STUPIDA RAZZA

mercoledì 31 agosto 2022

Nuova stretta per il gas russo L’Europa centra il target scorte

 

Dalla Russia arriva una nuova stretta alle esportazioni di gas. Gazprom ha tagliato le forniture alla francese Engie, per non meglio precisati «disaccordi tra le parti sull’applicazione di alcuni contratti», e da oggi chiuderà di nuovo i rubinetti del Nord Stream: altri tre giorni di fermo per il gasdotto, se tutto va bene, che si aggiungono allo stop di dieci giorni che c’era stato a luglio per le manutenzioni programmate annuali. Da Mosca – che aveva preallertato i mercati con una decina di giorni di anticipo – spiegano che ora è necessario revisionare l’unica turbina rimasta in funzione nella stazione di compressione di Portovaya, quella che consente al Nord Stream di pompare verso la Germania circa 30 milioni di metri cubi di gas al giorno, un quinto rispetto alla capacità della pipeline e poco meno di metà delle attuali forniture russe alla Ue, che come fa notare un report di Nomura si sono ormai ridotte ad appena il 10% di quanto arrivava prima della pandemia da Covid. Oggi come il mese scorso è difficile spegnere il dubbio che il gasdotto del Baltico possa rimanere chiuso più a lungo delle 72 ore previste. Il Cremlino stesso – seguendo il copione ormai abituale – non ha mancato di alimentare le apprensioni, con il portavoce Dmitry Peskov che ieri ha sottolineato come nulla impedisca a Mosca di esportare più gas attraverso il Nord Stream «se non problemi tecnologici causati dalle sanzioni occidentali». Le sanzioni, ha insistito, «non ci consentono di effettuare i normali lavori di manutenzione e riparazione». I prezzi del gas nonostante tutto hanno proseguito la correzione al ribasso, aiutati dalla notizia dei forti progressi nell’accumulo di scorte in Europa. Gli stoccaggi Ue hanno già raggiunto – con due mesi di anticipo – il livello minimo prescritto da Bruxelles per l’avvio dell’anno termico: secondo gli ultimi dati Gie sono pieni in media al 79,9% e molti grandi importatori sono oltre l’80% indicato come traguardo per il 1° novembre. L’Italia è all’81,7%, la Germania all’83,3%, ma ci sono Paesi ancora più virtuosi, come Francia e Belgio, intorno al 90%, e Polonia e Portogallo addirittura al 100%. La corsa all’acquisto di gas – a qualunque prezzo, perché “obbligatoria” e finanziata da denaro pubblico – dovrebbe quanto meno rallentare, spegnendo un potente motore rialzista che ha alimentato il rally del gas nelle ultime settimane. Dopo il rialzo di oltre il 40% della settimana scorsa, con picchi superiori a 340 euro per Megawattora, il valore del gas al Ttf è già sceso del 20% lunedì e ieri – nonostante i tagli alle forniture russe – ha perso un altro 7%, concludendo a 254 euroquella che comunque è stata una giornata molto volatile, con oscillazioni tra un minimo di 245 e un massimo di 284 euro per il contratto di settembre. Strappi violenti e repentini, in una direzione o nell’altra, che in un mercato sempre meno liquido sono ormai all’ordine del giorno e che mettono a rischio anche gli operatori più grandi, come insegna il caso Uniper, colosso tedesco che ha appena chiesto al governo una nuova iniezione di liquidità da 4 miliardi di euro, in aggiunta al pacchetto di salvataggio da 15 miliardi ottenuto a luglio: sostituire  il gas russo con acquisti sul mercato, ha spiegato, la espone a perdite di «ben oltre» 100 milioni al giorno. Altra vittima eccellente venuta allo scoperto nei giorni scorsi è Wien Energie, la municipalizzata di Vienna, che alle prese con esorbitanti “margin call” ha invocato aiuti statali per 6 miliardi di euro. Il mercato resterà probabilmente instabile a lungo, dominato dai timori sulle prossime mosse di Gazprom. «È molto chiaro che la Russia sta usando il gas come arma di guerra e dobbiamo prepararci a una completa interruzione delle forniture», ha commentato la ministra francese dell’Energia Agnes Pannier-Runacher dopo il taglio imposto a Engie (che comunque aveva già ridotto gli acquisti da Mosca dal 17% al 4% del totale degli approvvigionamenti). Restano in secondo piano – benché pesino non poco sull’offerta di gas – i tagli operati dalla Norvegia, oggi primo fornitore in Europa. Anche Oslo è impegnata in un intenso programma di manutenzioni sia nei giacimenti che sui gasdotti, che proseguirà per quasi tutto settembre. Al picco, nella giornata di mercoledì 7, il mercato perderà 154,68 milioni di metri cubi di gas secondo le previsioni di Gassco, il gestore della rete norvegese.

L’industria dei pannelli spegne le macchine

 

Rischio black-out per la filiera del legno-arredo. L’allarme arriva dal presidente di FederlegnoArredo, Claudio Feltrin, che paventa il rischio di stop produttivi e di ricorsi alla cassa integrazione da parte delle aziende più energivore della filiera (ovvero i produttori di pannelli) se non saranno introdotte al più presto misure urgenti per bloccare gli aumenti di gas ed energia da parte dell’Unione europea o del governo italiano. «Uno scenario fosco – dice Feltrin – che in tempi brevi coinvolgerà l’intera filiera del legno-arredo, che riuscirà a evadere gli ordini solo in base alle scorte di magazzino, che però possono durare al massimo un mese e mezzo» «Quasi tutti i colleghi mi confermano che siamo entrati un un’area di marginalità negativa», spiega il presidente di Assopannelli, Paolo Fantoni. E questo nonostante il prezzo di mercato dei pannelli sia aumentato del 40% circa negli ultimi sei mesi e del 220% in 18 mesi. Il comparto affronta le stesse problematiche delle industrie energivore come siderurgia, ceramica, vetro e carta. Ma deve fare i conti, oltre che con l’impatto degli aumenti sui costi di produzione, anche con l’impennata dei prezzi dei prodotti chimici derivati dal gas (urea, metanolo e melamina), necessari alla produzione dei pannelli. Di fermi e cassa integrazione sta già ragionando il gruppo Fantoni di Osoppo, in provincia di Udine, che ieri ha fatto un primo incontro con i sindacati per concordare una cassa integrazione di cinque settimane: «Non chiuderemo per cinque settimane, ma dovremo ridurre la capacità produttiva in un range tra il 25% e il 35%», spiega ancora Paolo Fantoni, presidente del gruppo friulano. Il gruppo Saib di Caorso riapre i battenti domani dopo la pausa estiva, ma già sta già pensando a uno stop delle macchine per una settimana al mese. Il gruppo ha convocato per la prossima settimana le Rsu, anche in questo caso per discutere una cassa integrazione parziale. «Siamo arrivati a un punto tale che conviene tenere fermi gli impianti piuttosto che produrre, salvo lo stretto necessario – spiega Giovanni Conti, uno dei titolari dell’azienda piacentina, che conta 230 dipendenti –. Anche perché ci attendiamo un ulteriore calo della domanda, iniziato già prima della chiusura estiva». Nel solo mese di agosto, aggiunge Conti, l’incidenza degli aumenti di gas ed energia sul prodotto finito (esclusa la parte legata ai prodotti chimici) è aumentata del 30%. «Il problema vero non è fermare la produzione per qualche settimana – precisa però l’imprenditore –. Un’azienda solida può affrontare un anno difficile. L’aspetto più grave è la mancanza di orizzonti, che blocca gli investimenti. Perciò il governo dovrebbe intervenire nell’immediato sostenendo le imprese, ma poi deve avviare un piano energetico serio sul lungo periodo, che ci conduca all’autonomia energetica». Il tema degli ammortizzatori sociali non è ancora sul tavolo del gruppo Saviola, una delle principali realtà del settore, con 707 milioni di fatturato nel 2021 e circa 1.500 dipendenti. Tuttavia, il gruppo sta pianificando una chiusura degli impianti più energivori (pannelli truciolari e prodotti chimici) nella seconda metà di settembre. «Preferiamo programmare e organizzare il fermo, piuttosto che subirne uno all’improvviso, perché i costi salgono troppo – spiega il presidente, Alessandro Saviola –. Utilizzeremo le ferie dei dipendenti, facendo di tutto per evitare la cassa integrazione, anche se non posso escludere questa eventualità, vista la situazione davvero difficilissima». I costi dell’energia del gruppo sono aumentati di 15 volte nell’ultimo anno e mezzo e senza stop programmati il rischio è di produrre in perdita. Sono solo alcuni esempi, ma molti altri imprenditori del settore sono nella stessa situazione, aggravata dalla competizione di Paesi come Spagna e Portogallo, che beneficiano di prezzi al sistema industriale inferiori di un quarto o un terzo rispetto a quelli in vigore in Italia e Germania, spiega il presidente Paolo Fantoni. Vanno un po’ meglio le cose per chi, come la mantovana Panguaneta specializzata in pannelli in compensato, ha in vigore contratti a prezzo fisso fino alla fine dell’anno. «Subiamo i rincari dell’energia elettrica, ma per ora affrontiamo costi che sono la metà rispetto a quelli di mercato – spiega la ceo Nicoletta Azzi –. La mia preoccupazione è per quello che accadrà nel 2023». Anche la milanese I-Pan (unica in Italia a produrre pannelli Osb per l’edilizia) per ora è riuscita a evitare il fermo, grazie al fatto che una parte dell’energia utilizzata per la produzione proviene da un impianto a biomassa. I costi sono comunque esplosi, spiega il presidente Enrico Bonzano: «In due mesi il prezzo è aumentato del 50% e questo si scontra con un mercato che, da luglio, ha rallentato. Perciò stiamo valutando tutte le azioni possibili per abbattere i costi, anche riducendo l’utilizzo degli impianti, sebbene senza fermarli del tutto».



È necessario spegnere l’illuminazione pubblica

 

«Anche gli enti pubblici non sono in grado di sostenere i costi energetici», testimonia Nedda Manoni, dirigente dell’area Gestione risorse del Comune di Desio (Monza e Brianza). E continua: «Il nostro Comune deve sostenere per l’illuminazione pubblica costi aumentati del 152%. Per un solo impianto abbiamo ricevuto a luglio una bolletta da 4.789 euro. Desio spendeva nel 2021 900mila euro per l’illuminazione pubblica e nel 2022 sborserà oltre 1,5 milioni. Per non parlare dei costi del riscaldamento degli impianti sportivi e delle scuole. Bisogna assolutamente obbligare le città a spegnere l’illuminazione pubblica, a ridurre le temperature nelle scuole e a spegnere l’aria condizionata. Se non c’è una legge, nessun sindaco avrà il coraggio di spegnere le luci».

