STUPIDA RAZZA

venerdì 31 marzo 2023

Bankitalia, oltre i profitti c’è di più

 

D e Gregori canta che un calciatore non si giudica da un rigore; giusto, ma se di solito lo segna è meglio. La stessa regola vale anche per i profitti delle banche centrali: se di norma ci sono è un bene, purchè siano solo uno strumento per perseguire l’obiettivo, cioè la stabilità della valore della moneta. È questa la bussola con cui valutare il bilancio della Banca d’Italia, che verrà presentato oggi dal Governatore Visco all’Assemblea dei Partecipanti. Il significato da dare al bilancio di una banca centrale, sia riguardo in generale alla dimensione e qualità sia dell’attivo contabile che del capitale, sia in particolare alla presenza o meno di profitti annuali, è un argomento che vede contrapposti le colombe ai falchi: per le prime, come argomento, è irrilevante, per i secondi è invece fondamentale. Partendo dalle colombe, e continuando con la metafora calcistica, segnare rigori non è importante. Il loro ragionamento può essere così riassunto: poiché una banca centrale non può fallire, le caratteristiche del suo bilancio sono irrilevanti in una prospettiva macroeconomica. Il punto di partenza, al di là degli aspetti legali, che variano da Paese a Paese, è corretto: la banca centrale è una istituzione pubblica "no,la banca centrale e' un'istituzione privata : https://www.bancaditalia.it/chi-siamo/funzioni-governance/partecipanti-capitale/Partecipanti.pdf " le cui passività vengono utilizzate come moneta, e la sua capacità di produrre tali passività, soprattutto in un mondo in cui presto vedremo utilizzare anche valute pubbliche digitali, è teoricamente illimitata. Ma è errata la conclusione. Una banca centrale la cui produzione di moneta è eccessiva, ed in cui magari anche la qualità del portafoglio è strutturalmente insufficente a produrre profitti, vedrà prima o poi le sue passività rifiutate come strumento per compiere pagamenti. Una produzione di moneta eccessiva e di scarsa qualità provoca tendenzialmente una perdita di valore di quella passività pubblica: la svalutazione può essere in termini di perdita di valore interna, causa inflazione, o esterna, causa svalutazione rispetto alle monete emesse da altri Paesi. Quella moneta, oramai vile, sarà utlizzata solo se l’economia è chiusa agli scambi con l’estero, ed in più i cittadini non hanno altre strumenti alternativi per effettuare i propri scambi. Quindi la qualità del bilancio di una banca centrale diventa un tassello fondamentale nell’architettura su cui è fondata l’efficacia della politica monetaria in una moderna economia di mercato: l’indipendenza di chi la moneta la produce e distribuisce. Si tratta della indipendenza finanziaria: una banca centrale deve essere indipendente dalla politica anche riguardo alla sua capacità tendenziale di finanziare le proprie attività pubbliche. Il che non significa però far diventare la capacità di produrre profitti, magari annualmente come un requisito essenziale per valutare la bontà dell’azione di una banca centrale. L’ossessione per i profitti della banca centrale tende invece a caratterizzare i falchi, che vorrebbero che tutti i rigori fossero sempre segnati. È una prospettiva emersa in tutta evidenza quando il presidente della Bundesbank Joachim Nagel ha comunicato la presenza nel bilancio della banca centrale tedesca di un miliardo di euro di perdite, dovuto al suo portafoglio di titoli pubblici. Le perdite verranno coperte dalle riserve, il cui ammontare complessivo di diciannove miliardi verrà inoltre verosimilmente ridotto anche dalle perdite che emergeranno anche negli anni a venire. È l’effetto contabile della presenza in bilancio di un alto stock di titoli pubblici, quando i tassi di interesse iniziano a salire. Quella delle perdite da finanziare con l’utilizzo di riserve è certo una musica diversa rispetto a quella cui il governo ed i cittadini tedeschi sono stati finora abituati, visto che la Bundesbank ha erogato in profitti in questi ultimi anni più di ventidue miliardi di euro. Da qui lo strepitare dei falchi. Ma è lo strepitare sui profitti è il lamento di chi guarda il dito, non la luna, che è invece domandarsi come una banca centrale sta assolvendo il suo dovere di produrre beni pubblici, a partire dalla stabilità monetaria, e chiedere su questo la massima trasparenza. Oggi sapremo se la Banca d’Italia ha segnato o meno il rigore dei profitti annuali, ma le informazioni più importanti riguarderanno quello che sta facendo per vincere il campionato. 

Big tech al bivio sugli algoritmi: già investiti 200 miliardi

 

Continua a tenere banco la lettera firmata da alcuni manager della Silicon Valley (Elon Musk in testa) in cui si chiede di sospendere gli sviluppi relativi all'Intelligenza Artificiale generativa. Le firme hanno toccato quota 1.500, confermando quanto la tematica catalizzi moltissima attenzione nell'industria tecnologica. Ma di fianco ai pesanti interrogativi posti nella lettera - che di fatto mette in discussione il futuro della stessa umanità se l'intelligenza artificiale rimane senza controllo – crescono anche i dubbi relativi agli investimenti che Big Tech ha già scucito verso questo settore. Numeri troppo elevati, probabilmente, per immaginare uno stop troppo lungo sugli sviluppi di questa tecnologia. Nel 2022, mentre sul mercato azionario si abbatteva una crisi che è costata 5 trilioni di dollari al Nasdaq, i big five dell'industria tech (Apple, Amazon, Microsoft, Google e Meta) hanno investito 223 miliardi in ricerca e sviluppo (dati Economist, ndr). Una cifra enorme, se si considera che nel 2019 erano stati 109 i miliardi investiti. E benché all'interno della macro-area vengano racchiusi anche costi differenti, la fetta più grossa di questi investimenti si concentra sempre sulle scommesse più importanti. L’intelligenza artificiale è sicuramente fra queste. Prendiamo le mosse di Microsoft, che ha puntato con forza su OpenAI, l'azienda di San Francisco che ha prodotto ChatGPT. Il colosso di Redmond, solo per questa operazione, ha stanziato circa 11 miliardi di dollari. Poi ha investito in altre realtà più piccole. Ma come Microsoft, un po' tutti gli altri Big si sono mossi nella stessa direzione. Il ceo di Meta, Mark Zuckerberg, di recente ha spiegato che l’intelligenza artificiale è la più grande categoria di investimento della sua azienda. E benché non sia ancora ufficiale, una storia simile è anche quella di Alphabet, che nei prossimi giorni, in occasione del rapporto sugli utili trimestrali, potrebbe rivelare per la prima volta i suoi investimenti in Bard, il suo chatbot intelligente (competitor numero 1 di ChatGPT). Ma non hanno trascurato il settore neanche Apple ed Amazon, con quest’ultima che sta sviluppando (grazie a una startup) un’intelligenza artificiale generativa da integrare nel suo marketplace. In generale, secondo i dati di PitchBook, circa un quinto delle acquisizioni e degli investimenti combinati delle società dal 2019 ha coinvolto aziende di intelligenza artificiale, molto più della quota destinata a criptovalute, blockchain e altre tecnologie. E secondo i dati forniti da PredictLeads, oggi almeno un annuncio su dieci nelle aziende dell’industria tech richiede competenze sull’intelligenza artificiale. Un settore, insomma, già decisamente ancorato ai modelli di business delle aziende più capitalizzate al mondo. Per questo, adesso, potrebbe nascere una storia di precedenze: prima il business o prima le preoccupazioni di chi teme per le sorti della civiltà umana?

giovedì 23 marzo 2023

Un piccolo incidente e devi cambiare tutto il pacco batterie? Un problema nascosto delle auto EV

 

Un po’ a sorpresa la Reuters ha pubblicato un articolo che rivela che la rivoluzione dei veicoli elettrici potrebbe non essere così ecologica come sostengono le case automobilistiche.  Anzi potrebbe essere particolarmente costosa anche dal punto di vista assicurativo, dato che un pacco batteria graffiato o leggermente danneggiato potrebbe causare la rottamazione  dell’intera auto.

Compriamo auto elettriche per motivi di sostenibilità“, ha dichiarato Matthew Avery, direttore di ricerca della società di intelligence sui rischi automobilistici Thatcham Research, ” ma un EV non è molto sostenibile se si deve buttare via la batteria dopo un piccolo incidente“.

La batteria di una Tesla costa decine di migliaia di dollari e rappresenta una grande percentuale del prezzo del veicolo. Le compagnie di assicurazione hanno scoperto che è antieconomico sostituire i pacchi batteria se danneggiati e può spesso convenire demolire l’intera auto.

Molte case automobilistiche, tra cui Tesla, hanno reso i pacchi batteria una parte strutturale dell’auto per ridurre i costi dei prodotti, ma hanno scaricato i costi sui consumatori e sulle assicurazioni quando le batterie devono essere sostituite.  Pacchi batterie strutturali portano a costi molto più elevati per la loro sostituzione in caso di incidente e le assicurazioni, che non sono enti benefici, scaricheranno questi maggiori costi sui guidatori, sia in modo diretto sia aumentando i premi bonus-malus.

Poi c’è il problema ambientale. “Il numero di casi è destinato ad aumentare, quindi la gestione delle batterie è un punto cruciale”, ha dichiarato Christoph Lauterwasser, amministratore delegato dell’Allianz Center for Technology, un istituto di ricerca di proprietà di Allianz. Secondo Lauterwasser, la produzione di batterie per veicoli elettrici comporta emissioni di CO2 significativamente più elevate rispetto ai modelli convenzionali a combustibile fossile. Pertanto, se queste batterie vengono scartate con un basso chilometraggio, si compromette l’obiettivo di promuovere pratiche ecocompatibili.

“Se si butta via il veicolo in una fase iniziale, si perde praticamente tutto il vantaggio in termini di emissioni di CO2”, ha dichiarato.

Sandy Munro, responsabile della Munro & Associates, con sede nel Michigan, che analizza i veicoli e consiglia le case automobilistiche su come migliorarli, ha affermato che il pacco batteria della Model Y ha una “riparabilità pari a zero”. “Un pacco batterie strutturale Tesla va direttamente al macero”, ha detto Munro.

