STUPIDA RAZZA

sabato 30 aprile 2022

Nell'interesse di chi Draghi ci trascina dentro questo conflitto?


 

Guardia ancora alta, in tre mesi 16mila morti con Omicron

 

MA COME BRUTTI PARACULI,PRIMA AVETE DETTO CHE IL VACCINO SERVIVA PER EVITARE I CONTAGI,POI PER EVITARE LE TERAPIE INTENSIVE E I DECESSI !

La decisione di far indossare le mascherine ancora in diversi luoghi al chiuso era nell’aria, ma a spingere ancora una volta il Governo sulla strada della cautela sono stati i numeri: soprattutto quelli dei decessi. Sono ormai trascorsi tre mesi di convivenza con Omicron e quello che si è capito è che questa variante, protagonista incontrastata della lunga coda della quarta ondata della pandemia per la sua alta contagiosità, è tutt’altro che una influenza. Se è vero che provoca meno casi severi grazie anche alla protezione del vaccino è pure vero che i tantissimi contagi - ieri 69mila dopo i 100mila casi dei giorni scorsi - alla fine hanno provocato conseguenze anche sui ricoveri e poi sui decessi. Da quando il 31 gennaio, secondo la flash survey dell’Iss, Omicron era presente nel 99,1% dei tamponi si sono contati oltre 16mila morti - quasi il 90% over 70 e over 80 -, il doppio di un tradizionale virus influenzale che nelle stagioni record non supera 8-10mila morti in 6-8 mesi. Anche nell’ultima settimana si è viaggiati a una media di 148 morti al giorno (ieri 131). Numeri lontani da quelli delle ondate più drammatiche quando si superavano anche i 500 morti al giorno, ma comunque significativi. Non solo, come dimostra l’osservatorio del day hospital del Policlinico Gemelli di Roma è ormai evidente che anche la variante Omicron è responsabile di casi di Long Covid, la sindrome che dopo diversi mesi colpisce chi è stato contagiato, anche se sembra con sintomi più leggeri. «In base a quello che osserviamo nei pazienti che arrivano alla nostra struttura circa l’80% a tre mesi di distanza dall’infezione ha ancora dei disturbi e degli strascichi. Ovviamente da noi viene soprattutto chi sospetta di avere il cosiddetto Long Covid, ma anche i sani che vogliono fare degli accertamenti», avverte Matteo Tosato responsabile del Day Hospital Post-Covid del Gemelli, struttura che ha appena tagliato il traguardo dei 2 anni di attività e ha seguito circa 3mila pazienti di cui 500 in età pediatrica. Ma chi è stato infettato con la variante Omicron rischia anche il Long Covid? «Assolutamente sì - spiega Tosato - anche se i pazienti post Omicron con Long Covid che abbiamo visto sono ancora pochi: circa una trentina. Non possiamo dunque ancora fare analisi su base scientifica, ma dal punto di vista aneddotico possiamo dire che la percentuale di pazienti con Long Covid dopo Omicron potrebbe essere più bassa e forse con sintomi più leggeri, ma bisogna capire se questa incidenza apparentemente più bassa dipenda dalla variante o dal fatto che nel frattempo le persone si sono vaccinate anche con più di due dosi, cosa che sembra avere un impatto anche sul Long Covid». «Il messaggio però che non deve passare - conclude il responsabile del day Hospital Post-Covid del Gemelli di Roma - è comunque che con Omicron questo virus sia come una influenza e non lasci strascichi su chi si è infettato».

Il nodo Transnistria cruciale per l’export di grano ucraino

 