Industria del Nord a rischio desertificazione: «Impatti devastanti, 40 miliardi di extracosti»

 

Potrebbero arrivare a oltre 40 miliardi gli extracosti per le imprese in Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte e Veneto a causa dei rincari dei prezzi di elettricità e gas. Sono i dati relativi ai rincari energetici dal 2019 al 2022 che i presidenti di Confindustria nelle quattro regioni - Annalisa Sassi, Francesco Buzzella, Marco Gay ed Enrico Carraro - ieri hanno presentato ai rispettivi assessori allo sviluppo economico - Vincenzo Colla, Guido Guidesi, Andrea Tronzano e Roberto Marcato. Il tema dell’incontro è stata proprio l’emergenza energetica, che, «in assenza di quelle misure di contenimento dei prezzi richieste da mesi dalle imprese, sta paralizzando il sistema industriale italiano con il forte rischio di deindustrializzare il Paese mettendo a repentaglio la sicurezza e la tenuta sociale nazionale». «Ferma restando la necessità di definire, fin da subito, una programmazione energetica nazionale con interventi e investimenti a mediolungo termine in grado di assicurare la sicurezza e la sostenibilità della produzione energetica e delle forniture di gas», si legge in una nota, i presidenti Sassi, Buzzella, Gay e Carraro hanno dichiarato che le imprese non possono attendere un giorno di più quelle misure necessarie a calmierare i prezzi dell’energia. Tra le azioni considerate necessarie dai presidenti delle regioni cruciali per il sistema industriale del Paese, ci  sono «l’introduzione di un tetto al prezzo del gas, la sospensione dell’obbligo di acquisto di quote Ets, la separazione del meccanismo di formazione del prezzo dell’elettricità da quello del gas, gli interventi per il contenimento dei costi delle bollette con risorse nazionali ed europee e la destinazione di una quota nazionale di produzione da fonti rinnovabili a costo amministrato all’industria manifatturiera». In linea con l’appello del presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, si è sottolineato durante l’incontro che la situazione ha carattere di «straordinarietà e urgenza indifferibile, perché è impossibile mantenere la produzione con un tale differenziale di costo rispetto ad altri Paesi (Ue ed extra Ue) nostri competitor, con l’effetto di colpire non solo le imprese esportatrici dirette, ma anche tutta la filiera produttiva». Le conseguenze negative più pesanti, come stiamo raccontando quotidianamente su questo giornale con l’iniziativa “Bollette fuori controllo”, graveranno soprattutto sulle piccole e medie imprese. Un ulteriore effetto, osservano i rappresentanti del mondo industriale, «è l’annullamento del rilancio economico post pandemia, in particolare nelle ricadute sui territori che vedono un’erosione drammatica di competitività rispetto ad altri Paesi limitrofi». La conclusione è un appello urgente: «È chiaro ormai che ogni risorsa deve essere destinata prioritariamente a questa emergenza». Come emerge dai numeri presentati dai quattro presidenti, nel 2019 il totale dei costi di elettricità e gas sostenuti dal settore industriale di Emilia-Romagna, Lombardia, Veneto e Piemonte ammontava a circa 4,5 miliardi di euro, nel 2022 gli extracosti raggiungeranno nell’ipotesi più ottimistica rispetto al  l’andamento del prezzo circa 36 miliardi, cifra che potrebbe arrivare a 41 nello scenario peggiore. Le Confindustrie di Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte e Veneto, si legge sempre nella nota, hanno apprezzato la sensibilità e l’attenzione delle Regioni, che si sono trovate concordi sulla gravità dell’emergenza e l’insostenibilità della situazione. L’appello finale, rivolto a chi ha reponsabilità di governo, è quello di appoggiare l’esecutivo con l’obiettivo di mettere un freno alla corsa dei prezzi. I presidenti delle quattro regioni, infatti, «al fine di evitare drammatiche ricadute economiche e sociali, invitano tutte le forze politiche - anche in questa fase di campagna elettorale - a sostenere con decisione l’impegno del governo in carica nella difficile trattativa con gli altri Paesi a livello europeo per l’introduzione di un tetto al prezzo del gas. Il tempo è ampiamente scaduto e una decisione in sede Ue in questo senso non è più differibile». Luca Zaia, Attilio Fontana e Alberto Cirio, presidenti rispettivamente di Veneto, Lombardia e Piemonte hanno condiviso l’appello proveniente dalle imprese. Tutti i settori sono in allarme. Dalla manifattura ai servizi. Fra i tanti comparti, travolta anche l’economia della montagna. Anef, l’associazione nazionale esercenti funiviari, ha inoltre aggiunto: con questi rincari è a rischio la prossima stagione sciistica. Come ha spiegato infatti la presidente Valeria Ghezzi «il costo dell’energia è aumentato anche di 6 volte. Andrebbe a minare tutta l’industria della neve: hotel, ristoranti, trasporti, scuole di sci. La preoccupazione va soprattutto alle tante piccole imprese che rischiano di chiudere».

Scattano i primi fermi produttivi Bonomi: «Imprese in difficoltà gravi»

 



Sotto l’incalzare della crisi energetica il sistema industriale italiano è in gravi difficoltà, spiega il presidente di Confindustria Carlo Bonomi. «Fino ad ora - aggiunge - le aziende hanno fatto miracoli», ma così non si può proseguire. «È mancata una politica industriale dell’Europa», accusa ancora Bonomi. Intanto cresce il numero delle imprese che rallentano o cessano la produzione perchè i costi sono fuori controllo, come nel caso nella filiera del legno arredo con i pannelli. Prime domande per la cassa integrazione. Non è solo la guerra. La crisi di oggi viene da lontano: «Purtroppo abbiamo avuto decenni di scelte sbagliate sul tema energetico in Italia, ma soprattutto è mancata l’Europa, che non ha avuto una politica industriale ed energetica». Carlo Bonomi ha parlato ieri sera, ospite in studio al Tg1 delle 20. Ogni giorno il prezzo del gas macina record, con lievi oscillazioni ma su livelli esorbitanti. E dal mondo delle imprese continuano ad arrivare allarmi: «Nei primi sette mesi dell’anno la Cassa integrazione straordinaria è aumentata del 45% rispetto all’anno precedente. È un segno evidente che la crisi sta mordendo le imprese italiane», ha detto Bonomi rispondendo alle domande della giornalista. Già il periodo passato, gli anni pesanti della pandemia, hanno creato pesanti difficoltà al mondo imprenditoriale: «Le imprese italiane hanno fatto miracoli a partire dall’emergenza pandemica, dal Covid. Hanno sostenuto i costi delle materie prime, la loro mancanza, l’aumento dei costi energetici». Ora, ha sottolineato il presidente di Confindustria, «sono arrivate ad un punto in cui fanno molta difficoltà». Il governo può e deve intervenire, aveva incalzato Bonomi nei giorni scorsi, sollecitando anche i partiti a far prevalere il senso di responsabilità. Intanto la Ue ha fissato per il 9 settembre la riunione dei ministri dell'Energia. Sembra che, sotto la spinta dell’emergenza, ci sia la possibilità di agire mettendo un tetto al prezzo del gas e di sganciare il prezzo dell’elettricità da quello del gas. «Oggi finalmente forse vediamo cambiare l’atteggiamento dei singoli Stati membri. Dobbiamo però ricordare che è un anno che lo stiamo dicendo. Il 10 novembre del 2021 abbiamo fatto un accorato appello con i miei colleghi della Confindustria francese e tedesca all’Europa per affrontare quella crisi energetica che già si intravvedeva». Bonomi in questi giorni ha incalzato sulla necessità di una serie di misure urgenti: un tetto al prezzo del gas, a livello europeo oppure, se non si dovesse raggiungere l’intesa Ue, a livello nazionale; la separazione del prezzo dell’elettricità da quello del gas, tema che si dovrebbe discutere nella prossima riunione di Bruxelles; la sospensione dell’acquisto di quote ETS a carico delle imprese «una follia a questi prezzi» ha detto nei giorni scorsi. Inoltre sarebbe opportuno destinare una quota della produzione delle rinnovabili a costo amministrato all’industria manifatturiera. È un grido d’allarme, quello delle imprese, che va ascoltato se non si vuole mettere a rischio la tenuta del tessuto industriale e quindi pesare sui posti di lavoro e sul reddito delle famiglie. In poche parole è a rischio il sistema Paese, e bisogna agire, in Italia e in Europa.

Il sistema finanziario sta per COLLASSARE. ITALIA INTRAPPOLATA


 

martedì 30 agosto 2022

L’incognita costi pesa su cinema e teatri

 

Prima l’emergenza Covid, che ha colpito pesantemente e frontalmente il settore con chiusure prolungare e obbligo di mascherine che si è protratto fino a metà giugno. Ora il caro bollette con il suo colpo diretto ai conti già traballanti del settore. Ma in più c’è anche la spada di Damocle di una nuova austherity. Che vorrebbe dire “razionare” l’attività e rimettere al centro della scena una sorta di possibile lockdown. Il settore dello spettacolo dal vivo fa i conti con un’incognita dei costi legati al caro energia. «Proprio  adesso che ci si stava risollevando da tutto quello che abbiamo passato a seguito dello scoppio della pandemia», commenta amaro Carlo Fontana, presidente Agis (Associazione Generale Italiana dello Spettacolo). «Per fare uno spettacolo dal vivo – aggiunge al Sole 24 Ore – l’illuminazione è fondamentale. Almeno se non vogliamo tornare alle candele del 1700 o del 1800». Da qui l’allarme lanciato attraverso una nota in cui Fontana avanza la richiesta «all’esecutivo in carica» di «interventi urgenti atti a mitigare, quanto più possibile, una situazione tanto grave da poter decretare l’inevitabile chiusura di molti luoghi di spettacolo». La richiesta è poi estesa «alla politica tutta, impegnata nella campagna elettorale» per «una presa di posizione netta e decisa». Interventi urgenti, insomma, facendo seguito a un appoggio da parte del Governo, per far fronte all’emergenza Covid, che Fontana riconosce, pur evidenziando che non è stato tutto né bianco, né nero.: «Dall’inizio della pandemia – si legge nella nota del presidente Agis – il mondo dello spettacolo è stato tra quelli maggiormente in sofferenza, a causa delle lunghe restrizioni. Giova ricordare come le misure introdotte dal Governo si siano rivelate utili ma non del tutto sufficienti». L’incognita della sostenibilità economica, insomma, diventa sempre di più un elemento con cui fare i conti. e in tal senso un allarme è stato lanciato anche, in particolare, dal settore delle discoteche. Lo spettro è quello di un nuovo lockdown serale, questa volta per motivi energetici e non più sanitari. Una prospettiva, questa, che agita gli imprenditori, come sta avvenendo in Emilia-Romagna e nel Riminese in particolare, dove insistono migliaia di attività legate all’intrattenimento e al tempo libero. «Abbiamo fatto tanto per destagionalizzare la nostra offerta turistica e ora che il nostro territorio ha appeal tutto l’anno il rischio è di vedere vanificati tutti gli sforzi per un coprifuoco energetico che fa paura anche solo al pensiero», sottolinea il presidente di Confcommercio Rimini e del Silb Emilia-Romagna (il sindacato delle discoteche) Gianni Indino. La riduzione d’orario per le attività commerciali e un lockdown serale alle 23 per i locali pubblici «sarebbe una misura deleteria per l’economia, soprattutto per un’area come la nostra che ha nel turismo la sua base portante», aggiunge Indino che attacca: «Non è possibile che ancora si pensi a penalizzare le categorie economiche legate al turismo considerandole non essenziali».