Alla faccia della rivoluzione dei veicoli elettrici e della verde “economia circolare” propagandata da case automobilistiche, politici, ONG e attivisti per il clima… Questi veicoli elettrici sembrano ancora più dannosi per l’ambiente se confrontati con i veicoli tradizionali a benzina. Per avere una vera economia circolare è necessario quindi riprogettare tutti i pacchi batterie, soprattutto quelli strutturali più avanzati.

Tutto digitale, perfino i bugiardini

 


«Digitalizzazione» è una di
quelle parole impossibili da
non trovare nei programmi
politici di tutti i partiti. Presentata spesso come la panacea di tutti i mali, si delinea
ormai sempre di più come un
mostro destinato a fagocitarsi
tutto lo spettro dell’e s i s te nte.
Il prossimo passo? I bugiardini dei medicinali smaterializzati. Ebbene sì, la Commissione europea intende sostituire
con un Qr code i celebri foglietti illustrativi all’i nte r n o
delle confezioni dei farmaci.
L’occasione viene da un ampio progetto di riforma del sistema farmaceutico europeo.
Avviata nel 2020, cioè dopo
che la pandemia ha messo in
risalto le carenze e i problemi
strutturali del settore, la Strategia farmaceutica per l’Euro -
pa si propone di rinnovare la
legislazione vigente al fine di
assicurare farmaci accessibili
a tutti, promuovere la competitività, la capacità di innovazione e la sostenibilità del sistema e migliorare i meccanismi di risposta alle crisi. Fin
qui tutto bello. Il campanello
di allarme suona quando si
legge che l’iniziativa sarebbe
in linea, tra le altre cose, con le
priorità delineate nella Strategia digitale europea e nel
Green deal europeo.
Nel documento di presentazione del progetto (facilmente
consultabile sul sito della
Commissione) si legge, tra i vari obiettivi prefigurati, quello
di «sviluppare e attuare informazioni sul prodotto in formato elettronico (ePI) per tutti i medicinali dell’Ue, coinvolgendo gli Stati membri e l’in -
dustria, valutare e rivedere le
pertinenti disposizioni della
legislazione». A tal proposito,
il quotidiano spagnolo El Pais
riporta che, in uno dei documenti in cui l’esecutivo analizza l’impatto di queste nuove
regole, si trova scritto che tutte le parti coinvolte nella negoziazione supportano l’id ea
che digitalizzare le informazioni sui famaci sia un passo
inevitabile. «I vantaggi», scrive sempre El Pais, «sono molteplici: le catene di approvvigionamento diventeranno più
semplici, ci saranno meno
problemi di carenza di farmaci, le informazioni disponibili
potranno essere aggiornate
immediatamente e ci sarà un
notevole risparmio di carta».
Ora, non ci sono dubbi sul
fatto che il prezzo della carta
sia aumentato notevolmente e
che anche gli approvvigionamenti siano diventati più
complicati. Tuttavia, ci arriva
chiunque a capire che l’even -
tuale eliminazione dei bugiardini in carta andrebbe a penalizzare le fasce di popolazione
più vulnerabili, ovvero gli anziani e coloro che, per qualunque motivo, hanno difficoltà
nel l’accedere al digitale. Secondo il quotidiano spagnolo,
la riforma che la Commissione presenterà nelle prossime
settimane prevede che la decisione su come e quando fare il
passo sia lasciata agli Stati
membri. In ogni caso, è altrettanto evidente che, se anche
non venisse esplicitamente
proibito il foglio illustrativo
ma venisse soltanto data la
possibilità di sostituirlo con
un Qr code, le aziende farmaceutiche andrebbero naturalmente in questa direzione, visto che consentirebbe loro di
ridurre i costi di produzione.
La digitalizzazione in ambito sanitario «ha fatto anche
cose buone», come il fascicolo
sanitario (perché offre un servizio in più, anche comodo,
ma non è uno strumento obbligatorio senza il quale non si
può – per esempio – andare a
ritirare un referto), e ha prodotto dei veri e propri mostri,
come il green pass (e il Qr code
lo rievoca infelicemente). Il
problema, dunque, è come
sempre non la digitalizzazione in sé, ma il rischio di condizionare l’intero accesso alle
informazioni a uno strumento, il digitale, non agevolmente
accessibile ai maggiori fruitori dei farmaci (gli anziani) e
facilmente controllabile.

Ci vogliono competenze ad hoc per riportare in vita un rifiuto

 

N el riparare c’è insita anche la logica del recuperare. Recuperare pezzi di ricambio, componenti, piccole o grandi parti che possono venire utili per qualcos’altro. Quindi, a volte, può succedere che un bene non si può riparare ma, smontandolo, se ne recuperano i pezzi utili per aggiustare altro. Si devono sicuramente al movimento dei restarter - riparatori comunitari come li definisce Francesco Cara, docente di ecodesigner - gli enormi passi avanti che il settore ha ottenuto CONTRO L'OBSOLESCENZA PROGRAMMATA  Su quest’onda il Parlamento europeo ha da qualche anno rilasciato una normativa che riguarda il diritto alla riparabilità. A ciò si collega l’obbligo di rilascio dell’indice di riparabilità dei prodotti che valuta se l’oggetto in vendita rispetta la disponibilità, o meno, di pezzi di ricambio e si è sforzato di rendere il più possibile chiare e comprensibili le istruzioni per la riparazione dei guasti più comuni o la tipologia e la durata degli aggiornamenti software forniti dal fabbricante. Fabrizio Longoni, direttore generale del Centro Coordinamento Raee, attende da anni che l’Italia si doti di una normativa specifica per attuare la preparazione per il riutilizzo. Ovvero? «Prepararci per il riutilizzo è quell’insieme di attività che si potranno fare per riportare alla condizione di prodotto un rifiuto», fa notare Longoni specificando che a oggi non si può fare: se un oggetto è buttato (meglio conferito in un centro Raee) quello diventa un rifiuto: «Preparare per il riutilizzo un rifiuto richiederà competenze specifiche, perché dovrà sempre essere tenuto in considerazione un aspetto assolutamente prioritario: la sicurezza dell’utilizzatore». Fondamentale, così, il ricorso a persone e aziende che usino componenti e processi sicuri e certificati. L’aspetto professionale non va sottovalutato come lo stesso Cara evidenzia: «Il ricondizionamento tende a essere un’attività ad alto impiego di manodopera, ma apre anche valide opportunità di reinserimento professionale». Diversi istituti professionali – Artigianelli di Torino in testa – stanno già interpretando questa esigenza tendendo conto che tutto si può tentare di riparare: automobili, pc, cellulari e tutti gli elettrodomestici. Ma anche bici, porte e finestre (evviva il restauro conservativo). Vestiti compresi. «Più a lungo un prodotto resta in uso – fa notare Cara -, più l’impronta ambientale della sua fabbricazione viene spalmata nel tempo e più viene ritardata la sua sostituzione con un prodotto nuovo, con relativa impronta ambientale. Inoltre, i processi di ricondizionamento sono generalmente a basso impatto». Queste pratiche spesso avvengono nei Repair Café dove «circa il 70% degli apparecchi guasti vengono riparati – fa notare Cara che è un restarter convinto - e riprendono il loro uso invece che finire in discarica. La rete italiana è molto dinamica e in continua crescita, sostenuta da un interesse sempre maggiore da parte dei cittadini, della società civile, degli amministratori e dei media».

Così Powell ha scelto la linea della prudenza

 

L e decisioni di politica monetaria saranno influenzate dai rischi di instabilità bancaria? È questa la domanda a cui la Fed doveva dare ieri una risposta. Messa di fronte a un trivio, ha scelto la prudenza: l’obiettivo principale rimane la disinflazione, ma per il momento la restrizione monetaria rallenta. Per una banca centrale non è semplice rispondere in modo efficace quando, nel corso di una restrizione monetaria, un emergente rischio bancario   sistemico si pone all’attenzione dei mercati e della pubblica opinione. Il punto di partenza è il fatto che è stata la stessa Fed a dichiarare il caso della Silicon Valley Bank (SVB) come un evento di rilevanza sistemica. Domenica 12 marzo, la Fed, con l’avallo del Tesoro e della Agenzia Federale per l’Assicurazione sui Depositi, ha fatto una promessa molto impegnativa, basata su tre pilastri: che tutti i depositanti della SVB, assicurati e non, sarebbero stati rimborsati; che tale rimborso non sarebbe gravato sui contribuenti americani; che altre banche avrebbero potuto accedere a iniezioni di liquidità, purchè dotate di bilanci a prova di solvibilità. Una promessa – ritenuta eccessiva sia negli Stati Uniti che in Europa – che ha reso una espansione monetaria per ragioni di stabilità finanziaria, cioè un caso di accomodamento bancario, un evento possibile. Ma quando l’eventualità di un accomodamento bancario diviene una opzione, e nel frattempo è in corso una restrizione monetaria, tre sono le opzioni in termini di scelta della banca centrale. La prima scelta è quella della dominanza monetaria. Per ragioni legate all’andamento macroeconomico, la banca centrale ribadisce la priorità dell’obiettivo della politica monetaria restrittiva, che è quello della disinflazione, e le scelte legate all’accomodamento bancario sono a esse subordinate. È quello che fece la Fed, nei mesi che vanno dal dicembre 2007 fino al crollo della Lemhan Brothers nel settembre 2008, quando si dichiarò che le iniezioni di liquidità a tutela della stabilità bancaria sarebbero state sterilizzate, per evitare rischi inflazionistici. È quello che ha dichiarato la Bce nel luglio del 2021, quando, annunciando la possibilità di avviare uno scudo anti-spread, in caso di turbolenze finanziarie, ha subito specificato che tali interventi comunque non dovranno incidere sull’intonazione complessiva della politica monetaria. La dominanza monetaria ieri avrebbe significato decretare, in modo argomentato, una salita dei tassi di interesse pari a cinquanta punti base, dando ai rischi di instabilità bancaria un peso minimo. L’opzione è stata scartata. La seconda scelta è quella della dominanza monetaria accomodante. La banca centrale ribadisce la priorità della politica monetaria disinflazionistica, ma ne attenua il tono, sulla base dell’andamento macroeconomico delle variabili legate al mercato del lavoro da un lato, e della dinamica dei prezzi al consumo dall’altro. L’attenuazione del tono restrittivo dell’azione monetaria va nella direzione di rendere eventuali inezioni di liquidità a favore di singole banche coerenti più coerenti con la dinamica complessiva dei tassi. La dominanza monetaria accomodante ieri si sarebbe dovuta riflettere con un aumento dei tassi di venticinque punti base, minore di quello atteso fino a faditica domenica 12 marzo, ma corredato da una spiegazione che ribadisse la priorità dell’obiettivo inflazionistica. Ed è questa è la strada intrapresa dalla Fed. La terza scelta è quella della dominanza bancaria. La banca centrale pone come priorità quello di avere le condizioni monetarie migliori per evitare rischi di ulteriori turbolenze bancarie, ponendo, almeno temporaneamente, in secondo piano l’azione attiva disinflazionistica. La dominanza bancaria ieri si sarebbe dovuto riflettere in una sospensione, ben motivata, della fase di rialzo dei tassi di interesse. La scelta avrebbe dato massimo peso ai rischi di ulteriori turbolenze bancarie. Di fronte al trivio, la Fed ha scelto la strada intermedia. Vedremo se mercati, famiglie e imprese, incorporandola o meno nei loro comportamenti, la giudicheranno credibile.