Un’altra mossa sullo scacchiere della Transnistria: il rimpallo di responsabilità degli attentati. Russi e ucraini, quasi all’unisono, si rinfacciano la colpevolezza delle esplosioni nella Repubblica autonoma della Transnistria, regione filorussa, lingua di terra che separa la Moldavia dall’Ucraina. Non solo. Mosca e Kiev si minacciano: Aleksey Arestovich, consigliere del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, dice che «l’esercito ucraino potrebbe prendere la Transnistria, se necessario». Il portavoce del Cremlino, Dimitrij Peskov, replica così: «Parole piuttosto provocatorie. Questo è tutto ciò che posso dire». Il portavoce ucraino dell’Amministrazione militare regionale, Sergi Bratchuk, uomo di Zelensky, dice che «le forze di difesa continuano a combattere per la protezione e la difesa di Odessa e della regione». Al di là delle accuse, gli analisti militari danno una spiegazione tattica: colpire ciò che resta dell’economia ucraina, debilitarla nelle vie di comunicazione per l’export. I missili che hanno danneggiato il ponte sull’estuario del fiume Dnestr fanno pensare che la Russia di Putin voglia isolare Odessa da qualsiasi collegamento con la Moldavia e interrompere il traffico con la Romania. Le esportazioni di grano dell’Ucraina destinate al porto romeno di Costanza diverrebbero impraticabili e un altro ganglio dell’economia ucraina verrebbe soffocato. Una attenta analisi di Limes rivela che la presenza in Transnistria di pochi ma strategici ponti a Rîbnița, Dubăsari, Gura Bâcului e Bender permetterebbe a una costituenda Nuova Russia di sviluppare un’efficace politica doganale sul proprio fronte più occidentale. Va ricordato che, anche nella guerra tra Russia e Ucraina, le operazioni di “false flag”, tattica militare che utilizza reparti di intelligence e spionaggio per attribuire ad altri la responsabilità di attentati, sono all’ordine del giorno. Per questo è davvero difficile capire chi sia il responsabile di sabotaggi e distruzione di infrastrutture. Il rimpallo di responsabilità tra Russia e Ucraina genera grandi preoccupazioni anche al governo moldavo. In primis perché Chisinau, capitale della Moldavia, non ha mai riconosciuto l’autonomia della Transnistria e continua a considerarla parte del proprio territorio. In secundis perché, con soli 3,5milioni di abitanti, vive di un’economia vincolata a quella russa ed è totalmente dipendente dal gas russo. I contratti di fornitura vengono decisi a Mosca, nei prezzi e nelle quantità. Insomma una dipendenza energetica e una sostanziale sudditanza politica. Maia Sandu, presidente della Moldavia, non ha nascosto le sue preoccupazioni, dichiarando che «ci sono tensioni tra varie forze della regione, interessate alla destabilizzazione. Ciò mette la Transnistria in una posizione vulnerabile e crea rischi per la Moldavia». Uno sguardo alla carta geografica e soprattutto all’orografia dà un’idea chiara della posta in palio. La Transnistria è una regione chiave e il fiume Dnestr è il confine naturale del mondo russo, Russkij mir. Da Mosca è considerata la soglia di sbarramento contro la Nato in espansione.

Possiamo eliminare la dipendenza da gas russo? AAHAHAAHHAAHAHAHAHAHAHAAH, ma certo, come no.

 

Nella settimana in cui Gazprom ha finalmente fatto ciò che l’Europa temeva avrebbe fatto e ha iniziato a tagliare le forniture di gas ai paesi che non erano disposti a pagarli in rubli, la dipendenza russa dal gas ha davvero colpito i riflettori. E almeno un paese in Europa crede di poter eliminare la sua dipendenza da esso prima di quanto si credesse in precedenza. Bloomberg ha riferito all’inizio di questa settimana che il Regno Unito potrebbe interrompere l’importazione di gas naturale russo prima della fine di quest’anno. Citando una fonte anonima che ha familiarità con i piani del governo, il rapporto rileva che le esportazioni di gas russe nel Regno Unito erano già una parte abbastanza esigua delle importazioni totali di gas da rendere possibile l’eliminazione graduale.

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Bitcoin: la criptovaluta diventa di corso legale in Africa!


La Repubblica Centrafricana (CAR) ha adottato bitcoin come moneta a corso legale, ha affermato mercoledì l’ufficio del presidente.

La mossa rende il paese africano la seconda nazione al mondo ad adottare ufficialmente BTC come valuta legale, consentendo ai suoi cittadini di utilizzarlo nel commercio regolare e di pagare le tasse.

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Gasolio per l’Europa? Ora viene dal Medio Oriente

 

Alcuni dei maggiori esportatori di petrolio greggio in Medio Oriente stanno aumentando in modo significativo le loro esportazioni di gasolio per motori  diesel in Europa, che sta cercando carburante nel mezzo di una massiccia crisi dopo che la Russia ha invaso l’Ucraina.