Russia e Cina, giochi di guerra anche nel Mar del Giappone

 

Non è la prima e non sarà certo l’ultima esercitazione congiunta sinorussa dell’era del presidente Xi Jinping, iniziata nel 2012 e destinata protrarsi ad libitum. I due Paesi, uniti da «un’amicizia più forte della roccia», stando alla solenne dichiarazione bilaterale del 4 febbraio scorso, condurranno manovre, peraltro già ampiamente annunciate il mese scorso, dal 1° al 7 settembre nel Mar del Giappone per perfezionare «la difesa congiunta delle rotte marittime e delle aree di attività economica». Fin qui la motivazione ufficiale del ministero della Difesa russa affidata all’agenzia Interfax. Il teatro del l’operazione Vostok 2022, alla quale parteciperanno unità della flotta moscovita del Pacifico e della Repubblica popolare cinese sotto la supervisione del capo di Stato maggiore di Mosca, Valery Gerasimov, sarà questa volta il Nord-Est del Pacifico. La precedente kermesse, appena un anno fa, era stata seguita da Vladimir Putin in persona, ed era stata avviata nel solco del piano di comuni iniziative attivate ben prima dell’invasione della Crimea. In quella circostanza le tru€ppe russe si sono schierate per la prima volta in territorio cinese. Questa volta, però, lo scenario è gravido di ulteriori significati, con le manovre cinesi intorno a Taiwan esarcebate dall’arrivo della speaker del Congresso Nancy Pelosi il 3 luglio scorso a Taipei e dai movimenti convulsi in atto nel mar Cinese meridionale. Oltre 50mila militari prenderanno parte quindi all’operazione Vostok 2022 nel Mare di Okhotsk, nel Mar del Giappone e nei territori del Distretto militare orientale russo, un’area che rappresenta per Tokyo uno storico nervo scoperto nei suoi tesissimi rapporti con Mosca. Lì saranno impiegate 60 navi da guerra, vascelli e imbarcazioni per i rifornimenti e 140 velivoli in operazioni finalizzate a rafforzare «la sicurezza militare della Federazione russa e dei suoi alleati nella zona di responsabilità del Distretto militare orientale». Saranno coinvolti sette poligoni di tiro, si impegneranno truppe di nazioni del blocco ex sovietico oltre a Cina, il gigante India, nonchè Laos, Mongolia, Nicaragua e Siria. Coinvolte anche unità delle truppe aviotrasportate russe, bombardieri a lungo raggio e aerei cargo militari. Di fatto i legami di difesa tra Mosca e Pechino acquistano un diverso peso dopo l’invio delle truppe russe in Ucraina lo scorso 24 febbraio. La Cina si è rifiutata di criticare l’azione della Russia, incolpando gli Stati Uniti e la Nato per aver provocato Mosca, e glissando sulle sanzioni imposte a Mosca. La Russia, dal canto suo, ha subito avallato la reazione cinese alla visita non autorizzata della Pelosi. Tra Mosca e Pechino, un tempo acerrimi rivali nel solco del comunismo c’è un “partenariato strategico”, non l’alleanza militare auspicata da Putin, in evidente difficoltà in Ucraina, sulla quale la Cina prende tempo, nonostante la condivisione di tecnologie militari russe altamente sensibili. Giusto per fornire un’idea e rafforzare l’effetto propaganda, Mosca ha diffuso un video delle truppe cinesi in arrivo per l’esercitazione. Mai come in queste ora le acque asiatiche sono state così affollate. Rimasti finora silenti, gli americani stanno muovendo gli incrociatori nello Stretto di Taiwan. Mentre l’isola è circondata da 8 navi e 37 jet militari cinesi le navi Antietam e Chancellorsville sono in transito «fuori dalle acque territoriali». Precisa la Marina statunitense: «Niente di inusuale», tutto in linea «con le libertà di navigazione e sorvolo in alto mare in conformità con il diritto internazionale». Forte la reazione di Zhao Lijian, portavoce del Ministero degli Esteri: «È una provocazione, un deliberato sabotaggio della pace e della stabilità regionale».

La Ue prepara una missione per addestrare truppe ucraine

 

I ministri europei della Difesa e degli Esteri si incontrano a Praga questa settimana per discutere degli ultimi sviluppi nel conflitto russo in Ucraina. Sul tavolo dei dirigenti politici due misure, in particolare: da un lato, la creazione di una missione europea tutta dedicata all’addestramento delle truppe ucraine; dall’altro, nuove regole sulla concessione dei visti ai cittadini russi. Entrambi i fronti sono delicati, e richiederanno compromessi tra i Paesi membri. Iniziamo dalla proposta di creare una missione nota con l’acronimo inglese CSDP (politiche di sicurezza e difesa comuni). Parlando a Santander, nel Nord della Spagna, l’Alto Rappresentante per la Politica estera e di Sicurezza Josep Borrell ha spiegato la settimana scorsa: «Una guerra che dura e che sembra destinata a durare richiede uno sforzo non solo in termini di fornitura di equipaggiamento, ma anche di addestramento e di assistenza all’organizzazione dell’esercito». In questo senso, l’ex ministro degli Esteri spagnolo ha chiesto ai Ventisette di creare una missione apposita, che vada oltre le operazioni di addestramento bilaterali e la fornitura di armamenti. Ha suggerito peraltro che la nuova CSDP non dovrà solo insegnare agli ucraini come utilizzare le armi europee, ma dovrà servire anche ad aiutare Kiev ad organizzare le forze armate. A Bruxelles c’era ieri cauto ottimismo su un accordo politico a Praga. La diplomazia italiana esige che la nuova missione abbia precisi contorni e precisi scopi. A Praga si tratterà di trovare una intesa su un accordo di principio, ma Roma vuole fare chiarezza sugli aspetti più importanti, pur di evitare che la posizione assunta dall’Europa in questo conflitto cambi surrettiziamente. I dettagli operativi – bilancio, uomini e durata della missione - verranno negoziati successivamente. L’addestramento comunque non avverrebbe in Ucraina, ma in un Paese membro. L’altra misura in discussione a Praga riguarda la concessione dei visti Schengen ai cittadini russi. Alcuni Paesi, dai Baltici alla Polonia, hanno chiesto l’adozione di un divieto totale. L’idea non è fattibile, sia da un punto di vista giuridico sia per motivi politici. Sul primo fronte, devono rimanere possibili i visti umanitari. Sul secondo fronte, bisogna evitare scelte radicali che smentiscano nei fatti il desiderio europeo di sanzionare il Cremlino per via della guerra in Ucraina, non la società russa. Anche su questo fronte, la diplomazia italiana intende essere ferma, pur di evitare soluzioni estremiste. Nei fatti, i ministri degli Esteri discuteranno della possibilità di adottare nuove restrizioni all’accordo con il quale dal 2007 l’Unione europea facilita la concessione di visti Schengen ai cittadini russi. È da precisare che già tra febbraio e maggio, sulla scia dell’invasione russa dell’Ucraina, i Ventisette avevano deciso di sospendere in parte l’intesa.

Nuovi vaccini in arrivo e la quarantena viene ridotta

 



Tutto pronto per i nuovi vaccini contro il Covid. Giovedì l’Ema, l’Agenzia Ue del farmaco, dopo gli enti regolatori di Regno Unito e Svizzera concederà un’ampia autorizzazione, a partire dagli adolescenti, per i due nuovi medicinali realizzati da Moderna e Pfizer: si tratta dei vaccini bivalenti che sono stati creati sul ceppo originario del virus, quello di Wuhan, e su Omicron 1. Gli studi sul tavolo dell’Ema evidenziano che i nuovi vaccini “adattati” forniscono una risposta immunitaria più forte del primo vaccino contro le varianti BA.1 e BA.4/5, mentre l’effetto protettivo contro il virus originale (ceppo di Wuhan), misurato in termini di concentrazione di anticorpi, resterebbe equivalente a quello vecchio. Il 5 settembre l’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, darà a sua volta l’autorizzazione per il nostro Paese, mentre sempre la prossima settimana l’Ema insieme all’Ecdc (il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie) dovrebbero dare anche delle indicazioni sulle categorie prioritarie a cui garantire l’accesso ai nuovi vaccini: si ragiona sempre degli over 60 e dei vulnerabili. Si dovrebbe partire da loro per poi allargare la platea ad altre categorie. Fin qui le procedure che dovrebbero assicurare l’arrivo anche in italia delle prime fiale dei nuovi vaccini - fanno sapere fonti ben informate all’Ema - già entro fine settembre e quindi a urne appena chiuse. Ma la macchina dovrà partire prima e quindi dopo la mezza tregua estiva - da ferragosto contagi, ricoveri e morti sono in calo - il Covid tornerà già nei prossimi giorni sotto i riflettori dopo essere rimasto quasi totalmente assente dalla campagna elettorale, se si esclude il tema della mascherina a scuola dove non sarà più obbligatoria indossarla al rientro degli studenti a metà settembre. Se la messa in moto della macchina organizzativa della nuova campagna vaccinale, dopo il flop della quarta dose, spetterà alla task force a Palazzo Chigi guidata dal generale Tommaso Petroni la politica dovrà in ogni caso intervenire per fornire indicazioni chiare e supporto anche economico anche se si punterà di meno sugli hub in favore di medici e farmacie. A scaldare il dibattito saranno anche le nuove regole sull’isolamento domiciliare dei positivi asintomatici che potrebbero essere cambiate già tra oggi e domani. Ieri si è riunito il Consiglio superiore della Sanità per dare il suo parere sulla nuova quarantena “light” e dopo questo parere il ministero della Salute dovrebbe emanare l’attesa circolare. In pratica sulla scia di quanto già deciso in altri Paesi ci dovrebbe essere una riduzione a 5 giorni (dai 7 attuali) se si risulta senza sintomi da almeno 48 ore e si può produrre un test negativo. Anche se c’è chi spinge per chiedere direttamente anche l'abolizione del test come accade in altri Paesi a partire dagli Usa: in pratica se non si hanno sintomi si esce di casa magari con l'accortezza di indossare la Ffp2. Per i casi di positività lunga invece si punterebbe a concludere l'isolamento al massimo dopo 10 o 15 giorni. 

Bolletta da 800mila euro contro i 50mila del 2021

 

«Oltre agli aumenti della materia prima, di cui ci aspettiamo un rialzo dal 1° settembre, affrontiamo i costi proibitivi dell’energia. I valori delle bollette di luglio sono già vecchi: a settembre probabilmente raddoppieranno a giudicare dai prezzi odierni. Mi ritroverò a dover pagare circa 800mila euro contro i 400mila di luglio e i 50mila medi mensili dello scorso anno». A parlare è Carlo Borioni, presidente della Goter di Mosciano Sant’Angelo (Teramo) che produce gomme termoplastiche. «È appena arrivato un conguaglio sulla bolletta di luglio: 160mila euro in più. La situazione non è sostenibile ed è impossibile riversare, anche in parte, questi prezzi sui clienti. Inutile oggi fare campagna elettorale. C’è un’emergenza nazionale e vanno prese decisioni forti immediate».  