mercoledì 22 marzo 2023

«Banche, pronti ad altre garanzie»

 

Le Borse europee chiudono in rialzo con il Ftse mib al +2,56% e l’Euro stoxx 50 che guadagna l’1,54%. Bene anche il Dax di Francoforte al +1,77%, l’Ibex spagnolo al +2,55% e lo Swiss market al +1,4%. La tensione sul sistema bancario sembra dunque essersi stemperata dopo il fallimento della Silicon valley bank, della Signature bank e il terremoto di Credit Suisse che si è concluso con il matrimonio con Ubs. Le diverse Banche centrali sono intervenute in modo tempestivo per scongiurare il panico e hanno anche deciso di monitorare la situazione più da vicino immettendo nuova liquidità nel sistema per garantire un porto sicuro alle banche e sperando, nel contempo, di calmare l’agitazione degli investitori. Ieri il segretario al Tesoro statunitense, Janet Yellen, ha precisato che le azioni intraprese delle autorità statunitensi la settimana scorsa hanno avuto come obiettivo quello di arginare i problemi di liquidità del settore e che si potrà fare di più fornendo ulteriori garanzie sui depositi se la situazione lo richiederà: «Le misure che abbiamo adottato non erano mirate ad aiutare specifiche banche o classi bancarie. Il nostro intervento era necessario per proteggere il più ampio sistema bancario statunitense, e azioni simili potrebbero essere giustificate nel caso in cui istituti più piccoli dovessero subire un deflusso di depositi con il rischio di contagio». L’ex presidente della Fed ha poi assicurato che il sistema bancario a stelle e strisce «rimane solido» e che siamo in una «situazione diversa dal 2008, nel 2008 era una crisi di liquidità adesso stiamo piuttosto assistendo a una contagiosa corsa agli sportelli». Ma non solo, perché 15 anni fa molte istituzioni finanziarie erano sotto stress a causa dei titoli subprime e «noi non vediamo questa situazione oggi nel sistema bancario» ha aggiunto la Yel l e n . La situazione si sta calmando e «la Fed facility e lo sportello di sconto stanno funzionando come previsto per fornire liquidità al sistema bancario. I deflussi aggregati di depositi dalle banche regionali si sono stabilizzati». Una delle banche più in difficoltà del settore, la First republic, salvata la scorsa settimana con un piano di aiuti di 30 miliardi di dollari messi in campo da un consorzio formato da 11 banche statunitensi, ieri in apertura di Borsa ha visto salire i suoi titoli del 33%. Questo anche grazie alla notizia che l’amministratore delegato di JPMorgan Chase, Jamie Dimon , sarebbe alla guida del consorzio di banche che stanno discutendo di un piano per stabilizzare l’istituto californiano. La stabilità finanziaria delle banche americane tornerà protagonista oggi, dopo le decisioni della Fed sui tassi di i nte re s s e. In Europa dopo lo scossone svizzero la situazione sembra essersi assestata: «La crisi del Credit Suisse non ha avuto un impatto significativo sulle posizioni di raccolta e liquidità delle banche ( d ell ’Eu rozona, nd r) », ha spiegato ieri il responsabile della vigilanza bancaria Bce, Andrea Enria, alla commissione Affari economici e monetari del Parlamento Ue, ribadendo anche come in «questo periodo di turbolenza il lato delle passività delle banche europee è rimasto molto stabile. Quindi questo significa che al momento abbiamo una forte fiducia dei depositanti delle banche europee». Nel complesso, ha concluso En ria , il settore bancario dell’Eurozona ha dato «prova di una grande capacità di tenuta allo choc macroeconomico indotto dalla guerra, persino più di quanto da noi stessi atteso sulla base dell’analisi di vulnerabilità pubblicata a maggio 2022», ma questo non significa che lo choc macroeconomico sia terminato. Se le spinte inflazionistiche dovessero persistere, «il necessario processo di serrata normalizzazione della politica monetaria potrebbe a sua volta incidere sui portafogli e sulle linee di business di specifiche banche, comportando molteplici sfide e generando potenzialmente vincitori e vinti».



Putin e Xi rafforzano l’asse: «Pronti alla pace cinese»

 

La forma è sostanza, per i russi. Vladimir Putin ha ospitato Xi Jinping al Cremlino in una cornice sfarzosa, perfetta per confermare l’amicizia senza limiti tra i due Paesi e, in particolare, con un leader al quale Mosca ha conferito la croce di San Giorgio, massima onorificenza militare del Paese. La sostanza, attorno alla quale ruota il pragmatismo cinese, è che l’alleanza tra i due leader si sta rinsaldando in nome «non di un’alleanza politico-militare che appartiene all’era della guerra fredda», ma di relazioni «superiori a questo tipo di cooperazione tra gli Stati». «Una partnership strategica ed economica», viene così definita nella dichiarazione firmata dai due presidenti al termine della seconda giornata della visita di Stato di quest’ultimo a Mosca. Si specifica che le relazioni tra Russia e Cina, inoltre, non sono dirette a nessuna terza Nazione, non sono conflittuali e «non costituiscono un blocco», come hanno detto i due presidenti. Morale: Vladimir Putin ha aggiunto che i rapporti tra Mosca e Pechino «sono al punto più alto nella storia dei nostri due Paesi». Pechino ha però staccato il dividendo antinucleare, centrale nel piano di pace presentato da Xi a Putin perchè «non ci possono essere vincitori in una guerra nucleare che non dovrebbe mai essere lanciata». «Le potenze nucleari non devono dispiegare le loro armi nucleari oltre i loro territori e devono ritirare tutte le armi nucleari dispiegate all’estero», si legge ancora nella dichiarazione congiunta Russia-Cina, diffusa dalla Tass al termine dei colloqui di ieri. La Russia sostiene inoltre lo sviluppo dell’uso della valuta cinese nel commercio con Paesi terzi. «Sosteniamo l’uso dello yuan in pagamenti fra la Russia e Paesi in Asia, Africa e America Latina», ha detto il presidente russo Vladimir Putin, dimostrando di voler «navigare» nei pool creati dagli accordi creati dalla Cina attraverso accordi di swap per il clearing. «Le valute nazionali sono sempre più usate» nel commercio bilaterale e due terzi dello scambio fra Russia e Cina già avviene in rubli e yuan - ha sottolineato Putin - aggiungendo che «questa pratica va ulteriormente incoraggiata» così come va estesa la mutua presenza di istituzioni finanziarie e bancarie russe e cinesi. Ha detto di aver invitato Putin durante la cena di lunedì a visitare la Cina entro la fine dell’anno per partecipare a una riunione di alto livello dell’iniziativa regionale Belt and Road cinese. Niente tavoli stretti e smisurati, questa volta,tra Xi e Putin, ma due poltrone bianche affiancate adatte alle riprese ufficiali. Cena privata lunedì sera per i due presidenti con menù rigorosamente russo in sette portate e una durata di quattro ore mezza la sera di lunedì. Ieri in mattinata l’accoglienza trionfale nella sala di San Giorgio al Cremlino dove le pareti sono ricoperte da targhe in marmo bianco con incisioni in oro dei nomi delle unità militari e dei soldati insigniti dell’ordine di San Giorgio, istituito da Caterina la Grande. In quanto a coreografie i russi hanno da insegnare tanto ai cinesi, Xi ha salito lentamente la scalinata con tappeto rosso del Gran Palazzo del Cremlino mentre le guardie in uniformi da parata scattavano sull’attenti.Xi Jinping ha soggiornato in un nuovissimo Soluxe Hotel cinese situato in un sontuoso parco lungo il fiume nel centro di Mosca con alberi e piante provenienti da tutta la Cina. Ha usato una limousine Hongqi di fabbricazione cinese per guidare nella capitale. In una cerimonia coreografata sin nei minimi dettagli e immersa in un’atmosfera da piena di grandezza imperiale, i due leader sono entrati nell’enorme sala con lampadari da lati opposti e si sono stretti la mano al centro al ritmo degli inni nazionali russi e cinesi. Sono passati davanti a una fila di funzionari russi e cinesi per sedersi ai colloqui. Putin e Xi indossavano entrambi abiti neri e cravatte rosso scuro. Oggi, oltre i tappeti di velluto e gli inchini, si saprà cosa resta della proposta di pace cinese. Prima di partecipare ai colloqui con il Cremlino, Xi ha incontrato il primo ministro russo Milkhail Mishustin. Putin ha accolto con favore le proposte della Cina per una soluzione politica e un cessate il fuoco in Ucraina. Certamente il punto che proietta l’alleanza a due all’esterno, sul versante internazionale. Secca la risposta americana arrivata a breve giro per bocca del portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale John Kirby: «Putin ha difficoltà di risorse belliche in Ucraina, un cessate il fuoco congelerebbe la linea del fronte dandogli tempo e modo di riorganizzarsi».