La crisi del diesel in Europa a causa delle sanzioni alla Russia ha sconvolto i mercati dei prodotti petroliferi a livello globale. I margini di profitto dalla  raffinazione del diesel sono quadruplicati dall’inizio dell’anno poiché i principali acquirenti di diesel evitano tutti i prodotti energetici provenienti dalla Russia o si aspettano una sorta di embargo sul petrolio russo.

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US: inaspettata decrescita economica nel primo trimestre. Disastro bilancia commerciale, ma ora ci penseranno le armi…

 

Cattive, e inaspettate, notizie dagli USA, che hanno colpito duramente la borsa. L‘economia americana ha registrato una contrazione annualizzata dell’1,4% su trimestre nei primi tre mesi del 2022, ben al di sotto delle previsioni di mercato di un’espansione dell’1,1% e dopo una crescita del 6,9% nel quarto trimestre del 2021, principalmente a causa di un deficit commerciale record e un calo degli investimenti in scorte . Le esportazioni sono diminuite del 5,9% (dal 22,4% del 4° trimestre), mentre le importazioni sono aumentate del 17,7% (dal 17,9% del 4° trimestre). Nel frattempo, la crescita degli investimenti privati interni lordi ha subito un forte rallentamento (2,3% contro 36,7%). Inoltre, la spesa pubblica è ulteriormente diminuita (-2,7% contro -2,6%). D’altro canto, i consumi (2,7% contro 2,5%) e gli investimenti fissi (7,3% contro 2,7%), in particolare quelli non residenziali, hanno contribuito positivamente al PIL.

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US GDP … SPLASH!

 

Figurarsi, ma chi è quello che continua a parlare di recessione, di Pil negativo, il solito pessimista, sai Bellezza, l’America cresce che è una meraviglia, la curva dei tassi che si inverte non significa nulla, questa volta è diverso…

New York, 28 apr. (askanews) – Il Prodotto interno lordo statunitense è diminuito nel primo trimestre del 2022 più del previsto, a causa dei primi effetti della pandemia di coronavirus. La lettura preliminare del dato diffuso dal dipartimento al Commercio ha registrato un -1,4%, contro il +1% pronosticato dagli analisti.

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Draghi prepara un piano strategico per l’energia italiana

 

