anno. Ed è probabile che molti operatori diano già da tempo per scontato che la Russia prima o poi finirà col chiudere i rubinetti. Ma forse c’è anche la convinzione che il prossimo taglio, ammesso che ci sia, sarà lieve. Gazprom calcola che in tutto le siano finora sottratti 52,52 milioni di metri cubi di gas, ma minaccia di trattenere dal 28 novembre solo la quota di forniture destinata alla Moldova: appena 5,7 milioni di metri cubi al giorno dunque, quel poco che ormai spetta a Chisinau, anch’essa coinvolta di recente in dispute con il fornitore russo.

sabato 5 novembre 2022

Nucleare Le centrali non ripartono Nuovi guai per la Francia

 

Ci risiamo. Per la quarta volta consecutiva Edf ha dovuto rivedere al ribasso le sue previsioni di produzione di energia elettrica, il che avrà conseguenze negative questo inverno non solo per la Francia ma per tutta l’Eu - ropa (l’Italia acquista da Parigi il 5% dell’elettricità che c o n su m a) . Il colosso francese dell’energia si aspetta che quest’anno i suoi impianti atomici producano meno di 275 terawattora, rispetto alla precedente stima di almeno 280 terawattora. Molti reattori sono fermi da tempo, dopo che sono stati riscontrati fenomeni di corrosione nelle tubature, e i lavori di manutenzione stanno procedendo a rilento anche per via degli scioperi dei lavoratori che chiedono stipendi più alti per far fronte all’i n f l a z io n e. I problemi col nucleare (la cui produzione nel 2022 toccherà il livello più basso da 30 anni) hanno portato la Francia a diventare un’importatrice netta di energia elettrica. Parigi nei mesi scorsi ha raggiunto un accordo con la Germania per scambiare gas contro elettricità in caso di bisogno questo i nve r n o. Edf prevede che i problemi alle centrali avranno un impatto sui conti pari a 32 miliardi di euro. Recentemente l’azienda, partecipata dallo Stato all’84% e che presto sarà completamente nazionalizzata, ha paradossalmente fatto causa al governo francese, chiedendo 8 miliardi di euro di risarcimento per i costi sopportati in seguito all’introduzione del tetto agli aumenti in bollette.



Lagarde in veste da falco: sui tassi pronti ad andare oltre

 

Sarà stato perché si rivolgeva ai cittadini dell’Estonia dove, come ha scandito in apertura del suo intervento a Tallinn, «l’impennata dei prezzi ha toccato il 25%». Fatto è che la presidente Christine Lagarde ha pronunciato ieri un discorso più “falcheggiante” del solito, spazzando via per ora almeno le interpretazioni “dovish pivot” che avevano scorto un qualche cenno di moderazione alla conferenza stampa dopo l’ultimo rialzo dei tassi da 75 punti base. La parola d’ordine ora è «determinazione», a oltranza se necessario. Lagarde ha detto ieri che la Bce è pronta ad andare oltre il tasso neutrale, fino a un orientamento di inasprimento della politica monetaria. «Abbiamo innalzato i tassi ufficiali di 200 punti base e prevediamo di aumentarli ancora. Il nostro lavoro però non finisce qui - ha  chiarito -. L’abbandono dell’orientamento accomodante potrebbe non bastare a riportare l’inflazione al nostro obiettivo». E questo anche perché «l’evidenza storica indica che non bisognerebbe attendersi un impatto significativo sull’inflazione dal rallentamento della crescita, almeno non nel breve periodo». La presidente ha sottolineato che dimostrare impegno nei confronti del mandato «è fondamentale per assicurare il continuo ancoraggio delle aspettative di inflazione ed evitare che gli effetti di secondo impatto (spirale prezzi-salari) si radichino». «Le recenti decisioni del Consiglio direttivo testimoniano questa determinazione». Per Lagarde, in tempi così burrascosi le banche centrali devono fare affidamento sulla loro bussola – «la lealtà verso il mandato» – per assicurare la stabilità dei prezzi. «Devono essere pronte ad assumere le decisioni necessarie, per quanto difficili, al fine di ricondurre l’inflazione su livelli più contenuti, perché le conseguenze di un’inflazione troppo alta radicata nell’economia sarebbero molto più deleterie per tutti». La determinazione della Bce sta anche nella tempestività. Nel caso di peggioramenti, non esiterà ad intervenire, non aspetterà “il ritardo dei tempi di trasmissione della politica monetaria”: «Se dovessimo assistere all’ulteriore protrarsi dell’inflazione e al rischio di disancoraggio delle aspettative, non potremmo attendere il pieno concretizzarsi degli effetti degli interventi monetari. Dovremmo adottare ulteriori misure». Lagarde si è infine rivolta ai governi dell’area euro. A fronte del rallentamento dell’economia e della compressione dei redditi reali, la politica di bilancio potrebbe assumere un orientamento più espansivo al di là degli stabilizzatori automatici. In un contesto con vincoli dell’offerta, ciò rischierebbe di accentuare le pressioni inflazionistiche, «costringendo la banca centrale a un inasprimento della politica monetaria superiore a quanto altrimenti necessario».