Siccità, arriva il commissario a tempo fino al 31 dicembre

 

Un commissario straordinario per affrontare l’emergenza siccità, ma che resterà in carica “a tempo”, fino al 31 dicembre 2023, con «un incarico rinnovabile e con un perimetro molto circostanziato di competenze». È questo il compromesso che ha permesso di superare l’impasse nel Governo durante la cabina di regia, presieduta ieri a Palazzo Chigi dal vicepremier e ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, presenti i ministri Francesco Lollobrigida (Agricoltura), Nello Musumeci (Politiche del mare e Protezione civile), Roberto Calderoli (Affari regionali), la viceministra dell’Ambiente e Sicurezza energetica, Vannia Gava (il ministro Gilberto Pichetto Fratin era in volo verso New York per la Conferenza Onu sull’acqua), e i sottosegretari alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano e Alessandro Morelli. Tutti accompagnati dai rispettivi tecnici. All’inizio della riunione - che fonti di governo descrivono «lunga e proficua» - si sono materializzate le distanze di fondo tra i partiti della maggioranza (si veda, da ultimo, Il Sole 24 Ore di ieri). Da una parte la posizione di Fdi, ribadita qualche minuto prima dalla premier Giorgia Meloni in Aula al Senato nella replica alle comunicazioni in vista del Consiglio europeo: «Abbiamo ereditato una questione complessa. Stiamo lavorando a una cabina di regia, per un piano nazionale di intesa con le Regioni, utilizzando nuove tecnologie e avviando una campagna di sensibilizzazione. Il Governo sta lavorando a un provvedimento normativo con semplificazioni e deroghe per accelerare lavori essenziali. Intendiamo lavorare anche all’individuazione di un commissario straordinario che abbia poteri esecutivi rispetto a quanto definito dalla cabina di regia». È lo schema che era stato prospettato al termine della prima riunione del tavolo siccità, il 1° marzo, e che però non piaceva alla Lega, che con Salvini guida il dicastero più coinvolto sul dossier (per fondi e responsabilità) e che vede nel supercommissario una minaccia all’autonomia. Il Carroccio ha proposto in alternativa la facoltà di nominare commissari solo in alcuni casi specifici. Per trovare la quadra ci è voluta la mediazione di Lollobrigida (che si muove a difesa del comparto agricolo duramente colpito dalla siccità e si è detto «non interessato alla governance, ma alla soluzione concreta dei problemi») e di Musumeci, che aveva proposto un commissario per tre anni (si veda l’intervista a fianco). Il risultato condiviso è una struttura decisionale a due punte: la cabina di regia «per accelerare e coordinare la pianificazione degli interventi infrastrutturali di medio e lungo periodo» e il commissario fino a fine anno, rinnovabile, per «agire sulle aree territoriali a rischio elevato» e «sbloccare interventi di breve periodo». Una nota di Palazzo Chigi li ha elencati: sfangamento e sghiaiamento degli invasi di raccolta delle acque, aumento della capacità degli invasi, gestione e utilizzo delle acque reflue, mediazione in caso di conflitti tra Regioni ed enti locali in materia idrica, ricognizione del fabbisogno idrico nazionale. «Sono in corso le valutazioni tecniche per formalizzare la soluzione definitiva», avverte la stessa nota. Anche da questo dipenderà l’approdo del “decreto acqua” al Consiglio dei ministri previsto per martedì 28 marzo. Ma non è solo questione di norme: c’è il nome del commissario da individuare. E ancora non c’è accordo sull’identikit: se sarà un tecnico o un politico. Dalle opposizioni, intanto, si punge. Mariastella Gelmini (Azione) auspica che il lavoro della cabina di regia «non sia ulteriormente rallentato dalle frizioni interne alla maggioranza». Mentre Angelo Bonelli (Avs) attacca: «Questo Governo pensa di risolvere la siccità con l’ennesima cabina di regia, ma non con un cambio di politiche energetiche e ambientali che sono le stesse da decenni responsabili del disastro climatico». 

Nei bacini idroelettrici risorse in calo del 20% sulla media del 1921-1950

 

I cambiamenti climatici, con l’esplosione della siccità accoppiata alla forte riduzione dell’innevamento sull’arco alpino, iniziano a farsi sentire sul settore idrico italiano, che necessita di rilevanti investimenti per rafforzare la propria resilienza e tenere il passo con l’Europa. È questo il verdetto del Blue Book 2023 promosso da Utilitalia, a cura della Fondazione Utilitatis e in collaborazione con The European HouseAmbrosetti, Istat, Ispra, Cassa Depositi e Prestiti, il Dipartimento della Protezione Civile e le Autorità di Bacino. Una monografia del Servizio idrico integrato, diffusa ieri alla vigilia della Giornata Mondiale dell’Acqua, secondo cui diventa dunque sempre più urgente la realizzazione di infrastrutture moderne per garantire la tutela dell’oro blu. Al proposito Utilitalia, la Federazione delle aziende italiane di servizi pubblici, sottolinea la disponibilità delle imprese del settore a investire 10 miliardi nei prossimi anni, di cui la metà entro il 2024. Il quadro generale non può dirsi negativo e mostra anzi progressi importanti. Per esempio, con l’avvio della regolazione Arera nel 2012, dopo anni di instabilità gli investimenti nel comparto idrico hanno registrato un incremento costante. Per il 2021 si stimano 56 euro pro capite, in aumento del 17% sul 2019 (49 euro per abitante) e di circa il 70% sul 2012 (33 euro), mentre per il biennio 2022-2023 ci si dovrebbe attestare a 63 euro, comunque lontani rispetto alla media europea di 82 euro. Lo stesso dicasi per la qualità del servizio: le perdite di rete nel 2021 sono calate al 41% dal 44% del 2016, mentre la frequenza degli sversamenti in fognatura si è più che dimezzata dai 12 eventi l’anno ogni 100 km di rete del 2016 ai cinque del 2021. Tuttavia sul tavolo ci sono problematiche vecchie e nuove. Da una parte, infatti, resta l’annoso gap infrastrutturale Nord-Sud: «Risolvere le problematiche che affliggono il servizio idrico in diverse aree del Mezzogiorno è una questione non più procastinabile, bisogna agire sugli investimenti e sulla governance, favorendo la partecipazione di operatori industriali», sottolinea Stefano Pareglio, presidente della Fondazione Utilitatis. Dall’altra parte c’è l’emergenza siccità: il 2022 è stato l’anno più caldo e meno piovoso della storia italiana, con temperature a +2,7 gradi rispetto alla media 1981-2010 e anomalie pluviometriche significative soprattutto al Centro-Nord, segnala il Blue Book. Un trend con riflessi negativi sulla disponibilità di risorsa idrica rinnovabile naturale (buona proxy dell’acqua su cui possono contare gli impianti idroelettrici), che nel trentennio 1990-2020 si è attestata a circa 133 miliardi di metri cubi: -20% rispetto al periodo 1921-1950. Ciò senza tenere conto peraltro degli ultimi due anni, che hanno mostrato un ulteriore e significativo calo delle risorse a disposizione dell'idroelettrico, considerato uno dei pilastri “rinnovabili” per la produzione di elettricità in Italia, a maggior ragione in un periodo delicato come l'attuale, in cui si impongono la diversificazione e la sicurezza delle fonti di approvvigionamento. Al proposito, secondo i dati preliminari di Terna, nei primi due mesi dell'anno la generazione di elettricità dall'acqua ha fatto segnare un drammatico -51,1%, con febbraio che ha sfiorato il -60%.



Siccità, in arrivo il commissario fino al 31 dicembre Per l’agricoltura previsti danni per più di 6 miliardi

 

Alla Latteria San Pietro, una cooperativa agricola da 40 milioni di euro di fatturato nel Mantovano, hanno già fatto i calcoli: la siccità quest’anno farà perdere ai soci un milione di euro di fatturato. «Noi produciamo Grana Padano - racconta il presidente, Stefano Pezzini - e il disciplinare di questa Dop richiede che una determinata percentuale di foraggi con cui vengono alimentate le mucche provenga dalla stessa area di allevamento. Con i prati secchi, è chiaro che saremo costretti a diminuire la produzione». I prati cui si riferisce non sono nemmeno prati qualsiasi: «Sono ambienti centenari - spiega Pezzini - si chiamano prati stabili perché non hanno mai avuto bisogno di essere né arati né seminati. E per la prima volta nella loro storia, per colpa della siccità quest’anno cominciano a seccare. In autunno dovremo ararli. Anche solo a pensarlo è un sacrilegio». Nella Giornata mondiale dell’acqua che si celebra oggi, l’agricoltura italiana si prepara a fare i conti con il peso della siccità nel bilanci aziendali 2023. L’anno scorso i danni provocati dalla mancanza d’acqua nelle campagne furono stimati in 6 miliardi di euro, ma secondo la Coldiretti quest’anno rischiamo di fare persino peggio. La mancanza di precipitazioni sta condizionando le scelte delle aziende agricole, che si stanno spostando da mais e riso, due colture particolarmente bisognose d’acqua, verso la soia e il frumento. Le stime della Cia-Agricoltori italiani prevedono crolli produttivi dal 10% fino al 30%. Il problema riguarda soprattutto il Nord. I risicoltori sono i più preoccupati. Greenpeace Italia ha calcolato che il 38% delle risaie e delle colture irrigue italiane è affetto da siccità severa-estrema, mentre per le semine l’Ente Risi stima un taglio di 8mila ettari, al minimo da 30 anni. «L’estate scorsa - racconta Francesco Bergamasco, che coltiva riso nella Lomellina - ho perso il 40% del raccolto. Per fortuna sul mercato i prezzi del riso sono stati più alti e alla fine ho perso solo il 20% del fatturato». E quest’anno? «Speriamo che piova: da queste parti oggi abbiamo solo il 30% dell’acqua di cui avremmo bisogno per inondare le risaie». La mancanza di acqua sta ipotecando anche le semine di mais. Secondo le stime del Compag, la federazione nazionale delle rivendite agrarie, in alcune aree della Lombardia la riduzione sfiora il 15% rispetto alla scorsa campagna, mentre in Veneto si registra un crollo del 30%. Se vent’anni fa la produzione copriva quasi totalmente il fabbisogno nazionale, ora il tasso di autoapprovvigionamento è sceso al di sotto del 40%. Con la siccità destinata a diventare un problema strutturale, alcuni agricoltori stanno cominciando a ricorrere alla tecnologia per diminuire il fabbisogno idrico. I produttori ortofrutticoli che fanno capo ad Apo Conerpo, per esempio, hanno scommesso su due progetti: il primo riguarda i pomodori, e permette una riduzione dell’acqua del 20% grazie alla sostituzione dei rotoloni con le manichette per l’irrigazione. L’altro esperimento riguarda i kiwi: grazie ai sensori nel terreno, che calcolano l’esatto grado di umidità necessaria, e ai sistemi di irrigazione che depositano solo il numero di gocce necessarie nel preciso punto in cui servono, oggi è sufficiente il 30% di acqua in meno. Nel comparto del riso, invece, i produttori che fanno riferimento all’ecosistema NaturaSì stanno sperimentando le cover-crops, cioè le colture di copertura, che hanno l’obbiettivo di tenere i suoli coperti e protetti dal rischio di perdita di sostanza organica e disidratazione.