Allarme della chimica: «Produzioni a rischio per i costi dell’energia»

 

«Molte imprese si trovano a dover ridurre i livelli di produzione e per alcuni settori si fa sempre più consistente l’ipotesi di un’interruzione, con effetti nefasti sul settore manifatturiero, data la posizione prominente della chimica per quasi tutte le filiere. Abbiamo parecchi segnali, soprattutto da aziende che hanno produzioni di chimica di base, quali ammoniaca, acido solforico, cloro soda, o che usano molta energia, come i gas tecnici, i fertilizzanti, abrasivi, e colorifici ceramici. Per molti operare in queste condizioni significa non arrivare nemmeno alla copertura dei costi variabili: questo vuol dire che bisogna fermare gli impianti». Se a dirlo è il presidente di Federchimica, Paolo Lamberti, allora significa che in questa rentrée ci stiamo avvicinando a un punto di non ritorno e servono interventi urgenti. Il nostro paese è il terzo produttore chimico in Europa, con una quota del 10%, e il decimo nel mondo, con un valore della produzione di 56 miliardi. Il settore, molto impegnato sulla transizione ecologica, ha da sempre un ruolo anticipatore nelle tendenze e nelle dinamiche della manifattura perché «è un’infrastruttura tecnologica - continua Lamberti -. Oltre il 70% dei prodotti chimici viene infatti impiegato in tutti i settori industriali e nelle costruzioni, ma il suo utilizzo é rilevante anche nei servizi, così come nei consumi finali. Quasi tutte le filiere risentirebbero pesantemente di una frenata della chimica, dettata da costi insostenibili dell’energia o dal razionamento dell’offerta». Il presidente di Federchimica si affida ancora a due esempi per spiegare: «Il 10% circa dei prodotti chimici é destinato alla filiera agroalimentare ed è fondamentale per garantire condizioni adeguate in termini di resa, qualità e conservazione degli alimenti. La situazione drammatica di carenza di mascherine e vaccini, vissuta nella prima fase dell’emergenza Covid, rischia di ripetersi coinvolgendo molteplici applicazioni». Tutto questo per dire che «il problema dell’industria italiana, come ha rappresentato il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, è un problema di sicurezza nazionale, e la chimica, stando a monte, dà un grosso contributo nel mettere in sicurezza il sistema», sottolinea Lamberti. La necessità di certezze, vitali per l’industria, in questo settore emerge anche nelle relazioni industriali, come mostra il rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro chiuso in anticipo sulla scadenza: da un lato ha dato garanzie alle imprese, dall’altro ai lavoratori che lo hanno approvato con il 93% di consensi. Nonostante questi sforzi, la rentrée, quest’anno, coglie tutti in una situazione in cui «il conflitto ucraino ha fortemente esacerbato una tendenza preesistente al rincaro delle quotazioni del petrolio e, in una misura senza precedenti, del gas naturale, con rilevanti ripercussioni anche sull’energia elettrica. Mentre le quotazioni del petrolio sono analoghe in tutto il mondo, le tensioni sul gas naturale si concentrano in Europa», interpreta Lamberti. La crisi energetica ha un impatto duplice sull’industria chimica perché i combustibili fossili, come petrolio e gas naturale, rappresentano non solo fonti energetiche, ma anche materie prime per produzioni di base e intermedi. «La  chimica è il primo settore industriale per consumo di gas e il secondo per consumo di energia elettrica - sottolinea Lamberti -. Prima dell’attuale shock energetico, considerando anche l’impiego come materia prima, il costo dell’energia aveva un’incidenza sul valore della produzione pari all’11%, la più elevata nel panorama industriale». Si tratta di un dato su cui oggi pesa l’effetto moltiplicatore del costo del gas, con punte molto più elevate in alcune produzioni. Incidenza ben al di sopra del 2% sui costi sul fatturato, indicata come soglia dai decreti energivori. Secondo la lettura del presidente di Federchimica va rilevato che questa crisi del gas ha una natura asimmetrica: «L’Europa soffre nei confronti degli Stati Uniti e del Medio Oriente ma anche all’interno della stessa Europa c’è disomogeneità: paesi come Germania e Italia sono più colpiti perché fortemente dipendenti dall’importazione del gas, mentre ad esempio la Francia, che ha fatto scelte diverse in passato, o la Spagna, che ha i rigassificatori, sono più competitivi». Non si deve poi trascurare che oltre il 60% del fatturato dell’industria chimica è generato dall’export con quote, in diversi casi, anche più elevate e questo genera ricadute negative sui mercati di sbocco ma anche sulle importazioni. L’Europa è un’area di trasformazione di materie prime di cui non ha la disponibilità: in questo contesto diventa fondamentale accedere alle risorse in modo sicuro, economico e con continuità. Da europeista convinto, Lamberti dice che è necessario uno sforzo dell’Europa, come avvenne all’epoca dei vaccini, perché ne va della competitività del continente. E vanno ripensate alcune scelte. «È stato chiaramente un errore aver attribuito alla piattaforma TTF di Amsterdam il ruolo di indicatore determinante per il funzionamento di tutto il mercato del gas europeo. Solo fino a pochissimi anni fa, tale ruolo era affidato al molto più solido e trasparente parametro rappresentato dalla media globale del prezzo del petrolio», dice il presidente di Federchimica. A questo punto, aggiunge, «servirebbe un piano di riduzione dei consumi di gas, che avrebbe lo scopo di calmierare questa escalation di prezzi. Inoltre, è indispensabile mantenere un approccio coordinato a livello europeo, con riferimento in particolare al price cap. Sarebbe necessaria una dichiarazione nazionale di adeguato livello di emergenza, come anche richiesto dal Presidente Bonomi». 

Farmaceutica, l’aumento costi del 35% frena l’industria

 



«Con la fiammata dei prezzi a luglio e agosto, gli aumenti del gas arrivano a circa +600% rispetto a un anno fa, in linea con quanto sta avvenendo in tutti i settori». Farmindustria lancia un vero e proprio allarme sulle produzioni che potrebbe portare a una carenza di farmaci oltre che a difficoltà per le aziende e il presidente Marcello Cattani descrive il mix di criticità che il settore sta scontando: dai costi dell’energia alle materie prime. E per questo invoca «una moratoria sulla riduzione dei prezzi dei medicinali» e ribadisce il “no” alla revisione dei prontuari farmaceutici, mentre chiede più risorse per la salute. Tutti i settori della filiera farmaceutica, stanno infatti assorbendo parte importante degli aumenti dei costi, ma non integralmente. Quindi la crisi energetica determina anche effetti indiretti aggiuntivi per le aziende farmaceutiche, con incrementi dei prezzi di tutti i fattori della produzione che vanno dai materiali, agli imballaggi, alle manutenzioni degli impianti, dove, in media, c’è stato un incremento del +35% nel primo semestre 2022. Su questi aumenti si innesta «la specificità della farmaceutica per la quale è impossibile trasferire, nemmeno in parte, gli aumenti dei costi sui prezzi finali dei farmaci con prescrizione, che sono amministrati e negoziati», dice Cattani. A questo proposito i dati Istat parlano chiaro: nel primo semestre i prezzi alla produzione nell’industria manifatturiera nel suo complesso sono cresciuti del 40% e la farmaceutica è l’unico settore che registra 0%. Nei prossimi giorni è attesa la pubblicazione del dato di luglio che dovrebbe confermare questa tendenza. A fronte di un’inflazione a luglio pari all’8%, i prezzi al consumo dei farmaci con prescrizione sono scesi dell’1%, per effetto di scadenze di brevetto e rinegoziazioni, che coinvolgono anche quelli acquistati direttamente dal SSN. Il confronto con gli altri paesi europei dà la misura della gravità della situazione. Come mostrano dati di Confindustria, l’impatto in altri paesi competitor è più ridotto, soprattutto in Francia dove è quasi la metà, ma anche in Germania,, dati i più alti costi dell’energia in Italia. Farmindustria, oltre ai fortissimi aumenti dei costi, segnala in circa l’80% dei casi difficoltà anche sugli approvvigionamenti, che hanno portato già a registrare carenze dei fattori della produzione, ancora più probabili con gli ulteriori aumenti. In questa situazione è forte la preoccupazione di poter mantenere la continuità operativa, sia per le difficoltà riscontrate direttamente sia per quelle dei fornitori che potrebbero essere costretti ad interrompere l’attività. A questo punto la priorità diventa “mettere in sicurezza” il sistema industriale, evitando riduzioni dei prezzi e con il massimo impegno per l’attrattività del sistema. 

Imporre il prezzo del gas alla Russia: le scemenze di Draghi


 

Bollette, per famiglie e imprese tsunami tra un anno

 

Lo tsunami vero e proprio sulle bollette di imprese e famiglie italiane europee è atteso entro un anno o poco più. Se interventi a livello comunitario non riusciranno a fermare la corsa al rialzo dei prezzi del gas, il rischio che i rincari del costo dell’energia elettrica diventino ingestibili per tutte le imprese e le famiglie è altissimo. Oggi subiscono l’impatto delle oscillazioni i soggetti che hanno contratti indicizzati alla variazione del prezzo (sul mercato italiano del gas Psv, che tratta a premio rispetto al mercato Ttf di Amsterdam per attirare le importazioni del metano). Questi sono i clienti che si avvalgono della tariffa in maggior tutela e le imprese come le energivore, che tendenzialmente hanno sempre privilegiato i contratti a prezzo variabile. La questione è che c’è una fascia ampia di famiglie e di imprese che hanno invece a contratti a un prezzo fisso molto più basso rispetto alle quotazioni di mercato e che, in linea di massima, andranno in scadenza entro un anno e mezzo. La situazione sul mercato oggi è tale che di fatto la gran parte dei venditori di gas ha smesso di operare e di certo quasi nessuno è disposto a rinnovare i contratti a prezzo fisso. Quindi se non interverranno novità entro 12-14 mesi non ci sarà più nessuno al riparo dalle forti oscillazioni. La ragione della forte tensione è dovuta a una sorta di avvitamento della domanda di gas che sta avvenendo in Europa. L’origine è la manipolazione sulle forniture messa in atto da mesi dalla Mosca: ormai stabilmente su un consumo medio di 450 miliardi di metri cubi di gas all’anno della Ue, di cui 150 miliardi provenienti dalla Russia, ne viene a mancare una quota tra 50 e 100 miliardi. Questi tagli hanno scatenato una serie di reazioni: chi non trova il gas e deve onorare contratti perché lo ha già venduto, compra a qualsiasi prezzo. La corsa a riempire gli stoccaggi a sua volta alimenta ulteriormente la domanda. E poi c’è un terzo fenomeno degli ultimi mesi, chiamato dai tecnici come problema di marginazione, che rischia ora di far saltare diversi operatori paradossalmente soprattutto se venisse trovato l’accordo sul prezzo al tetto del gas europeo. Intesa che sarebbe un successo epocale se fosse raggiunta, ma che rischia di arrivare in zona Cesarini. E che comunque, una volta che la domanda si è gonfiata a dismisura, non metterebbe più nemmeno al riparo dal rischio di ricorrere ai razionamenti. Ma facciamo un passo indietro e proviamo a spiegare la “marginazione”. Il termine deriva  dalle“margin call”, che stanno a indicare le garanzie chieste da chi gestisce le Borse del gas, non solo il Ttf ma tutti i mercati nazionali del gas. I contratti take or pay prevedono che l’operatore compri gas indicizzato al petrolio o all’Henry Hub, che è il maggiore indice per il Gnl (gas liquefatto); questo gas per essere venduto nei mercati europei deve seguire i prezzi del Ttf. Poiché i venditori di gas si muovono con ampio anticipo rispetto alla consegna, in questa fase molti di essi si trovano ad aver “ipotecato” la compravendita tre anni fa, magari al prezzo di 40 o 50 euro a megawattora. Arrivano quindi a trovarsi in una fase come quella di questi giorni, con prezzi correnti di 300 euro a megawattora (ieri sul Ttf la quotazione ha chiuso in calo del 17% a a 282 euro a megawattora sulla scia dei segnali di apertura al price cap sul gas arrivati dalla Germania). Quello che accade è che le Borse chiedono agli operatori di anticipare cash ogni giorno il differenziale tra il valore fissato nel contratto e i prezzi di mercato, questo per garantire che al momento del settlement dei contratti essi vadano a buon fine. Va da sé che l’operatore dalle spalle forti in termini finanziari regge, i piccoli invece rischiano di saltare. In molti casi questi ultimi sono stati costretti a chiudere i contratti e a concretizzare la perdita ricomprando il gas ai prezzi di mercato per onorare gli impegni. Questo fenomeno sta a sua volta alimentando la domanda di gas facendo ulteriormente salire i prezzi. Se oggi fosse introdotto un tetto al prezzo del gas nella Ue esso funzionerebbe con un limite massimo ai prezzi delle contrattazioni nei mercati europei: non modificherebbe i contratti in essere, ma avrebbe effetti su essi perché molti sono indicizzati al Ttf (buona parte di quelli che trattano il gas che arriva attraverso il Tap in Italia dall’Azerbaijan, ad esempio, e probabilmente una buona metà dei contratti stipulati con la Russia). È chiaro che, per evitare che i fornitori di Gnl vadano a vendere altrove, i paesi Ue dovrebbero sovvenzionare per il gas liquefatto il differenziale tra il tetto e il prezzo di mercato. E ancora: il cap non risolverebbe la questione della forte domanda che resterebbe comunque inevasa e per questo motivo oggi si afferma che anche con il tetto europeo al prezzo del gas non si sfugge dai razionamenti. Più il tempo passa senza trovare una soluzione, più i razionamenti saranno consistenti. Peraltro un cap introdotto ora coglierebbe in mezzo al guardo quei venditori che hanno dovuto chiudere i contratti e ricomprare il gas a quotazioni stellari, con il rischio che molti di loro finiscano in default.