MI DITE QUALE E' IL PIANOSTRATEGICO PER L'ENERGIA ITALIANA......?
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L’interruzione da parte di Mosca delle forniture di gas a Polonia e Bulgaria impone una nuova accelerarazione a Bruxelles come anche a Roma. Mario Draghi, tornato a Roma dopo l’isolamento causa Covid, ha avuto ieri una lunga telefonata con Volodymyr Zelensky nella quale ha ribadito al presidente ucraino l’impegno dell’Italia per una una soluzione «duratura» della crisi e con il quale tornerà a sentirsi a breve per la possibile trasferta a Kiev su cui però al momento non ci sono certezze. Contemporanemente da Palazzo Chigi ma anche da Washington è arrivata l’ufficializzazione della visita alla Casa Bianca il 10 maggio per l’incontro del premier con Joe Biden. Un appuntamento preceduto, martedì prossimo, dall’intervento di Draghi al Parlamento Ue che arriverà all’indomani del via libera al nuovo decreto contro il caro energia, i sostegni alle imprese e l’accelerazione sulle rinnovabili. Una agenda dunque fittissima quella del premier, che ieri ha concentrato l’attenzione su quello che a Palazzo Chigi hanno battezzato il «piano strategico» sull’energia al quale potrebbe successivamente affiancarsi la decisione per il contenimento del prezzo del gas. Al momento però le posizioni all’interno dell’Unione sono ancora distanti anche se la decisione di Putin di “punire” Polonia e Bulgaria potrebbe paradossalmente agevolare il raggiungimento dell’intesa. Se ne riparlerà nei prossimi giorni, parallelamente alla decisione sul sesto pacchetto di sanzioni. «Rafforzeremo il nostro piano di sicurezza energetico e insieme faremo in modo che a livello europeo si costruiscano le condizioni per un tetto massimo al prezzo del gas», ha confermato ieri il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, sottolineando che l’Europa deve scegliere «tra speculazioni finanziarie e tutele della famiglia e delle imprese».In alternativa resta la strada interna ovvero di un price cap nazionale, come deciso da Spagna e Portogallo che hanno ottenuto proprio nei giorni scorsi l’autorizzazione di Bruxelles. «La penisola iberica ha ottenuto questa deroga grazie alla sua posizione geografia ma credo che anche il Governo italiano, se non si raggiunge un accordo in Europa, debba procedere su questa strada», ha detto il segretario del Pd Enrico Letta che in vista del viaggio di Draghi a Washington chiede al presidente del Consiglio di essere «molto chiaro» con il Capo della Casa Bianca ricordando che l’Europa «non è a traino» ma al contrario esiste «una guida e una leadership europea di questa crisi». Quanto al prezzo del gas da segnalare la proposta presentata dal presidente della commissione Bilancio del Senato, il pentastellato Daniele Pesco in due emendamenti al decreto Taglia-prezzi all’esame di Palazzo Madama. L’obiettivo è sterilizzare l’impatto del TTF(Title Transfer Facility) il mercato olandese «le cui speculazioni sono state stigmatizzate dallo stesso premier Draghi e dal ministro Cingolani» introducendo «un tetto massimo del prezzo di gas ed elettricità sul mercato tutelato fissato a un valore che non ecceda il triplo del valore medio 2017- 2019» o, in alternativa,«il prezzo minore tra quello del TTF e il prezzo d’importazione». Intanto il Copasir, nella relazione sulle conseguenze della guerra sulla sicurezza energetica sottolinea che la crisi in atto può diventare un’opportunità per l’Italia rendendola «hub mediterraneo e quindi europeo». Per riuscirci però va accelerata la riduzione della dipendenza della Russia e il raggiungimento dell’autonomia anche «attraverso il potere sostitutivo dello Stato e lo snellimento di ogni processo autorizzativo» finalizzato a incrementare la produzione nazionale. Obiettivo che in parte dovrebbe trovare una prima significativa risposta proprio nel decreto che sarà lunedì all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri.

Un altro passo per separare il padre dai figli E renderli ansiosi e infelici

 