«Se regna l’algoritmo la democrazia è messa in pericolo»

 

 Il velo di una religiosa si affaccia a una delle finestre del primo piano. Collarini bianchi e abiti neri escono ed entrano, nazionalità molteplici, tutti si scambiano un sorriso. C’è anche qualche studente laico, soprattutto tedeschi, nella grande sala al piano terra della Pontificia università Gregoriana di Roma. Padre Paolo Benanti ci fa strada fino al suo studio al sesto piano. Dall’ascensore si scorge il vicino Altare della patria. Ha un’ora per l’intervista, lo attende la preghiera nel monastero francescano dove vive con 6 confratelli - «dai 28 ai 101 anni» - del Terzo ordine regolare. «Insegno qui da 10 anni», ricorda, raccontando di una vocazione che si è «accesa dentro subito» all’incontro con la proposta di vita dei frati, all’ultimo anno di Ingegneria. «Pensavo di essermi lasciato le materie tecniche alle spalle, ma nei 10 anni successivi ho ritrovato le materie umanistiche e la teologia, fino ad approdare - passando per Georgetown - allo studio dell’etica della tecnologia». Cosa c’entra Dio con Internet, viene da domandarle subito. «Ovviamente l’etica non nasce solo come fenomeno religioso, ma umano. L’uomo è dotato di una libertà, di una responsabilità e di una consapevolezza. Dovessimo sentire per strada il vagito di un bimbo, e ci accorgessimo che dentro a un cartone c’è un neonato abbandonato, c’è qualcosa nel profondo di ciascuno di noi che ci porterebbe a dire “fai qualcosa”». Questione di coscienza? «Per i cattolici questa voce nel profondo è un’eco della voce di Dio, e la coscienza il luogo dove Dio e l’uomo parlano intimamente tra loro. Un sacrario, dice la Chiesa. Questo non vuol dire che la risposta etica non sia razionale. Perché la “ra - t io”, dice Sant’Agostino, è la prima forma di Provvidenza. L’etica non è solo un insieme di regole, ma in prima istanza è una domanda di senso». Un motore di ricerca ha scelto le prime fonti per studiare le doman - de di questa intervista; la tecnologia ha dettato il mio percorso tra le vie di Roma per arrivare qui; l’algo - ritmo mi suggerisce acquisti e persino pensieri. Forse è dalla libertà che occorre partire. Lo siamo, davvero liberi? «Non siamo angeli, dalla libertà assoluta. Né palle da biliardo che se colpite con una certa angolazione o forza possiamo prevedere in quale buca arriveranno. La nostra libertà è sempre una libertà incarnata». Cosa significa? «Se io la porto sul tetto di questo edificio, e le chiedo poi di scendere, lei è libera di farlo con me dalle scale o di saltare di sotto. Però una volta che ha deciso liberamente, se salta non lo decide più lei. Può morire, e metteremo una lapide. Può non farsi nulla, e metteremo un “per Grazia ricevuta”. O potrebbe ahimè rimanere in sedia a rotelle. La libertà che ha dopo ogni atto di libertà non è la stessa di prima, ma frutto anche delle scelte che ha fatto. Me la consente una metafora?». Come dirle di no. «La libertà è la facoltà del definitivo. Nasciamo come fossimo blocchi di pietra. Ogni scelta, è una scalpellata. Se tutte le scelte sono coerenti, otterremo un David di Michelangelo. Se le scelte sono “un po’ così e un po’ c o s à”, uscirà un Modigliani».Non le piacciono i suoi quadri? «Non sto dicendo siano brutti. Se le martellate poi sono a caso, otterremo un mucchio di macerie. Possiamo cioè anche danneggiare noi stessi. Ma questo ci dice che la libertà collabora alla bellezza. Con un fine, che va oltre il singolo atto » . E poi ci sono le martellate che ci danno gli avvenimenti, o gli altri, o gli algoritmi, appunto. «Con la stagione dei dati siamo passati dal controllo dei corpi - biopolitica - a una psicopolitica: strumenti efficaci nello spingerci a fare scelte, come un pungolo che coesiste con la nostra libertà. C’è quindi la sfida dell’umano. E se questo accade fin dall’antichi - tà, oggi la differenza è che non è detto abbiamo la coscienza di cosa stia accadendo». Nel frattempo ci sono le big tech che macinano utili… «Monetizzando con le “b r ic io l e” che lasciamo come Pollicino nel nostro uso di internet. Le intelligenze artificiali in grado di predire se un pezzo della stazione spaziale si sta o meno per rompere, sono state applicate all’essere umano, non per predire, ma per produrre. Il “forse ti interessa anche” che i social ci propongono, spingono le vendite di un paio di scarpe anche del 12% in più di una vecchia pubblicità. E hanno l’effetto di cambiare la vita delle persone». Vale anche per la politica, si è visto cosa è successo con la Brexit, o negli Usa. «La propaganda esiste da secoli, naturalmente, ma oggi se ne perde il controllo della responsabilità. Soprattutto, nello spazio pubblico della democrazia, irrompono strumenti di aziende private. Quel che è accaduto al Super Bowl è un esempio del problema etico che si pone». Che è successo al Super Bowl? Le cronache italiane non lo hanno rac c o ntato. «Joe Biden twitta per la sua squadra. Ed eclissa per numero di visualizzazioni il tweet - incidentalmente per la squadra opposta - di Elon Mu s k » . È il presidente degli Stati Uniti d’A m e r ica . «Bene, ma sa che è successo poi? Si racconta che il fratello di Musk nella notte abbia chiesto ai suoi ingegneri di cambiare l’a lgo ritm o, perché il tweet del proprietario avesse più visualizzazioni». Un episodio… diver tente? «Preoccupante. Perché conta il simbolico, di questo avvenimento. Qual è la gestione della democrazia nello Stato che dovrebbe esserne il campione? Siamo sicuri che non sia già in atto una conflittualità tra potere pubblico e privato?». Ci rassicuri: in Italia queste cose non accadono, g iu s to? «Il nostro elettorato ha una variabilità del 16,5%, una bella “fett a” da poter influenzare, non crede? Anche in Italia c’è la pubblicità online, anche da noi le big tech monetizzano. Non vedo perché non dovrebbero avere interesse di influenzare quella fetta di e l etto r i » . C’è chi controlla intern et? «Ecco, aspettavo questa sua domanda perché su questo c’è una novità freschissima» (Prende un plico di fogli in inglese, li tradurrà all’istante mostrandomi le pagine che più lo hanno colpito). C o s’è? «Questo è il report dell’u lti ma versione di Gpt, che si chiama G pt 4 » .Che spiegato semplice è…. «…un prodotto fatto dagli ingegneri di una società che si chiama OpenAi. È un modello cioè un sistema informatico che imita le capacità dell’intelligenza umana, come il ragionamento, l’apprendimento, la pianificazione e la creatività basandosi su algoritmi che elaborano i dati e producono risposte». Cosa dice quel report? «Le anticipo che la parte più preoccupante è alla fine. Ma andiamo per ordine: questo nuovo modello ha stupito persino i suoi ricercatori per le numerose novità. Ha mostrato di saper unire diversi elementi in un quadro di senso e sa riconoscere cosa ci sia di strano in u n’immagine o risolvere un difficile problema matematico a partire da una sua foto. Un dettaglio poco importante ma molto folcloristico è che tra le capacità linguistiche di Gpt4 spicca la lingua l’inglese ma subito dopo viene l’i ta l i a n o » . È stata addestrata bene, quindi. «Sì, ma per la prima volta OpenAi condivide alcune informazioni ma non tutte. Non sappiamo dei dati utilizzati, dei costi energetici, quali sono stati i metodi per creare l’h a rdwa re » . Da open a cl o s e d . «Rendendo così difficile - dicono alcuni - lo sviluppo di misure di salvaguardia contro il tipo di minacce poste da sistemi di intelligenza artificiale, per esempio. In un’inter - vista Ilya Sutskever, scienziato capo e cofondatore di OpenAi, ha detto di non voler condividere ulteriori informazioni per paura della concorrenza e per timori di sicurezza. Senta cosa scrivono qui: “Al - cune capacità rimangono difficili da prevedere”». Cioè? Sfugge al controllo? «I ricercatori si sono accorti che il modello può avere la capacità di adottare strategie a lungo termine. E che va alla ricerca di potere e risorse. Guardi questa nota quasi nascosta a pagina 53: OpenAi ha dato a ll ’Alignment Research Center (Arc) degli Stati Uniti l’accesso anticipato ai modelli per consentire al loro team di valutare i rischi derivanti da comportamenti di ricerca del potere. Sa che cosa ha tentato di verificare l’Arc? Se il modello fosse in grado - se dotato di libertà, un conto in banca e potere - di guadagnare di più e creare copie di se s te s s o » . Un film di fantascienza che è già rea l t à? «Per fortuna - dico io - le versioni di Gpt4 valutate erano inefficaci nel compito di replica autonoma in base agli esperimenti preliminari condotti. Non è una intelligenza artificiale quindi, ma ne mostra alcuni tratti salienti. Mi chiedo però: di fronte alla meraviglia per quanto fatto e di fronte all’emergere di capacità non previste, dobbiamo essere preoccupati o andare avanti senza paura? Per rispondere, temo, è indispensabile l’algoretica, cioè u n’etica dell’a l go r i tm o » . La politica se ne rende conto? «Lo chiedo anche io. Quando dovevamo vaccinarci, un algoritmo ha scelto l’ordine delle iniezioni. Sono stati rispettati i principi della Costituzione? Chi vigila? E, alla luce di quanto le ho letto, qualcuno si rende conto che occorrono regole? Torniamo qui alla questione della libertà che mi ha posto all’i n i z io d el l’intervista: chi davvero conosce oggi le finalità di questi modelli? La loro capacità di influenzare l’essere umano, in una maniera nuova e non prevedibile, come dicono i suoi stessi creatori?».