Schizofrenia Ue: per l’auto elettrica va bene sacrificare 600.000 occupati

 

Alla baronessa Ursula von der L eyen piace giocare a sette e mezzo sul panno verde del suo amatissimo e ideologico green deal, tanto il banco Europa vince sempre; a perdere sono le imprese e i cittadini-consum ato r i . Sono mal contati i 750.000 impiegati del settore auto che perderanno il lavoro, sono 750.000 le aziende che si occupano in Italia di imballaggi e di riciclo del packaging (6,3 milioni di dipendenti) che salteranno per aria in forza dei nuovi regolamenti europei. Ma che gli fa, l’Europa vuol bene all’ambiente e pazienza se si scopre che è un gigante economico con i piedi d’argilla, pardon di Greta. Ormai l’ossessione verde ha fatto perdere qualsiasi contatto con la realtà alla Commissione europea. Al punto che, per le auto, l’Europa diventa classista e difende solo i ricchi: si potranno vendere anche dopo il 2035 solo le Ferrari e tutte le supercar, mentre gran parte dei cittadini non si potrà permettere l’auto elettrica. Per il packaging, poi, l’Eu ro pa smentisce se stessa: ha fissato dei minimi per il riutilizzo dei materiali, incoraggiando l’economia circolare con l’esalta - zione delle cosiddette materie prime-seconde e ora li smonta perché alla baronessa von der L eye n non piace più il riciclo, lei punta al riuso: vuole ripristinare il vuoto a rendere. Senza considerare che si spreca un sacco di energia per recuperare gli imballaggi e ricondizionarli. Si pensi solo alle bottiglie di vetro (ora, peraltro, introvabili) che vanno comunque lavate e sterilizzate: costa meno, anche in termini energetici, frantumarle e ristamparle. Ma vale anche per le bistecche sintetiche: per far funzionare i bioreattori, si consuma infinitamente di più che per allevare un manzo. Per le coop agricole «le scelte europee con il Farm to fork in tema di agricoltura e alimentazione non sono più attuali e realizzabili»; gli alimentaristi denunciano che «von der L eye n vuo - le farci mangiare le bistecche finte di Bill Gates», ma ora due settori-colossi della manifattura sono rischio fallimento per i diktat di Bruxelles. Il primo è il comparto dell’automobile: dal 2035 non si potranno più commercializzare veicoli a motore endotermico; il secondo è quello degli imballaggi, che coinvolge tutti i settori manifatturieri e che, nel riciclo, ha ottenuto in Italia ottimi risultati. A rendere evidente che le scelte di Bruxelles sono ideologiche, prevaricano gli Stati e non hanno alcun motivato parere ci ha pensato Thierr y Breto n , commissario europeo al mercato interno e all ’industria. Ha cercato di spiegare perché si va dritti al 2035 come anno di morte delle auto endotermiche. In realtà mancano ancora due atti e il passaggio al Parlamento di Strasburgo, ma la decisione è p re s a . Dopo aver certificato che il settore auto vale 12,7 milioni di posti di lavoro (il 6,6% dell’oc - cupazione europea), Breto n ha detto: «Speriamo di mantenerli: 600.000, però, potrebbero perdere il lavoro». In realtà, sono molti di più: Deutsche bank ha stimato che in Germania ne salteranno 870.000. Per quel che riguarda l’Italia, c’è il rischio azzeramento per quasi tutta la filiera della componentistica: 60.000 imprese con 500.000 occupati. Breto n , però, annuncia che nel 2026 si farà una valutazione per sapere se si debbano riconsiderare i biocarburanti e fare il punto sulla transizione. Ci sarà un gruppo di lavoro composto da industrie, sindacati e tecnici che farà un monitoraggio trimestrale. L’Eu ropa, peraltro, è pronta mostrare i muscoli. Perfino con Jo e Bi - den, che si è fatto gli affari suoi con la legge che aiuta con 730 miliardi di dollari la transizione verde negli Usa. È vero, ammette Breto n , che diverse aziende stanno già emigrando in America, così come è sul tavolo il tema delle batterie e dei componenti, che sono un monopolio dei cinesi. Ma l’Eu ro pa risponderà con una propria normativa sulle materie prime critiche che verrà presentata «nel primo trimestre del 2023» e poi darà impulso a « un’industria made in Europa» con un aiuto da 10 miliardi. Beato chi ci crede. Anche perché sull’auto, a Bruxelles, hanno fatto un altro pasticcio. Dovevano varare i motori euro 7 con emissioni da aria di montagna. Gli industriali hanno obbiettato: che senso ha, per noi, fare questa ricerca se fra dieci anni dobbiamo buttare via i motori? La Commissione ci ha ripensato, ha cambiato per l’en nesima volta le carte in tavola e pare che tra quattro giorni dirà come devono essere questi motori perché pure Breto n ammet - te che «dopo il 2035 continuerà a esserci ancora in circolazione il 20% di veicoli endotermici in Europa, molti di più circoleranno nel resto del mondo. E poi, se i calcoli da qui al 2035 fossero sbagliati, dobbiamo pur avere un modo per assicurare la mobilità». Siamo al tutto e contrario di tutto. Esattamente come avviene sugli imballaggi. L’Italia, grazie al Conai, ricicla il 73% del packaging (la quota sale all’83,7% se si aggiunge anche il recupero energetico, ndr.): 10,5 milioni di tonnellate. Ha stornato ai Comuni 727 milioni di euro e altri 420 milioni sono stati investiti nel riciclo. L’Ita - lia è leader assoluto nella produzione di imballaggi. Il nuovo regolamento europeo (200 pagine incomprensibili che non lasciano alcuna autonomia agli Stati) rischia di far saltare oltre 700.000 aziende che danno lavoro a 6,3 milioni di p e r s o n e. Perché la filiera degli imballaggi è lunga: si va da chi taglia il legno fino a chi quel legno recupera, ricicla e rimette in circolo; si va dalla plastica vergine all’acqua minerale. I settori più colpiti saranno l’agroalimentare, la plastica (anche quella biodegradabile), l’alluminio, la carta, il vetro e il legno che già stanno pagando un conto altissimo per la bolletta energetica. Ma a Bruxelles non risulta.