La decisione della Corte c o st i tuz io na l e di eliminare l ’ a u t o m a t ismo, giudicato «illegittimo» del solo cognome paterno ai neonati è un colpo di piccone sulla nostra storia e sulle nostre tradizioni. E un ulteriore passo verso la demolizione del ruolo di padre, sempre più sperato dai propri figli.Un cognome, due cognomi, poi quattro e poi otto. Al cognome del padre sarà aggiunto quello della madre, vale a dire del nonno paterno. Un’altra modifica fondamentale di cui avevamo un disperato bisogno, mentre sprofondiamo nella miseria più totale e siamo sull’orlo di una guerra nucleare. Se noi rappresentassimo l’età della pietra come un’a s ta lunga un metro, tutto quello che verrebbe dopo è un segnetto di mezzo millimetro. L’età della pietra è il periodo sicuramente più lungo della nostra esistenza sul pianeta. Noi abbiamo, quindi, un cervello preistorico, adattato all’età della pietra. Nell’età della pietra, l’unica possibilità, per un bambino, di sopravvivere era avere un padre. L’essere umano viene al mondo inabile, incapace e con un’ unica competenza: un pianto disperato con cui attira l’attenzione di qualcuno dotato di tenerezze e di mammelle, la mamma. La mamma non è stata in grado di cacciare, negli ultimi mesi di gravidanza, la mamma non è in grado di procurarsi cibo per molti mesi dopo la nascita. L’unica sopravvivenza possibile per il bambino è garantita dalla presenza del padre. L’essere umano è l’u n ic o neonato che, nascendo, fa chiasso. Tutti gli altri stanno zitti evitando, quindi, di attirare su di sé, e sulla mamma sfinita dal parto, grossi predatori. Noi nasciamo piangendo perché di fianco a mamma, con la sua tenerezza e le sue mammelle, sappiamo che deve esserci il papà con la sua forza virile, con la sua ferocia, con l’a g g re s s i - vità che adesso qualche idiota chiama mascolinità tossica, che ci difenderà da tutti i possibili predatori. Se il padre non c’è, il bambino non sopravvive. Il bambino ha questo, molto chiaro, nel suo inconscio. L’a s s e n za del padre, per lui, è ansia, paura, insicurezza, perdita di fede: «Valgo talmente poco che mio padre non è rimasto con me a proteggermi». Tutto questo è nell’inconscio, e nessun isterismo di modifica di parole può cambiarlo. Il padre era colui che proteggeva con la sua presenza, che spaccava la legna con la sua ascia per scaldare, e che teneva lontano da casa i malintenzionati. Ora a proteggere la casa ci sono porte blindate e polizia, la temperatura è mantenuta tiepida dalle caldaie, ma dove manca il padre si moltiplicano i disturbi fobici e la tristezza. Negli ultimi settant’anni, la depressione è aumentata del 1.000% e disturbo fobico del 1.200%. Un notevole numero di autori, R is è, R ic ci, Ma rches in i, G o b bi , indica come una delle principali cause di questo disastro la perdita dei padri. I padri sono derisi, ridicolizzati nella maggioranza dei film e delle narrazioni. Ug o Fa ntoz z i è un padre ridicolo. Homer Simpson è un padre ridicolo. Carlo Verdone ve - stito da boyscout è un padre ridicolo. In effetti, l’unico padre buono è quello morto: il padre di Harry Potter. Anticoncezionali e aborto hanno costituito la base della cosiddetta libertà sessuale, termine ampolloso con cui si indica la promiscuità sessuale. Oltre che le malattie sessualmente trasmissibili, questo comportamento sviluppa all’ennesima potenza la de-responsabilizzazione. Sempre più uomini considerano la paternità un privilegio, ma un peso. La contraccezione e l’infinita facilità e gratuità dell’aborto hanno avvalorato questo concetto. Noi portiamo nostro figlio nel ventre per nove mesi, e in quelli successivi alla nascita il legame è fortissimo. Prima di essere stata una persona, la madre è stata un posto, è stata l’universo stesso in cui il bambino si è formato. Il nostro rapporto col bambino rischia di essere eccessivamente simbiotico. Il compito del padre, in questa fase, è difendere la diade madre-bambino. Negli anni successivi alla prima infanzia, la presenza del padre è fondamentale, invece, proprio per allargare il legame madrebambino che rischia di diventare simbiotico. La madre protegge sempre, il padre insegna il coraggio. Dove i padri sono assenti, il coraggio si forma con più difficoltà. I cosiddetti padri che sfruttano il corpo delle donne, di chi ha venduto l’ov u l o, di chi ha portato la gravidanza, moltiplicando le patologie e i pericoli, oppure che si comprano un bambino orfano di madre, spaccano il legame più sacro che esista in biologia. Bizzarramente, ora, sono molto alla moda, gli unici pubblicizzati. Molti genitori sono separati, il padre è allontanato fisicamente. L’unico legame che resta col bambino è il cognome. Non levatelo, sarà un passo di più verso l’incerto, il fluido, le sabbie mobili. Ogni popolo, inoltre, ha un diritto inalienabile alla propria storia e le proprie tradizioni. Prima di prendere un piccone e infrangerle è il caso di pensarci due volte.


I nemici del potere non spariranno Tra Stato e società la frattura è totale

 