«Il sistema è fragile Alzare in fretta i tassi è la risposta errata»

 

«Il crac della Silicon Valley Bank è un segnale di allarme. Un avvertimento di ciò che può accadere con l’aumento accelerato dei tassi d’interesse. Ha fatto bene il ministro dell’E c onomia, Giancarlo Giorgetti, a mettere in guardia dalle ripercussioni che incrementi troppo ravvicinati del costo del denaro, possono avere sul debito pubblico e sull’economia reale». Giampaolo Galli è economista e direttore dell’O s s e r vatorio sui Conti pubblici italiani dell’Università Cattolica di Milano. Ci sarà un impatto sui conti pubblici i ta l i a n i ? «Non c’è un impatto diretto. Il crac della Silicon Bank ci ha fatto scoprire che c’è una fragilità nel sistema finanziario globale dovuta alla combinazione di tassi di interesse che si alzano velocemente e di livelli di debito molto alti. L’aumento del costo del denaro tende a provocare un rallentamento dell’eco nomia e ad aumentare le sofferenze bancarie. La situazione non è ancora paragonabile a quella del 2008, ma la crisi dei mutui subprime è cominciata così. Quanto è successo dovrebbe indurre le banche centrali, a cominciare dalle Bce, a una certa cautela nella velocità con cui usa la leva monetaria. È evidente che il livello dei tassi è basso. Quello della Bce sui depositi delle banche è al 2,5% mentre l’i n f l azione viaggia tra l’8 e il 10%. È comprensibile che le banche centrali vogliano agire sui tassi, ma farlo rapidamente rischia di non dare il tempo agli operatori di sistemare i conti adattandosi alla nuova realtà. Il terremoto della Silicon Valley Bank ce lo dimostra». Come si è arrivati a questo? Non era prevedibile? «Per lungo tempo la Fed e la Bce hanno sottovalutato la corsa dell’inflazione e hanno invaso il sistema di liquidità, inducendo gli operatori a indebitarsi: secondo il World Debt Monitor del Fmi, la somma dei debiti di Stati, imprese non finanziarie e famiglie è al 250% del Pil mondiale; era sotto il 200% nel 2007, prima della grande crisi finanziaria; era al 100% nel 1970. Ora le banche centrali si trovano costrette ad aumentare i tassi molto rapidamente, per evitare di perdere credibilità. Ma aumenti molti rapidi in un contesto di debiti elevati possono creare problemi molto seri. Chi ha titoli all’attivo ha subìto delle perdite come nel caso della Silicon Valley Bank ma soprattutto chi ha titoli al passivo, specie in dollari, è nei guai seri». Non c’erano segnali che andando avanti di questo passo qualcuno si sarebbe fatto molto male? «Negli ultimi mesi vi erano stati parecchi segnali di preoccupazione, se non di allarme. In un’analisi del 10 gennaio, Fitch rilevava che il rapido aumento dei tassi e il Quantitative Tightening (la riduzione della dimensione del bilancio della Fed) stava mettendo sotto pressione la liquidità delle banche. La principale preoccupazione era il peggioramento della qualità dei prestiti legato al temuto rallentamento dell’economia; a questo si aggiungevano le perdite, anche se non realizzate, sui titoli e la rapida riduzione della consistenza dei depositi, anch’essa dovuta all’aumento dei tassi di interesse. La previsione di Fitch era di una riduzione dei depositi da 19,4 mila miliardi a 17,8 mila miliardi alla fine del 2023. Anche le riserve bancarie stanno scendendo rapidamente. Dai 4,3 mila miliardi di dicembre 2021 sono scese ai 3 mila miliardi oggi. Il Fondo monetario internazionale ha lanciato il warning per la situazione in cui si trovano molti Paesi in via di sviluppo fortemente indebi tat i » . E l’Ita l i a? « L’Italia è un Paese indebitato anche se sommando debito pubblico e privato, non è fra i più indebitati al mondo. Aumentare rapidamente i tassi, significa creare problemi per tutti coloro che devono rinnovare il debito in scadenza e per chi ha mutui a tassi variabili. Questa politica incalzante di aumenti del costo del denaro può mettere in crisi interi Stati. Basta guardare quello che sta accadendo in Pakistan. Il default non è stato solo determinato dai rovesci climatici. Era fortemente indebitato in dollari come tanti Paesi emergenti e in via di sviluppo». A fronte di questa situazione l’Italia che può fare? «Noi non possiamo fare altro che continuare il percorso indicato nel progetto di bilancio del novembre scorso per ridurre il deficit al 3% al 2025. Dal 5,6% attuale al 3% è un balzo di due punti e mezzo, non facile da realizzare perché significa tenere strette le briglie della spesa pubblica. Ma è un percorso obbligato e fa bene il ministro Giorgetti ad insistere su questa strada. Dopo un paio anni di debiti causati dalla politica dei sostegni a causa del Covid e della crisi energetica, che sono aumentati come se non ci fossero più tetti, ora ci rendiamo conto che il vincolo di bilancio esiste. Il crac della Silicon Valley Bank ce lo ha ricordato». 

martedì 21 marzo 2023

NEW ECONOMY, la fine di un'illusione?

 

Il crac della Silicon Valley Bank, la banca delle start up tecnologiche, e della newyorchese Signature Bank, chiusa a causa dei legami con le criptovalute, che hanno fatto tremare le borse e mandato a picco i titoli bancari di tutto il mondo, mette in crisi quel tecno-ottimismo incondizionato e cieco che ha finora dominato i mercati e l’economia mondiale. Dietro il fallimento della Svb non c’è solo un sistema di controlli troppo lasco e la politica del rialzo dei tassi della Fed, c’è anche la crisi di liquidità delle big tech che per anni si sono ingrassate di liquidità a costo zero e sono cresciute a dismisura favorite dalle valutazioni ipertrofiche delle banche d’affari che in esse vedevano il nuovo Eldorado. Durante la pandemia il settore ha fatto i suoi affari migliori grazie alla grande accelerazione nell’uso di servizi tecnologici. Un esempio su tutti: l’utile di Google nel 2021 è stato di 76 miliardi, contro i 40 del 2020. Gli organici si sono gonfiati. Fino a quando non è arrivata la stretta monetaria delle Federal Reserve e allora l’aria è cambiata. La Silicon Valley Bank aveva come sua clientela le start up tecnologiche che finanziava senza farsi tanti problemi sicché quando le big tech sono andate in crisi, il meccanismo è s a l tato. Come ha scritto l’Ec o n o - m i st le start up tecnologiche sono state più colpite di altre dall’aumento dei tassi di interesse, imposto per combattere l’inflazione. Il maggiore costo del denaro ha ridotto il valore dei profitti attesi dalle aziende e molti possibili investitori hanno iniziato a guardare altrove. Secondo Pitchbook, un fornitore di dati sul mercato azionario, nel 2022 gli investimenti globali da venture capital si sono ridotti di un terzo rispetto all’anno precedente. Negli Stati Uniti sono passati da 343 a 230 miliardi di dollari. E sono arrivati i licenziamenti. Google ha licenziato 12.000 persone da un giorno all ’altro, Amazon 18.000, Meta 11.000 e la settimana scorsa ne ha annunciati altri 10.000, Microsoft 10.000, Salesforce 8.000 e Twitter 4.000. Un imprenditore digitale americano, Roger Lee, subito dopo la pandemia ha lanciato una piattaforma, Layoffs.fyi, per registrare tutti i licenziamenti nel settore tech post Covid. Per il 2022 sono stati tracciati 161.061 casi e dall’inizio del 2023 circa duemila al giorno, per un totale di oltre 270.000 dipendenti lasciati a casa in tutto il mondo, ma principalmente negli Stati Uniti. Insomma quelle aziende dipinte come l’Eden del lavoro flessibile, sostenibile, del rispetto dei diritti e della valorizzazione della creatività, hanno cominciato a tagliare teste senza pensarci due volte. Quel mondo preso a modello dal sinistra, coccolato dal Partito democratico che peraltro ha finanziato (e che ora ricambia con il presidente Biden che ha salvato con soldi pubblici tutti i clienti della Silicon Bank), ha improvvisamente mostrato il volto arcigno e cinico del business. Google, al top delle classifiche delle migliori realtà in cui lavorare, ha licenziato migliaia di persone di cui non aveva più bisogno, con una semplice email. È evidente che le politiche di assunzione attuate durante la pandemia si sono rivelate troppo ottimistiche. Come si è rivelata ciecamente ottimistica la strategia della Svb che ha finanziato quasi la metà delle Ipo del settore tech da inizio anno senza coprirsi dal rischio del rialzo dei tassi. Ora che gli strumenti di politica monetaria che hanno alimentato la ripartenza si sono esauriti, il settore delle imprese tecnologiche, e la finanza ad esso collegata, deve riposizionare le risorse sulla base delle risposte e delle indicazioni del mercato. Il che significa all’i nte r n o delle aziende più spazio all’automazione rispetto al personale e per gli investitori una scelta più selettiva delle start up. Il vento di instabilità che viene dagli Usa può influenzare le imprese tecnologiche italiane? Gli effetti non sono diretti ma la crisi del settore è un campanello d’a l l a r m e. I tagli di Meta avrebbero dovuto colpire in modo massiccio anche l’Italia, con il licenziamento di 23 dei 127 dipendenti, ma poi il numero è stato dimezzato in virtù di un accordo sindacale. Ora con il nuovo piano di esuberi, tutto potrebbe essere rimesso in d i s c u s s io n e. Nel nostro Paese il rallentamento dell’economia, l’au - mento dei prezzi, dei tassi d’interesse, nonché dell’i ncertezza sul futuro, hanno già prodotto un calo delle nuove start up. Secondo un report del Cerved, nel 2022 sono nate solo 89.192 startup, il 10,6% in meno (10.587) rispetto al 2021, numero in calo anche sul 2019, quando per la prima volta si è invertito un trend positivo che durava dal 2013. Le mancate nascite del 2022 rischiano dunque di tradursi in 27.080 addetti in meno e in un calo di 2,5 miliardi di fatturato, perché le nuove società apportano ricchezza, dinamismo e competitività al sistema. «Il calo delle nascite è un segnale da non trascurare: le startup sono una leva di trasformazione del nostro sistema economico, apportano idee innovative, tecnologia e competitività», commenta amministratore delegato del Cerved, Andrea Mignanelli. L’impatto diretto invece si è fatto sentire sul mercato finanziario. Il salto dello spread tra Bund e Btp che ha superato quota 191, ha riacceso i fari sul debito pubblico e i rischi della speculazione. La politica binaria della Bce, de ll ’aumento del tasso di sconto e dell’acquisto di una quota inferiore di titoli di Stato, apre uno scenario denso di incognite. Da marzo la Banca centrale non rinnoverà l’acquisto di titoli pubblici in scadenza per 15 miliardi al mese in Europa e questo significa per l’Italia cercare 1,5 miliardi in più al mese tra gli investitori. C’è il timore che si scateni la speculazione sul l’onda delle perdite di Piazza Affari di questi giorni. L’Eurogruppo ha escluso una interconnessione tra le due banche americane e il sistema del credito europeo ma l’attenzione resta comunque a l ta . Il rischio che in Italia e in Europa si realizzino casi analoghi a quelli americani, è escluso dalle autorità bancarie per il meccanismo di controlli molto stringenti.