«Metà americani non vogliono pagare di più per l’U c ra i n a »

 

Donald Trump sta agitando anche la campagna elettorale per le elezioni di midterm, in programma negli Stati Uniti il 4 novembre. A tenere banco sono i documenti sequestrati dagli agenti dell’Fbi nella villa dell’ex presidente a Mar-a-Lago, in Florida. Perquisizione che Trump ritiene «illegale» e contro la quale ha fatto causa. Le carte sarebbero ritenute classificate, ma per poterle usare in u n’inchiesta a carico del magnate si dovrebbe nominare un «special master», figura indipendente che complicherebbe ancor di più la situazione. L’ex presidente non solo si è opposto al sequestro del materiale, ma ha chiesto la restituzione di quanto non pertinente rispetto al mandato: «La giustizia non può essere usata come arma a scopi politici». Cosa sta succedendo negli Stati Uniti, qual è lo stato di salute della più grande potenza economica e militare del pianeta? Ne parliamo con Irene Senfter, ricercatrice specializzata in politica interna ed estera statunitense. Le speranze di quanti p en sava no che Donald Trump fosse politicamente finito dopo la sconfitta elettorale sono andate deluse perché il tycoon sembra voler davvero tentare la carta della rielezione alla presidenza. Ci crede davvero, oppure sta provando a vedere fino a che punto puo’ forzare la mano con l’Fbi ? «Le perquisizioni di Mar-a-Lago hanno senz’altro confermato nei seguaci di Trump la loro convinzione che lo “Stato profondo” abbi a “r ubato” la presidenza al loro idolo. D al l ’altro canto, sembra difficile che il Dipartimento di giustizia porterà alla denuncia di Trump per evitare di influenzare il processo elettorale. Trump ora è incentivato a dichiarare la sua candidatura già da ora». Perché secondo lei Trump si è portato a casa documenti classificati ? «Al momento non ci è dato saperlo. La mia sensazione è che sia un comportamento tutto sommato congruo con la sua abitudine di confondere il pubblico, il privato e gli affari. In linea, ad esempio, con l’affidamento di incarichi istituzionali a sua figlia Ivanka e al genero Jared». Alle elezioni di medio termine molti prevedono una batosta per i democratici. Crede anche lei ch e siano condannati alla sconfitta? E cosa accadrà in questo caso? «Le prospettive non sono rosee: il partito storicamente perde alle elezioni di medio termine in quanto tendenzialmente meno persone partecipano al voto. Sin dall’i n i z io d e ll ’anno, l’approvazione degli americani per l’operato del presidente Biden è stata molto bassa, intorno al 40%. Comunque, qualche segnale positivo per i democratici c’è, e l’“ondata rossa” p otrebb e forse essere evitata. Dopo la sentenza della Corte suprema in merito al diritto d’aborto, il sondaggio F iveth i rtyei g ht’s tracker dimostra progressi importanti per i democratici. Comunque, se i democratici perdessero entrambe le Camere, l’implementazione dell’agenda di Biden diventerebbe molto difficile: dovrebbe governare per decreto, ma questi decreti possono essere attaccati sia dai giudici sia da una prossima amministrazione repubblicana. Un esempio concreto sono le politiche ambientali: che incentivo hanno gli altri Paesi a portare avanti i loro progetti di riduzione dell’energia fossile, se non si possono fidare che gli Stati Uniti, uno dei maggiori inquinatori, si attengano agli obiettivi prefissati?». Che voto dà all’amministrazio - ne Biden fin qui in politica intern a? « L’amministrazione Biden è partita con un’agenda molto ambiziosa su infrastrutture, salute pubblica, cambiamento climatico, immigrazione. Dopo l’enorme provvedimento di stimolo all’economia nel pieno dell’epidemia, è però riuscita a portare a casa poco a causa di alcuni senatori democratici restii a votare certi atti proposti dal loro partito. Nelle ultime settimane, comunque, Biden ha annoverato qualche successo legislativo. Il Chips and science act prevede investimenti importanti per assicurare la leadership degli Stati Uniti nel campo dell’intelligenza artificiale e tecnologie connesse. Questo provvedimento presenta un grande potenziale in termini di sicurezza nazionale e capacità innovativa degli Stati Uniti. Personalmente spero che porti anche a un progresso reale nella ricerca nel campo delle tecnologie ambientali. È passato anche un provvedimento che, oltre a garantire sussidi alla salute pubblica e permettere di ridurre i prezzi dei farmaci, include iniziative molto consistenti sulla protezione dell’ambiente. Biden ha dunque fatto qualche progresso sulle promesse fatte in campagna elettorale. Comunque, gli ultimi dati Ipsos rivelano come l’inflazione e i prezzi dell’energia siano in cima alle preoccupazioni degli americani, influenzando dunque l’appro - vazione dell’operato di Biden. Come ha spiegato l’economista Paul Krugman sul New York Times, non è del tutto giustificato colpevolizzare il presidente per l’elevata inflazione in quanto la politica economica americana dispone di un margine di manovra limitato per agire sui prezzi mondiali dell’ener - gia. Inoltre, si parla poco della notevole crescita dell’o cc upaz ion e negli Stati Uniti post-pandemia». È d’accordo con chi ritiene che la politica estera dell’attuale amministrazione americana è sconcertante, specie in Medio Oriente? Pe n s o al ritiro dall’Afghanistan, i rapporti ambigui con i sauditi prima rinnegati e poi blanditi, la freddezza con Israele, senza parlare d el l ’accordo sul nucleare iraniano: ogni volta che alla casa Bianca ci sono i dem ritorna in auge salvo non essere mai siglato per volontà degli ayatollah. «Le esperienze recenti in Afghanistan e in Ucraina pongono un quesito di ricerca interessante: come possiamo studiare la volontà di combattere e difendersi degli eserciti alleati? L’accordo di Ginevra era importante per la realizzazione degli obiettivi di non proliferazione delle armi nucleari, con grandi vantaggi anche in termini di raccolta di intelligence grazie alle ampie ispezioni garantite dal protocollo. Nella situazione internazionale odierna non sembrano esserci le condizioni per un accordo. Più in generale, trovo utile leggere la politica estera americana con una lente neorealista nella tradizione di grandi studiosi come Kenneth Waltz e John J. Mearsheimer: finché il sistema internazionale è caratterizzato da anarchia, non dispone dunque di un “governo mond i a l e”, i grandi stati agiscono in base alla pressione di primeggiare la propria sicurezza nazionale nella politica estera. Per questo devono contrastare le ambizioni di egemonia regionale dei Paesi rivali. Questo meccanismo sta alla base, ad esempio, della “competizione strateg ic a” con la Cina. Biden ha forse sottovalutato le intenzioni revisioniste della Russia di Putin, e la possibilità reale di un crescente allineamento strategico tra il Cremlino e la leadership cinese. Queste intenzioni revisioniste russe dovrebbero spingere gli Stati Uniti e la Nato a rivedere anche le loro strategie di sicurezza nell’A rt ic o, l’altro teatro di grande rinnovata rilevanza geopolitica». Lei si immagina la prossima campagna elettorale per le presidenziali con Donald Trump per i repubblicani e Joe Biden per i democratici, oppure ci possiamo aspettare qualcosa di diverso? E che peso avrà Trump sul voto nel caso non fosse della partita? «Una battaglia elettorale tra Trump e Biden a questo punto sembra altamente probabile. Si specula su una possibile sostituzione di Biden con la vicepresidente Harris per motivi di anzianità, ma al momento questa ipotesi non sembra fondata. Dal lato repubblicano, il governatore del Florida Ron DeSantis potrebbe entrare in campo, ma è da vedere come si giocherà la partita con Trump, di cui è grande sostenitore. Negli ultimi giorni si parla anche di una possibile candidatura di Liz Cheney, una delle poche figure repubblicane a contrastare Trump apertamente mettendosi alla guida della commissione di investigazione degli eventi del 6 gennaio a Capitol Hill. Del resto, Trump sta già esercitando il suo peso nella campagna elettorale. Tanti candidati da lui promossi hanno vinto le primarie ed è rilevante come il partito repubblicano abbia candidato tanti fedeli di Trump come responsabili per amministrare e certificare il processo elettorale negli stati federa l i . Che cosa ha lasciato nella società americana l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021? Èuna ferita ancora aperta? « Tutt’ora pochi repubblicani, solo il 19% secondo un sondaggio recente dell’università del Massachussetts, credono che Biden sia il presidente legittimo degli Stati Uniti. Inoltre, più della metà dei repubblicani è convinto che l’estrema sinistra sia stata dietro all’assalto a Capitol Hill secondo un sondaggio recente Reuters/Ipsos. Trump è ancora il loro leader indiscusso, e sono pochissimi i politici repubblicani che criticano le sue azioni apertamente. Dall’altro lato, molti democratici sono preoccupati per una minaccia reale alle istituzioni democratiche del loro Paese in una seconda amministrazione Trump. Come ha ribadito il settimanale Ec o n o m i st , la disponibilità di Biden di dare spazio a progetti e idee di sinistra, soprattutto in campagna elettorale, non ha aiutato a ridurre le divisioni». Qual è il giudizio del popolo americano sull’invio di armi all’Ucraina? In Europa, e in Italia in particolare, il tema è oggetto di grande dibattito. «Gli ultimi dati Ipsos rilevano un quadro misto, ma tra gli americani sembra prevalere l’idea che il Cremlino debba essere punito per le sue azioni, sia militarmente sia attraverso sanzioni. L’82% degli elettori democratici e il 67% degli elettori repubblicani pensa che Putin debba essere fermato per evitare ulteriori aggressioni militari russe in Europa e in Asia. Comunque, solo appena più della metà degli americani crede che valga la pena pagare di più per l’energia per difendere la sovranità di un altro Paese. La fornitura di armi all’Ucraina è promossa dal 60% degli elettori democratici, e dal 53% degli elettori repubb l ic a n i » .