La Lagarde segue i suoi amati schemini Pazienza se portano dritti nel burrone

 

Con i tassi di interesse della Banca centrale europea al 3,5%, secondo la Fabi, il sindacato di chi lavora in banca, i mutui a tasso fisso sono raddoppiati, dall’1,8% sono passati al 4%, i mutui a tasso variabile sono arrivati al 2,8% dallo 0,6% del 2021. Tradotto   in quattrini, per un prestito da 150.000 euro della durata di 20 anni la rata mensile è salita da 160 euro a 825 euro per un gigantesco +24%. E la Bce ha fatto capire che non finisce qui, cioè è probabile che i tassi aumentino ancora, anzi, è quasi certo. Per le famiglie gli effetti sono in molti casi catastrofici, 600 euro circa in più al mese da pagare significa metterle in condizione di non poter pagare il mutuo oppure, per riuscirci, vivere una vita grama (facendole scivolare sotto la soglia della povertà ass o luta) . Per le imprese, invece, significa limitare gli investimenti per fidi con tassi insostenibili anche per loro, con conseguenze amare per la produzione e per l’occupazio - ne, cioè con un incremento della disoccupazione. Tutto questo sotto la guida della presidente della Bce, madame Christine Lagarde che in italiano si chiamerebbe Cristina Laguardia ma purtroppo non è lei che fa la guardia ai nostri interessi, dei quali sembra non essere interessata un granché - detto male, se ne fotte -, ma siamo noi che dobbiamo tenerla di guardia perché, preoccupandosi solo dell’i nflazione, non ci procuri invece un infezione tale da aver bisogno, più che della Laguardia, dell’intervento della Guardia medica o direttamente di una guardia dello spirito che ci amministri l’estrema unzione. Ma perché nonostante gli effetti avversi della sua politica continua imperterrita nella sua politica di rialzo dei prezzi. Perché sembra costretta dentro uno schemino mentale da primo anno di università dove si impara che l’in - flazione si combatte alzando il costo del denaro così vengono presi meno soldi in prestito da famiglie e imprese, cala la moneta circolante, in giro, con l’obiettivo di ridurre i consumi di beni e servizi che, a sua volta, dovrebbe indurre le imprese a rivedere i prezzi al ribasso. Schema ineccepibile, ma solo teoricamente perché poi va adattato alle diverse situazioni e questa che stiamo vivendo, almeno in Italia - ma non solo - richiederebbe una politica monetaria diversa (oltre ad una politica egualmente diversa della Ue) perché questa è sbagliata. Ma Laguardia ragiona come quel chirurgo che, all’uscita della sala operatoria indossando ancora il camice e il cappellino verdi e i guanti bianchi, dice ai parenti: «Intervento perfettamente riuscito, il paziente è morto». La chirurga Laguardia potrebbe dire lo stesso, tra non molto, dell’economia europea. A partire dall’Italia. Del resto prima di toccare a noi subirne scelte sbagliate lo ha fatto dal Fondo monetario internazionale imponendo, assieme alla banca mondiale, politiche economiche e riforme ai Paesi in via di sviluppo indipendentemente dalle loro diverse situazioni e portandoli sull’o rl o del fallimento. La Laguardia sbaglia perché questa non né un’inflazio - ne da domanda di beni e servizi eccessiva che induce le imprese ad alzare i prezzi provocando l’inflazione, né da rialzo dei salari cioè due tipi di inflazioni che tendono a far spendere di più alle famiglie e a far alzare i prezzi dei prodotti alle imprese che si trovano di fronte ad una domanda che le induce a ritenere che ci sia disponibilità di comprare e quindi che si possano alzare i prezzi. Qui non c’è da alzare il costo del denaro per far consumare di meno perché i consumi son già in grande sofferenza, come rilevato da tutti gli istituti di ricerca. Forse la Laguardia non ha il tempo di documentarsi, ma poi chissenefrega degli studi che descrivono la realtà, l’importante è l’applicazione beota del modellino e via coi rialzi dei tassi. Certo che non si poteva continuare a tenerli a zero come fatto per ridare fiato nella crisi del Covid, ma arrivare da zero al 3,5 in sette mesi è follia pura. Est modus in rebus, dicevano i latini: c’è modo e modo di fare le cose. Il suo è sbagliato. Radicalmente sbagliato. Questa è un inflazione da costi energetici e delle materie prime e non siamo in presenza di un Pil che si sviluppa al galoppo, ma da lumaca. I costi, naturalmente, si ripercuotono sui consumatori attraverso i prezzi che aumentano perché sono aumentate le materie prime e le energie per le imprese e per le famiglie, contemporaneamente. Allora la Laguardia - che sembra una sentinella che fa il turno di notte e che si è addormentata - per combattere l’in f la zion e da costi ha pensato bene di aumentarne uno: quello del denaro preso a prestito andando ad appesantire ulteriormente famiglie e imprese. Risultato: le famiglie hanno meno soldi da spendere per consumi, le imprese meno possibilità di investire (costando troppo il denaro da prendere in prestito). Chiedo, ma è così difficile c api rl o? L’unica cosa che c’è da augurarsi è che i costi energetici calino e così le materie prime, cioè che ci pensi il mercato. Ma allora cosa ci stanno a fare le istituzioni europee economiche e monetarie? Poveri noi con Laguardia che non guarda alla realtà - che evidentemente non conosce - e guarda lo schemino sul libro di testo del primo esame che ha sostenuto all’università. La Laguardia la realtà non la guarda.

lunedì 20 marzo 2023

Impariamo la lezione della pandemia o con il «green» saremo da capo

 

Quale grande lezione per questa generazione è stata la pandemia. Ora che le nuvole si stanno diradando, che la polvere si deposita, stiamo prendendo atto che la mole enorme di dettagli, dati, dichiarazioni, provvedimenti, appelli all’autorità, appelli alla scienza, appelli alla responsabilità, campagne vaccinali, pensose riflessioni sulla nuova vita «in remoto» che il Covid ha prodotto, tutta questa roba, le centinaia di ore di talk show a pendere dalle labbra di un tizio che diceva che con la terza dose la protezione sarebbe stata di cinque o magari dieci anni, tutto questo immenso materiale serviva per creare rumore di fondo. Nei messaggi che si mandavano tra di loro, politici ed esperti, le questioni erano sempre le stesse: tenere buona la gente, dire che c’è pericolo, dire che i vaccini sono la salvezza e poi via verso la nuova dirompente novità da buttare nei media. Un continuo calcio al barattolo nell’atte - sa che la pandemia finisse per esaurimento, come sempre, come tutte le pandemie. Messa così in effetti non era facile per nessuno mantenere la lucidità di capire cosa fosse giusto fare e cosa sbagliato, chi mentiva e chi diceva la verità, perché quando si mente «a fin di bene», signori miei, più si mente e più bene si fa. I misteri rimarranno per sempre, come sempre, nessuno saprà mai spiegare perché ci si è rifiutati di curare le persone come nessuno spiegherà mai come è stato possibile somministrare al mondo un farmaco a patto di sollevare da ogni responsabilità chi l’ha prodotto, ecco perché «complottista» è solo un modo invidioso di definire qualcuno più sveglio di te. In Germania il ministro della Sanità, Karl L aute r bach , ha posto fine, anche se i media italiani hanno fatto finta di non accorgersene, all’a n n osa diatriba tra «vaccinisti» e «no vax» una volta per tutte: considerando gli ultimi dati ufficiali a disposizione del governo tedesco si possono stimare effetti avversi gravi nella misura di una dose ogni 10.000 e chissà se questa volta basterà l’auto revolezza di un ministro del Paese-guida dell’Unione europea, supervaccinista e di sinistra, a convincere gli esperti che non è stato «come prendere l’a s pi r i n a » . Già, perché quando, nel luglio 2022, L aute r bach d i sse cose analoghe fu tutto un  fiorire di esperti che dicevano che non era vero, che i dati erano incompleti, addirittura che «si è sbagliato a leggere». Ma chi se ne frega se si è sbagliato a leggere o se vi siete sbagliati voi su tutto sempre sin dall’inizio, è tutto rumore di fondo. Il fatto è che gli effetti avversi esistono e sono in misura mai considerata accettabile in precedenza, il fatto è che l’eccesso di mortalità esiste, il fatto è che se i morti a causa del vaccino in Italia sono settanta, settecento o 5.000, sono comunque sempre troppi, perché stiamo parlando di un vaccino che non impediva il contagio, imposto in maniera obbligatoria e sostenuto dall’i ntroduzione di un lasciapassare per lavorare. Non c’è tanto da discutere sui dettagli, si è scelto di fare cose socialmente inaccettabili e spesso inutili dal punto di vista sanitario, tutto il resto è rumore di fondo, tutto il resto sono banchi a rotelle. La politica ha creato scientemente scontro sociale e divisioni non più rimarginabili del tessuto civile in nome di una visione razzista e comicamente semplicistica delle persone: chi obbedisce è buono e chi non obbedisce non ha ragioni, non ha motivi, non ha giustificazioni, semplicemente è un essere inferiore e va discriminato, «bisogna causargli disagio fisico e mentale». stiche è lenta, l’al la rm e non scatta, il piano pandemico, menzionato en passant nella task force di S p era n za da Giuseppe Ippolit o, dello Spallanzani, rimane nel cassetto. I numeri, però, parlano chiaro. Solo le dimissioni per polmonite, bronchite e insufficienza polmonare o respiratoria, in Lombardia, passano dalle 52.767 del 2018 alle 54.764 del 2019, con un aumento marcato a dicemb re. Per l’ennesima volta, ciò che emerge dalle carte della Procura di Bergamo (purtroppo) conferma ciò che da tempo sosteniamo. E cioè che la vera emergenTroppo tardi per le scuse di questi giorni, si è trattato di ipnosi di massa: ho fatto tre dosi e ho ripreso il Covid per la terza volta per colpa dei non vaccinati. Ciò a cui abbiamo assistito nei due anni di pandemia è la perfetta rappresentazione di come il potere gestisca le masse, mai nella storia se ne era data una rappresentazione così chiara e inequivocabile. E gli stessi schemi, le stesse modalità, gli stessi metodi vengono utilizzati per le iniziative «green», per il «climate change», per «il mondo che finirà tra quattro anni», per i pugili maschi che decidono di fare pugilato femminile. Il peggiore degli errori che possiamo fare ora sarebbe non comprendere come la lezione che il Covid ci ha impartito non sia stata sanitaria ma politica, non sui farmaci ma sulla gestione del potere attraverso i media digitali. Se ce ne dimenticassimo il Covid sarebbe passato invano.

L’Abi distrugge la direttiva dell’Ue sulle case green: «Troppe criticità»

 

Anche l’Abi punta il dito con la direttiva case green dell’Ue, quella che prevede una ristrutturazione obbligatoria degli immobili per renderli meno dispendiosi sotto il profilo energetico. Secondo l’A s so c i az ion e bancaria italiana, la norma presenta diverse «criticità» e le banche potrebbero avere difficoltà a erogare finanziamenti ipotecari a soggetti con più basso merito creditizio. In parole povere, la norma non tiene in considerazione il fatto che molti italiani potrebbero non avere i fondi per efficientare la propria abitazione e per questo lo Stato potrebbe dover venir loro in aiuto. Posto sempre, precisa l’Abi, che il processo di finanziamento deve basarsi necessariamente su una solida valutazione del merito di credito per evitare fenomeni di sovraindebitam e nto. A parlare è il direttore generale dell’Abi, Giovanni Sabatini, nel corso dell’aud i z io n e davanti alla Commissione della Camera sulle Politiche della Ue parlando della direttiva Epbd (Energy performance of building directive), sulla riqualificazione energetica degli immobili. Gli obiettivi, osserva Sa bati n i , «ancorché astrattamente condivisibili, per il nostro Paese sarebbero difficilmente raggiungibili nei tempi previsti». La direttiva Epbd così formulata non permetterebbe all’Italia di raggiungere gli obiettivi di performance energetica e questo avrebbe un effetto negativo per le banche: «Potrebbe comportare una svalutazione delle garanzie acquisite dalle banche per la concessione dei mutui ipotecari». La norma Epbd, quindi, «ha criticità e va rivista» commenta Sa bati n i . «In Italia, per raggiungere almeno l’obiettivo intermedio della classe energetica F nel comparto residenziale, andrebbe ristrutturato il 60% del patrimonio immobiliare (circa 8 milioni di edifici)», ha osservato il direttore generale de ll’Associazione bancaria italiana. «L’entità degli investimenti da realizzare avrebbe impatti molto rilevanti in particolare sui proprietari meno abbienti. Anche immaginando interventi di sostegno pubblico, non tutti i proprietari di casa avrebbero le disponibilità finanziarie o sarebbero in grado di contrarre mutui (o ulteriori finanziamenti) per interventi di ristrutturazione energetica», spiega Sa bati n i . «D’altra parte, anche le banche potrebbero avere difficoltà a erogare finanziamenti ipotecari a soggetti con più basso “m e r i to c re d i t i z io”, posto che il processo di finanziamento deve basarsi necessariamente su una solida valutazione del merito di credito, per evitare fenomeni di sovraindebitamento (cosiddetto principio del credito responsabile)», dice. «Per questa fascia di popolazione dovrebbe dunque intervenire lo Stato con oneri rilevanti per la finanza pubblica in un arco temporale molto ristretto. Inoltre, non tutti gli immobili - ancorché oggetto di riqualificazione - potrebbero raggiungere gli obiettivi di performance energetica imposti dalla Epdb per via delle loro caratteristiche e del grado di vetustà. L’enfasi sulla riqualificazione energetica», ha concluso, «potrebbe portare a trascurare la più immediata esigenza di ristrutturazione per la messa in sicurezza del patrimonio immobiliare del Paese rispetto al rischio di calamità naturali (tra cui in particolare il rischio sismico)». Sa bati n i, insomma, mette l’accento sulle scarse possibilità economiche di una fetta della popolazione, fattore che comporterebbe l’esborso di soldi pubblici, e sul particolare patrimonio immobiliare storico presente in Italia, poco incline a ristrutturazioni strutturali che rischierebbero di deturparlo. Senza considerare che, secondo l’e s p e rto, la norma rischierebbe di ridurre il «valore di mercato degli edifici che presentano classi energetiche più basse».

Non bastano gli sforzi italiani a fermare la follia europea contro allevamenti e stalle

 

No n o s ta nte un catenaccio ben organizzato dal ministro dell’ambiente e della sicur ezza energetica Gilberto Pichetto Frati n l’Italia sul nuovo pacchetto green a Bruxelles ha incassato un 2 a 0 secco. Ora palla al centro; si va al trilogo (la discussione congiunta tra Parlamento, Commissione e Consiglio europeo) con la speranza di tessere alleanze che ci consentano almeno un pareggio. Non ha fatto breccia la posizione italiana contraria sia sulle emissioni industriali con l’equiparazione degli allevamenti zootecnici alle industrie inquinanti e con un limite abbassato a cento capi dopo di che scatta la tassa, cioè il pagamento dei famosi e famigerati Ets i permessi a inquinare, sia sul regolamento che vuole spingere verso imballaggi non da riciclare ma da r i u s a re. Su questo punto specifico Pichetto Fratin, come aveva anticipato ieri La Verità attra - verso la lettera della viceministro Va n nia Gava (Lega), è stato duro, evidenziando le contraddizioni del regolamento. Ma stavolta la presidenza di turno svedese non ha inteso rinviare la discussione, ha messo ai voti e a parte 4 astensioni e il no dell’Italia i documenti sono passati. Per l’Ita l i a si paventa un danno enorme anche se sugli imbalaggi ci può essere un ulteriore ripensamento. In quel settore deteniamo la leadership europea (oltre 33 miliardi di fatturato, oltre 2 miliardi dalle bioplastiche) e siamo di gran lunga il Paese più virtuoso in Europa con il 72% dei materiali riciclati (la media Ue è del 53%) attività che dà lavoro a 360.000 persone, impiega 4.800 imprese e genera 10,5 miliardi di valore aggiunto. Ebbene, nel Regolamento si stabilisce in sostanza che si devono adoperare imballaggi riusabili e questo per l’agroa - limentare è una mazzata: le monoporzioni vengono abolite, saltano gli imballaggi di frutta e verdura in quantità r id otta . Un’altra mazzata c’è per gli allevamenti. Con la bozza approvata ieri dal Consiglio del ministro dell’ambiente si stabilisce che un pastore che porta il suo gregge sulla Sila o che ha una mandria in alpeggio ad Asiago deve sborsare 90 euro a tonnellata di CO2 esattamente come la più inquinante delle industrie. Tutto questo nel Paese di gran lunga più virtuoso d’Europa. Con circa 400.000 tonnellate di CO2 l’Italia vale meno dell’1% delle emissioni mondiali e ha u n’impronta carbonica che è la metà di quella della Germania che viaggia (avendo riaperto anche le centrali a carbone) attorno alle 900.000 to n n e l l ate. In Italia l’agricoltura impatta intorno al 7% (in Europa è quasi l’11%) le altre fonti, misurate dall’Ispra sono: l’ener - gia pari al 56,1%, i trasporti 24,4%, i processi industriali 8,1% e i rifiuti 4,3%. Nel settore agricolo i pesi delle emissioni sono questi: il 5 % e riferibile alla zootecnia, mentre il restante 1,7% alle coltivazioni di prodotti non destinati all’ali - mentazione zootecnica. Il settore avicolo pesa solo il 3,3% del totale, a fronte del 68,7% dai bovini, dal 12% dei suini, 8,5% degli ovini, 4,5% bufalini, 1,5% equini, 0,6% conigli. La zootecnia italiana in 20 anni ha ridotto le proprie emissioni del 25%. C’è poi un recentissimo studio condotto dall’Universi - tà di Oxford che ha cambiato i metodi di calcolo degli inquinanti in atmosfera e ripreso in Italia dal professor G iu s e p p e Pu l i n a secondo cui, considerando che gli allevamenti emettono principalmente metano che ha vita breve nell’atmosfera, addirittura le stalle italiane hanno sottratto in dieci anni 49 milioni di tonnellate di CO2 dall’atm o s fe ra . Partendo da queste considerazioni ieri a Bruxelles Pi - chetto Fratin ha messo nero su bianco: «L’Italia non può esprimersi favorevolmente sul compromesso proposto dalla presidenza svedese sulla direttiva sulle emissioni industriali perché crea problemi di fattibilità». Il ministro ha evidenziato tre punti critici osservando: «L’a m p l i a me nto d el l’ambito di applicazione agli allevamenti non è accettabile anche se migliora il testo della Commissione, ma oneri amministrativi e impatto sul settore sono eccessivi; le deroghe non consentono analisi costi-benefici integrati; i riferimenti alla tutela della salute umana sono confusi e c’è il rischio di sovrapposizione con altre normative». La Coldiretti - che ha organizzato un fronte di resistenza zootecnico trovando alleanze in tutte le associazioni agricole europee - se plaude alla fermezza di Pichetto Fratin so - stiene con il presidente Etto - re Prandini: «La battaglia non è finita, questa direttiva ammazza stalle va contrastata perché porterebbe alla chiusura di migliaia di piccoli allevamenti. Oltretutto si tratta di un approccio ideologico fondato su dati imprecisi e vecchi che va stigmatizzato, anche perché potrebbe avere impatti negativi sull’ambiente con la perdita di biodiversità, paesaggi e spopolamento delle aree rurali». Palla al centro, si spera nella gara di ritorno al Parlamento di Strasburgo.