La vera Mission impossible: trovare un medico

 

Sono quasi 20.000 i medici che mancano all’Ital i a (specie nei pronto soccorso) dopo anni passati a parlare della necessità di investimenti. Nostro viaggio negli ospedali: tra risorse tagliate, condizioni di lavoro sfibranti anche per motivi di sicurezze e mancanza di lungimiranza nella formazione. Parlano medici, chirurghi e sindacalisti di una professione ormai a rischio.AAA Cercasi dottore disperatamente. La salute non va in vacanza ma mai come in questa estate ammalarsi è un problema. La mancanza di medici non è una novità ma ora si sono sommati i buchi creati dai pensionamenti e dalle assenze per smaltire le ferie accumulate durante l’emergenza pandemica. Un corto circuito innescato dal ritorno in massa dei pazienti dopo due anni di cure con il contagocce. E si è arrivati al paradosso di importare medici dall’estero. Dall’Uc ra i n a ne sono arrivati 250 e altri 100 dall’Albania. Ma il caso più eclatante è il reclutamento, deciso dal presidente della regione Calabria, Roberto Occhiuto, di 500 camici bianchi provenienti da Cuba. Il governatore di centrodestra ha spiegato che diversi bandi di concorso a tempo indeterminato sono andati deserti, tesi però smentita da associazioni sindacali e personale medico che non avrebbero mai saputo di esami per il reclutamento. Come mai, appena si sono aperte le porte del pensionamento, tanti medici hanno colto la palla al balzo per andarsene? Come mai un posto in ospedale, specie al Sud, è precipitato nelle aspirazioni di un giovane laureato? E quanto ha inciso la selvaggia «spending review» degli ultimi dieci anni che ha tagliato i posti nelle specializzazioni? L’Anaao Assomed, il sindacato dei medici ospedalieri, ha calcolato che tra ospedali, pronto soccorso e medici di famiglia, mancano circa 18.500 camici bianchi. La situazione più critica, è quella dei pronto soccorso dove, alle emergenze quotidiane, si aggiunge l’esercito dei malati che non potendo rinviare ancora le cure, dopo lo stop del Covid, bussano agli ospedali per essere assistiti. E non possono permettersi uno specialista p r ivato. Gli ospedali sono entrati in affanno e il sovraffollamento ha coinciso con l’esodo dei medici. Secondo Anaao Assomed, ne mancano circa 4.500. Ma l’allarme riguarda in generale gli ospedali: sono 10.000 i posti vacanti. Gli organici ridotti all’osso costringono a turni massacranti, ad accumulare ferie che prima o poi andranno smaltite creando ulteriori vuoti. In sofferenza anche il servizio delle ambulanze dove i camici bianchi si sono ridotti del 50% negli ultimi dieci anni. La legge di bilancio ha stanziato 90 milioni per una indennità accessoria, ma è come una goccia nel deserto. Si è anche assottigliato il numero dei medici di famiglia, il primo snodo di assistenza del servizio sanitario, che fino a qualche anno fa era un vanto della sanità italiana rispetto al resto d’Eu - ropa. Si contano circa 4.000 sedi vacanti su una categoria che ne conta complessivamente 40.000. Il fabbisogno riguarda sia piccoli centri montani e delle campagne, ma anche grandi città come Milano e Firenze. In alcune regioni, specie nel Nord, sono stati richiamati in servizio i pensionati. Per tamponare la situazione, i pazienti sono dirottati in studi che hanno raggiunto il massimo della capienza consentita per legge, cioè 1.500 assistiti. Il problema non è la carenza di laureati in medicina: nei prossimi 10 anni, le università ne sforneranno circa 100.000, un numero più che sufficiente per le esigenze di turn over. Mancano invece gli specialisti, quelli che lavorano negli ospedali e in molte strutture del territorio. Una ricerca Eurostat dell’agosto 2020 evidenzia che l’Italia è il secondo Paese con più medici nella Ue: circa 240.000 su 1,7 milioni registrati nella Ue, dietro solo alla Germania che ne ha 357.000, il 21,1% del totale, e davanti alla Francia con 212.000. Ci sono 3,1 medici ogni 1.000 abitanti secondo l’Istat, il che ci colloca nella media europea. Tuttavia, il numero di medici disponibili non si riflette negli organici della sanità pubblica. Gli ultimi dati del ministero della Salute (2017) sui camici bianchi nel Servizio sanitario nazionale indicano 1,7 medici ogni 1.000 abitanti. Essi scarseggiano perché, a partire dal governo Monti, la sanità ha subito pesanti tagli che hanno colpito in particolare le borse di specializzazione. Va considerato anche che, come stima l’Anaao, solo il 66% degli specialisti sceglie il servizio pubblico, i restanti lavorano nella sanità privata o scelgono la libera professione. Un’opzione che consente di esercitare sia negli ospedali sia nelle cliniche, senza vincoli di esclusiva.Altro elemento è che alcune specializzazioni come la medicina d’urgenza non esercitano grande appeal sui laureati che preferiscono settori meno stressanti e più remunerat iv i . Qualcosa è stato fatto per colmare i buchi negli organici ospedalieri. I contratti di formazione sono stati portati da 4.500 a 15.000, però produrranno effetti a lungo andare. Formare uno specialista richiede 4-5 anni e occorre quindi scontare un periodo in cui le strutture continueranno a essere in emergenza. Secondo Anaao, i circa 10.000 medici che oggi mancano all’appello negli ospedali saranno verosimilmente recuperati tra il 2024 e il 2028, quando entreranno nel sistema sanitario coloro che quest’anno iniziano la s p e c i a l i z za z io n e. Oltre a pensionamenti, turni stressanti e remunerazione considerata bassa in relazione all’impegno, recentemente è emerso un ultimo fattore che rende meno attrattivo il lavoro in ospedale: l’aumento delle aggressioni. Nella città metropolitana di Milano, da gennaio a maggio, sono stati denunciati 116 casi di attacchi al personale a fronte di 122 in tutto il 2021. Minacce e intimidazioni sono più che raddoppiate: da 22 casi lo scorso anno a 45 nei primi cinque mesi del 2022. Il fenomeno è generalizzato. Secondo la Fnopi (la federazione degli infermieri), le aggressioni fisiche colpiscono in media in un anno un terzo degli infermieri: circa 130.000 casi con un sommerso non denunciato all’Inail stimato in circa 125.000 casi l’a n n o.

«Chi fa le verifiche non ha metodo e spesso è di parte»

 

«Chi svolge attività di fact checking ha una responsabilità sempre più grande, anche rispetto a chi divulga fake news, sia in termini di etica professionale verso la notizia, sia in termini di capacità professionali». Michele Zizza, docente di culture digitali all’universi - tà degli studi della Tuscia, non ci gira troppo intorno. E alla Verità spiega perché sul debunking, l’attività che cerca di smascherare le bufale, l’Italia è ancora molto indietro: «Non esiste un metodo scientifico», afferma Zizza. E ognuno si arrangia come può. Spesso, però, per via di verifiche superficiali o addirittura orientate ideologicamente o da interessi, queste strutture che si ergono a paladine dell’informazione forniscono un pessimo servizio, censurando notizie che non hanno nulla a che vedere con le fake news. In tempi non sospetti, ovvero prima della pandemia e del conflitto in Ucraina, Luca Ricolfi in una sua analisi sul sito della Fondazione Hume, aveva già descritto come dei «dilettanti» gli sbufalatori: «La prima cosa che colpisce», valutava Ricolfi, «è la mancanza di competenze specifiche, pertinenti e soprattutto riconosciute, di molti autori di spietate “ve r i f ic h e”delle affermazioni altrui. Ma l’a s p etto più interessante è che non di rado gli esperti, ovvero coloro che hanno una riconosciuta competenza o esperienza riguardo all’argomento di cui si parla, risultano ancora meno affidabili dei d i l etta nt i » . Nonostante ciò l’atti - vità dei fact checker è diventata di moda. Spuntano siti come funghi. «In Italia ci sono dei siti specializzati che si occupano di debunking ma dal mondo del giornalismo arriva ancora molto poco e, seppur se ne parli, non si vogliono realmente adottare strumenti per contrastare le bufale e rafforzare la cultura che vuole intervenire sul fenomeno». C’è chi si è dato delle regole e chi si è affidato a protocolli. «Il lavoro è meticoloso e richiede tempo e per questo non bisogna mai cadere nella trappola della celerità per far chiarezza su una notizia. Basta guardare agli due ultimi eventi, di portata mondiale, che stiamo vivendo: la pandemia da Covid e il conflitto in Ucraina. Entrambi sono caratterizzati da un aspetto che ha inciso su ll ’evoluzione dei processi della comunicazione». Ma c’è qualche metodo che possiamo definire scientifico nel settore del fact checking? «Guardando ad esempio al Covid ci rendiamo conto che la straordinarietà del fenomeno pandemico ha colto impreparate le istituzioni e il mondo de ll’informazione e della comunicazione. La disponibilità di nuovi mezzi di informazione, tecnologie e paradigmi, ha permesso di generare un flusso di notizie e dati senza precedenti. Ci sono ricerche scientifiche e molte di queste sono infatti partite dalla raccolta e classificazione di notizie sul Covid-19 generate da istituzioni e organi di informazione su determinate piattaforme social e sul Web. Il fine è stato anche quello di evidenziare, da questa mole di notizie, quelle false e studiarne il percorso». Quindi è ancora tutto in divenire? Non si può prendere per oro colato l’attività di debu n k i n g? «Come dicevo, oggi più di ieri vi è una sovrabbondanza di fake news perché vi sono più media e digital media e i cittadini, attraverso i device, non sono solo fruitori delle informazioni ma hanno anche la capacità di modificare e condividere un contenuto-notizia. Difatti il giornalismo, fatto di codici e vincoli, è chiamato a un nuovo ruolo nella società iperconnessa e per questo ha il dovere di garantire ai lettori un servizio attendibile e pronto a far luce sulle fake. Ci sarebbe tanto da scrivere e discutere sulle strade percorribili per far fronte al fenomeno; un fenomeno che si può contrastare per abbassare l’i nc id en za ma non si può certo sconfiggere » . Anche all’estero si trovano nella stessa situazione? O hanno fatto dei passi avanti rispetto al panorama italiano? «Il grande insegnamento, nel mondo della stampa, ci arriva dalla scuola americana che ci permette di osservare una nuova logica all’i nte r n o delle redazioni. Ogni struttura ha uffici dedicati alle attività di fact checking e questo garantisce un servizio di maggiore qualità. Addirittura gli utenti possono segnalare direttamente la notizia falsa e questa, dopo la valutazione, viene resa pubb l ic a » . In Italia c’è Open, di Enrico Mentana. Il mondo accademico che si occupa di comunicazione e di informazione come valuta l’operato sul fact check i n g? «In Italia bisogna riconoscere un certo impegno affrontato dalla testata Open online e, nello specifico, dal giornalista David Puente. Ovviamente anche questa testata è scivolata qualche volta. Ma è davvero difficile, stando anche sul campo, prendiamo per esempio il conflitto in Ucraina e la mole di informazioni che ha prodotto, capire quale sia la notizia vera e quella falsa. Mi viene in mente il detto “solo chi non fa non sba g l i a”». C’è ancora molto da fare insomma. «Ritengo che anche le altre testate debbano integrare un servizio di debunking all’interno dei propri uffici e seguire il modello statunitense». Un modello che ancora non è stato applicato in Ita l i a? «Attualmente non esiste una metodologia scientifica e ognuno si organizza come crede per risalire alla verità della notizia. Sicuramente è importante rafforzare l’esercito di coloro che operano contro le bufale e quindi anche nel giornalismo, attraverso le organizzazioni di categoria, devono aumentare le ore di formazione e devono essere forniti strumenti per certificare la fonte e la notizia. Penso a badge, Qr code, firma digitale». Non c’è un modo per educare lettori, telespettatori e fruitori di social a districarsi senza aspettare che il fact checker di turno, che come abbiamo visto non applica un metodo scientifico, dia una patente molto approssimata a una notizia? «Altro passo fondamentale è divulgare, in tutte le scuole di ogni ordine e grado, la cultura d el l’informazione. Tutto ciò non garantisce il superamento del fenomeno ma, sicuramente, aiuta ad abbassare l’in cidenza del problema».

Sugli sbarchi siamo al liberi tutti Ora Lampedusa è fuori controllo

 

 Alla faccia delle rassicurazioni della Lamorgese, sugli sbarchi siamo al liberi tutti. Ieri a Lampedusa sono arrivati altri 263 stranieri. L’isola potrebbe accoglierne 350, ma ormai sono 1.589. E il sindaco M5s di Pantelleria si ribella. I 46 sbarchi di sabato, per un totale di oltre 1.000 approdati, hanno solo sfoltito la scia di barchini partiti dalla Tunisia per Lampedusa. Ieri, in barba ai proclami post viaggetti a Tunisi del ministro dell’Interno, Luc i an a L am o rges e, e del ministro degli Esteri, Lu i g i DiM a io, ne sono arrivati altri 12, con 263 passeggeri. I porti di partenza sono Djerba e Boughrara. E se le unità della Guardia costiera tunisina venerdì, come riporta l’agen - zia di stampa Tap citando una fonte regionale della Guardia nazionale, non avessero sventato al largo di Mahdia, Sfax e Kerkennah, altri 23 tentativi di «emigrazione irregolare», in mare ci sarebbero ancora altri 530 «migranti irregolari». Sono approdati a Lampedusa anche i 50 passeggeri del taxi del mare Nadir, autorizzato ad attraccare, poco dopo la mezzanotte di sabato al porto commerciale dell’isola. Ma una vera e propria invasione si è registrata poco prima della mezzanotte, quando al largo, dopo le 36 barche approdate nel corso della giornata, ne sono arrivate in un colpo altre dieci, con 200 persone a bordo. In un’ora Guardia costiera e Guardia di finanza sono state costrette a un superlavoro per scortare tutti in porto in sicurezza. Solo un barchino, di quattro metri, con sette tunisini, è riuscito ad arrivare direttamente al molo. Ma ad accogliere il gruppetto c’era - no i carabinieri. Alla fine, nell’hotspot di contrada Imbriacola (capace di contenere 350 ospiti) la Prefettura di Agrigento ha stipato 1.589 persone. Fino a giovedì scorso, con il mare mosso e il forte vento che hanno impedito le partenze, nella struttura c’erano 340 ospiti. E ora la prefettura sta raschiando il barile per cercare qualche centro d’accoglienza in cui mandare almeno 200 persone, per alleggerire la struttura di contrada Imbriacola. È a Pantelleria, però, che si è andati davvero oltre. Dopo 20 sbarchi in 24 ore, nella piccola caserma Barone, adattata a centro di prima accoglienza, ci sono oltre 400 ospiti. Con la differenza, rispetto a Lampedusa, che la caserma Barone non è un hotspot e non c’è presenza di reparti inquadrati (Reparto mobile della polizia di Stato, Battaglione dei carabinieri, Pronto impiego della Guardia di finanza) a vigilare nella struttura. In questo momento è quindi una polveriera. E ora il sindaco pentastellato, V i n c e n zo C a m p o, che già a metà agosto, nell’indifferen - za più totale, aveva denunciato che la prefettura di Trapani e il Viminale «non erano in grado di garantire il trasferimento dei migranti in 24-48 ore», tuona: «La situazione è pesante. Abbiamo alcuni moduli abitativi che possono ospitare al massimo 100 migranti, ma nell’isola ce ne sono oltre 300. Chiedo, visto che si tratta di un’emergenza europea, una maggiore collaborazione con altri sindaci del Trapanese e siciliani per trovare una struttura che possa essere più idonea. Siamo in grande difficoltà e serve un intervento immediato». In 80 sono partiti ieri per Trapani. Ed è prevista una partenza di altri 90 per oggi. Ma la situazione rimarrà critica. Dal primo gennaio nella caserma Barone sono transitati 2.928 immigrati (2.555 in tutto il 2021). E anche in Sardegna non si fermano gli sbarchi. Nelle ultime 36 ore sono arrivati in 84, che si aggiungo agli altri 132 approdati il 26 e il 27 agosto. Attualmente nel centro di prima accoglienza di Monastir ci sono 216 ospiti. Mentre il taxi del mare Ocean Viking di Sos Mediterranée fa rotta verso l’Italia con i suoi 466 passeggeri. «In questo momento», comunicano dalla Ong, «la Ocean Viking attende l’asse - gnazione di un porto sicuro». E il pressing sul governo è appena cominciato.

lunedì 29 agosto 2022

Sull’energia Letta & C. non capiscono un tubo

 



 Un amico mi ha girato il link di una vecchia intervista di Enrico Letta al Corriere della S e ra . Vladimir Putin aveva da poco invaso l’Ucraina e l’Eu - ropa aveva appena varato misure ritorsive per costringere Mosca al dietrofront. Il titolo del colloquio, da solo, illustra meglio di qualsiasi articolo la miopia del segretario del Pd e l’assoluta incapacità di comprendere ciò che stava accadendo: «Le sanzioni porteranno l’ec on om ia russa al collasso». Come ha di recente chiarito l’Ec o n o m i st , e come a dire il vero fin dall’inizio della guerra avevamo previsto noi della Ve rità , i provvedimenti adottati dalla Ue non hanno causato il tracollo della Russia, ma si sono rivelati un boomerang, mettendo in seria difficoltà l’economia dei Paesi europei, che oggi infatti si trovano a fare i conti con il prezzo delle materie prime e, soprattutto, con quello dell’energia. Immaginare l’au m e n - to delle bollette causato dall’esplosione del prezzo del gas a causa della dipendenza da Mosca non era una previsione da Nostradamus: bastava avere un minimo di conoscenza della questione, che L etta e compagni hanno dimostrato di non avere. Il leader della sinistra non solo ha dato prova di non avere idea di quali leve potesse usare Puti n per ribaltare sulla Ue gli effetti delle sanzioni, ma ha anche reagito con estrema lentezza di fronte alle conseguenze pratiche delle decisioni che ha contribuito ad ad otta re. Il segretario del Pd tuttavia è in buona compagnia, perché gran parte della classe politica in questa faccenda si è comportata come lui, cioè in maniera ottusa. Giovedì sera, ad esempio, mi è capitato di ascoltare in tv l’i nte r - vento della ex grillina C a rl a Ruo c c o, già funzionaria dell’Agenzia delle entrate, divisione accertamento. Di lei mi erano note un paio di gaffe, la prima quando alla Camera confuse il Patto di stabilità con la Legge di stabilità, la seconda quando a Ignazio Visco chiese a bruciapelo dove si trovasse l’oro della Banca d’Italia e il governatore, sornione, le rispose che i lingotti erano custoditi nei caveaux di via Nazionale e nessuno se li era fregati. La manifesta inesperienza di questioni connesse al credito le è valsa la poltrona di presidente della Commissione banche, ruolo che l’altra sera l’ha abilitata ad esprimere pareri sullo spaventoso aumento delle bollette, in quanto esperta in materie economico-finanziarie. E che cosa ha detto l’ex grillina su un tema che angoscia milioni di famiglie e centinaia di migliaia di imprese? Che la colpa è di Silvio Berlusconi, perché si deve a lui se l’Italia dipende da Puti n per le forniture di gas. Ora, a prescindere dalla verità storica (il peso del metano russo è cresciuto negli anni in cui a Palazzo Chigi governava la sinistra) e da come se ne esce, il Cavaliere non è più presidente del Consiglio da 11 anni. Le sue dimissioni risalgono al 12 novembre di quell’anno e dal 27 novembre del 2013 non siede in Parlamento. Dopo di lui sono venuti Mario Monti, Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, G iu sep pe C o nte e, infine, Mario Draghi. Il buon senso, prima che l’onestà, induce dunque a dubitare che in 11 anni sei presidenti del Consiglio non siano stati in grado di dare una sterzata a una politica energetica sbilanciata verso la Russia. Ammesso e non concesso che B e rlu s c o n i avesse stretto alleanze con Vladimir Putinta - li da creare una dipendenza del nostro Paese, non solo il governo tecnico dell’ex rettore della Bocconi, ma anche quelli venuti dopo avrebbero potuto correggere il tiro. Soprattutto, una volta arrivati nella stanza dei bottoni, con Giuseppe Conte premier e Luigi Di Maio (che la Ruo c c o ha seguito in Impegno civico) ministro dello Sviluppo economico, che cosa hanno fatto i grillini ed ex grillini per evitare il disastro attuale? La risposta è semplice: niente. E niente continuano a fare. Anche la Ruo c c o, come Letta , è tuttavia in buona compagnia. Nella medesima trasmissione infatti c’era anche Paoletta De Micheli, ex ministro delle Infrastrutture nel Conte bis, che al grido di dolore di famiglie e imprese ha risposto dicendo che la soluzione del problema sta nel porre un tetto al prezzo del gas. Facile, no? Peccato che se ne discuta inutilmente da mesi e da mesi si proceda di rinvio in rinvio. Fino a venerdì, quando il metano è schizzato a 230 euro al chilowattora, l’argomento del price cap era all’ordine del giorno della riunione dei ministri dell’energia fissata per l’11 e il 12 ottobre. In pratica, per la De M ich el i gli italiani avrebbero dovuto attendere i comodi della politica comunitaria, soffrendo e pagando in silenzio fino a metà ottobre. Ora, dopo che le quotazioni hanno avuto una nuova fiammata, con il rischio di un nuovo aumento delle bollette e di veder fallire decine di migliaia di imprese, Bruxelles ha anticipato la riunione a metà settembre. Ma almeno per quella data una decisione verrà presa? Le premesse non fanno propendere per una soluzione positiva. A sentire gli esperti, da Alberto Clò a Pao - lo Scaroni, che certo in materia di energia ne sanno più della De Micheli, sarà molto difficile. Entrambi, infatti, hanno definito la proposta del price cap «irrealizzabile», in quanto gli interessi dei Paesi produttori e non della sola Russia confliggono con l’idea di calmierare sotto i 100 euro a chilowattora il prezzo del gas. Per non dire poi dei guadagni che gli olandesi, dove ha sede il principale mercato del metano, stanno realizzando in questo periodo e ai quali difficilmente saranno disposti a rinunciare. Tuttavia, a prescindere dalla fattibilità della proposta che De Micheli e compagni da mesi sventolano, c’è da chiedersi perché, di fronte all’aumento delle bollette, fino a oggi se ne siano stati con le mani in mano. Se la soluzione è uno stop agli aumenti, nazionale o europeo, perché quando il prezzo del gas è cominciato a crescere, cioè dalla fine dello scorso anno, non hanno adottato la facile soluzione che suggeriscono ora? La sinistra negli ultimi dieci anni è stata al governo per nove e tutt’ora è in maggioranza con ministri chiave ne ll ’esecutivo: dunque perché aspettare che imprese e famiglie siano alla canna del gas? La verità è che in tv e sui giornali gli imbonitori sono tanti. Soprattutto ora che la campagna elettorale incombe, rischiando di archiviare bruscamente molte carriere politiche. Se fossero in buona fede, chiederebbero subito misure urgenti e invece si accontentano di parlarne nei talk show.

«Il gas sarà razionato Dobbiamo riaprire le centrali a carbone»

 



Mi sa che voi esperti di energia rimarrete di moda parecchio a lungo, con i tempi che corrono… «Almeno finché non scoppia la pace!». Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, la Russia invade l’Ucraina. Gli esperti si dividono subito in due partiti. Gli ottimisti, quelli che «si può fare a meno della Russia e avanti con le sanzioni». I pessimisti come lei. Le secca avere ragione? «Contento fra virgolette. Sì, sono vanitoso, però mi dispiace non aver urlato più forte e mi intristisce ancor più avere interlocutori fuori dalla realtà. Quelli che “risol - viamo tutto con le rinnovabili”. Era una crisi imprevedibile. Ci abbiamo messo del nostro. L’ansia del cambiamento climatico è la madre di tutto. Dispiace non essermi spiegato bene. Dire “l’avevo detto” è sciocco». Sintesi del «Tabarelli pensiero»: l’ansia del cambiamento climatico ha indotto i produttori di gas e petrolio a ridurre gli investimenti sulla capacità produttiva. Il risultato è la scarsità dell’offer ta e i prezzi salgono. Giusto? «Esatto. Poi si è aggiunta la questione Russia. Le radici sono lontane, però. L’ambientalismo antindustriale a sinistra ha avuto il sopravvento sulla critica al sistema capitalistico in senso stretto tipica del vecchio partito comunista. Io ho avuto una piacevole discussione con un esponente dei Verdi pochi giorni fa. Vivono nel loro mondo. Enrico Letta è stato ministro dell’Industria nei primi anni Duemila. Ha firmato le prime direttive gas. Ma dopo 22 anni lo vedo poco attento alle questioni industriali. Da qui nasce anche la “d i s tra z io n e europ ea” espressa dalla von der Leyen e da Timmermans. Per non parlare degli ambientalisti al governo in Germania». Hanno anche un alleato in più. La grande finanza! «Che si è innamorata di questa bolla alimentata dalla “c e rtez za” che fra pochi mesi avremo l’ac qu a sopra il Colosseo a causa del cambiamento climatico. Ma se fosse vero ciò che dicono, noi dovremmo smettere. Da ieri». La narrazione è che tutto il mondo scientifico è d’accordo su questi temi. Ma non è vero. «Mi trovo a disagio se provo ad argomentare sulla complessità del problema. Sono tacciato di essere “di destra” e negazionista». La Germania sta peggio dell’Ita - lia quanto a energia? «Usa più gas in valore assoluto; su 90 miliardi di metri cubi di fabbisogno, 55 arrivano dalla Russia. La sua industria chimica usa tantissimo gas: penso al polo industriale Basf sul Reno. Solo lì hanno bisogno di 1 miliardo di metri cubi. Ma attenzione. Il peso del gas sul loro bilancio energetico è più basso del nostro. Da loro arriva al 18%. Noi siamo al 35%. Da noi l’e n e rg i a elettrica si fa soprattutto con il gas. Questo è il nostro grande elemento di debolezza. In Germania si usa in proporzione molto più carbone nella generazione elettrica. E stanno ripensando al nucleare. L’elet - tricità, che è il sistema nervoso di un Paese, in Germania non dipende così tanto dal gas come da noi». Poi c’è la Francia, variabile impazzita che da esportatore di energia elettrica è diventato impor tatore. «La Francia era lo zoccolo duro del sistema elettrico europeo: 56 centrali nucleari che ovviamente stanno invecchiando con normative sulla sicurezza sempre più stringenti ma talvolta sclerotiche e che impongono manutenzioni a man bassa. È terribile per l’Eu ro pa ma soprattutto per l’Italia. E qui dopo la dipendenza dal gas arriva la nostra seconda debolezza. Importiamo strutturalmente energia elettrica. Quasi tutta dalla Francia. Questo 10%-15% di energia importata che viene meno diventa tutta domanda addizionale di gas. E il gas non c’è». Vi sono praticamente due gasdotti fermi: il Nordstream 1 e il 2… «Lo scontro iniziale fra Russia e Ucraina viene da lontano. Fin dai primi anni Duemila, con quest’ul - tima accusata di “r uba re” il gas in transito dalla Russia verso l’Euro - pa. Da lì arriva il gas in Italia. Nordstream 2 parte anche da qui. Dall’insicurezza del sistema di trasporto che attraversa l’Uc ra i n a . Investendo un decimo di quanto speso per Nordstream2, avremmo oggi un’infrastruttura da 400 miliardi di metri cubi. Avremmo  prezzi del gas che sarebbero più bassi di quelli americani». Investimenti impossibili da fare se si litiga. Lei ne ha scritto e parlato. Si parla tanto di globalizzazione. Ma in Usa il gas costa dieci volte meno che in Europa. «Dobbiamo tenerne conto. L’energia è un fattore critico. Incide sulla capacità di lavorare dell’in - dustria. Sulla sua competitività. Corriamo dietro il cambiamento climatico. Lavoriamo di più. Spendiamo di più. Il tutto a parità di prodotto finito. Mentre il resto del mondo va da tutta un’altra parte». U n’importante azienda veneta produce libri di pregio - industria «gasivora» per definizione - e sta delocalizzando a Chicago. Non in V ietn a m . «Basf ha già delocalizzato in America parte della produzione nel 2017». Perché - quanto a energia - Spagna e Portogallo stanno m eg l io? «Perché sono isolate e hanno interconnessioni limitate con il resto del continente. Le distanze dal centro della penisola iberica sono enormi. Portare gasdotti lì sarebbe stato costoso. La Francia si è sempre opposta. Hanno rigassificatori stabili e a terra con tantissima capacità. Hanno una forte capacità politica che consente di regolamentare il prezzo da un punto di vista amministrativo intervenendo anche, se necessario, a coprire con fondi statali perdite di fatturato. Contano su un atteggiamento più morbido della Commissione Ue in materia di aiuti di stato». Facciamo un gioco. Il prossimo premier chiama Davide Tabarelli a Palazzo Chigi a gestire l’emer - genza. Cosa proporrebbe come misura immediata per i primi sei mesi? «Si fa subito un esercizio. Il piano di razionamento per i mesi di gennaio e febbraio nel caso in cui i picchi di domanda superino i 400 milioni di metri cubi di gas al giorno. È in quei mesi che fa più freddo. È allora che le scorte cominciano a calare. Se non hai pressione sulle scorte perché le hai utilizzate prima, devi tagliare la domanda. Serve un elenco accurato e dettagliato di tutti gli stabilimenti con capacità di consumo e possibilità di interruzione dei relativi cicli produttivi. Se sì, per quanto tempo. Da qui si individuano le aree da tagliare. Ovviamente ipotizzando in dennizzi adeguati per i danni delle eventuali interruzioni. Il compito varia a seconda di quanti milioni di metri cubi al giorno devono essere recuperati. Bisogna essere preparati a tutto. Magari siamo fortunati. Il gas dalla Russia arriva e non farà freddissimo. Magari arriva la recessione e i consumi diminuiscono». Eh già. Il prezzo stratosfericamente alto concorre già di per sé a razionare l’utilizzo del gas. «Esatto. Bisogna anche agire sul carbone. Aprire subito La Spezia. Vi sono unità chiuse a Fusina e Brindisi. Nei giorni in cui fa più freddo possono dare una mano». Subito dopo i primi sei mesi? «Bisognerà avere in linea le due navi galleggianti. Riscrivere il piano di trivellazione. Riaprire le autorizzazioni per tutta l’attività di ricerca e produzione in Italia ferma al 2018. La Snam deve espandere la capacità di trasporto nel centro Italia». Lei ha scritto che il gas estratto in Italia costerebbe 10 euro a megawattora. Lo stiamo pagando oltre 300. «Ho sbagliato. In realtà gli euro sarebbero 5. Sia chiaro; non è che producendo 4 miliardi di metri cubi in più in Italia il prezzo crolla. Ma farebbero comunque Pil e alimenterebbero le entrate fiscali». Ma in Italia abbiamo veramente così tanto gas? «Siamo ricchi di gas. Ancora di più di petrolio. Ma non è quello il tema. Siamo ricchi di capacità di andare a trovare giacimenti e di imbastire produzioni a regola d’arte nel rispetto dell’ambiente. E quindi portarlo al consumatore in tempi ragionevolmente brevi. Eni ha trovato giacimenti importanti a Cipro. Abbiamo un tessuto economico e di ricerca che ci consentiDAVIDE TABARELLI rebbe di valorizzare al meglio 100 miliardi di metri cubi di riserve. Una professionalità quasi unica al mondo. L’Eni è al mondo quella che trova più gas e che in meno tempo lo porta sul mercato. Questo conta più delle riserve». Voliamo più in alto. Un piano strategico a cinque-dieci anni. «Sia chiaro, facciamo le rinnovabili là dove possono essere realizzate. E finiamola con l’alibi di mettere in croce le soprintendenze. Questi impianti sono “i nva s iv i”. Il paesaggio, soprattutto in Italia, ha un valore economico. Si ritorna sempre lì. Al tema della densità energetica. Quello che tu fai su 500 ettari con un impianto fotovoltaico lo fai in una normale centrale convenzionale che occupa mezzo etta ro » . Nucleare sì o no? «Sì, se non altro nel rispetto di Enrico Fermi. Ma occorre che ci inventiamo qualcosa di nuovo. Le difficoltà sono enormi. Le democrazie non sono in grado di risolvere il problema oggi dell’opposizio - ne della popolazione». Il mercato Ttf ad Amsterdam dove si stabilisce il prezzo delle rinnovabili ha un senso? «Nessun mercato ha senso quando si raggiungono questi livelli di prezzo. Trovare alternative è difficile. Ma è stato complicato anche abbandonare vecchi contratti che dominavano fino al 2010. Il mercato Ttf è privo di spessore. Inventato dai regolatori drogati dall’entusiasmo della competizione. Ma un sistema del genere non può reggere quando i tuoi fornitori sono Paesi come Algeria, Libia, Qatar e Russia. Paesi che decidono di fare guerre mettendo in crisi un sistema congegnato per tempi di pac e » .