Che lezione trarre dalla prevista sconfitta di Marine Le Pen, domenica scorsa? Il «monolite» dei media, che è pure monocolo e vede solo dall’occhio sinistrom ha sentenziato: il populismo sovranista è destinato a perdere. Vero, ma se vista con entrambi gli occhi, la verità è contraddittoria: il populismo sovranista è destinato a perdere, ma è pure destinato a crescere. Lo desumo dai dati elettorali francesi, dove Le Pen ha perso, com’era   prevedibile, il ballottaggio, ma con quasi 10 punti in più di consensi rispetto al ballottaggio di cinque anni fa. E con un primo turno in cui il voto antisistema ha vinto sul voto pro-sistema ed era maggioranza assoluta rispetto ai modesti consensi di Emmanuel Macron. Ma facciamo un passo avanti e chiediamoci la ragione di entrambe le cose, perché il populismo sovranista è destinato a perdere e perché è destinato a crescere. Dunque, è destinato a perdere innanzitutto perché il populismo è trino e le sue parti non si compongono: il populismo ha tre volti, quello nazional-sovranista, quello radical-populista e quello protestatario assoluto. Il primo lo rappresenta Le Pen, il secondo Jean-Luc Mélench o n , il terzo finisce nel buco nero del non voto (in Italia al posto di M é l e n ch o n c’e ra Beppe Grillo). Ma c’è una seconda ragione, che il «monolite» legge sempre con un occhio solo: i populismi non ce la fanno ad andare da soli al governo, hanno bisogno di una sponda moderata, di uno sponsor centrista, un insider. E questo porta il «monolite» a suggerire che, se non volete votare a sinistra, votate i moderati, centristi e un po’ destrorsi, purché siano «dentro» il sistema. A noi, invece, rammenta un precedente, italiano: le due forze outsider che c’e ra - no in Italia, vale a dire la Lega e l’Msi, poi divenuto An, andarono al governo solo alleandosi con Silvio Berlu s c o n i e i centristi, o se preferite con i reduci del centro-sinistra non finiti nell’orbita dei dem. Fu un outsider, populista ma non radicale, antipolitico ma non anti-sistema, monarca ma liberale come B e rlu s c o n i a portarli dall’opposizione al gove r n o. Ma ora i tempi sembrano mutati, i moderati e i centristi, indeboliti dalla radicalizzazione dello scontro, cercano un ombrello protettivo nel partitone unico, quello che governa l’Eu ro pa e anche l’Italia, grazie al draghettatore. E ai populisti tocca fare da soli, o cercare qualche nuovo alleato, magari ex-insider, che possa offrire una sponda moderata, un volto rassicurante. La Lega e Fratelli d’Italia, allo stato attuale, non dispongono di questa terza gamba, perché B e rlu s c o n i è vecchio e vacillante, non raccoglie più grandi consensi e gioca una partita doppia, tra l’e s tab l i - shment e l’alleanza di centrodestra. Ci vorrebbe una terza sponda, cattolica e c o n s e r vatr ic e. Il problema italo-francese si estende ai restanti paesi europei, a eccezione di quelli che hanno vissuto sotto l’oppressione comunista, che riescono, in Ungheria, in Polonia, fino a ieri in Slovacchia, da oggi in Serbia, ad avere e perfino a confermare a pieni voti governi destrorsi invisi all’establishment europeo. Non è dietrologia pensare che nei Paesi europei dell’Ovest sia, invece, impossibile andare al governo senza il placet euro-atlantico (come dimostra anche la posizione di Giorgia Meloni sul l ’Ucraina). Però, dicevo, la realtà è ambigua e ci pone anche un’altra faccia. Il populismo non sta via via sparendo in Europa, come dice il «monolite» dei media, che a ogni elezione all’inizio soffia sulla paura che vincano i cattivi e dopo il voto annuncia la loro disfatta e il trionfo dei buoni. Ma, al contrario, cresce, assume forme cangianti, cambia soggetti che incanalano il consenso, ma è t utt’altro che in calo. Populismo fluido, molecolare. Da dove deriva questo popolo di nemici del sistema? Dal disagio sociale, dalla difficile convivenza con i migranti, dal ribellismo moltiplicato dai social. Ma ci sono pure due fatti precisi e un cambio di scenario. Il primo risale al 2005, quando l’Eu - ropa pensò di mettersi in regola con la democrazia e avviò, in alcuni Paesi, dei referendum sulla Costituzione europea. Cominciarono in Francia e nei Paesi Bassi ma fu un disastro. Al popolo non piaceva questa Europa. E fu subito fermato il processo di investitura popolare. Questa impossibilità di contare come popolo sovrano ha spinto verso la radicalizzazione del dissenso e la nascita di conati populisti di tipo sovranista. Il secondo risale al 2008, negli Usa, ma è un prodotto della bolla speculativa della finanza apolide e transnazionale: la grande crisi economica globale dette alla gente la precisa sensazione che l’economia fittizia tenesse al guinzaglio l’economia reale, che gli interessi di pochi speculatori prevalessero sugli interessi popolari. Infine il cambio di scenario: fino a pochi anni fa, la globalizzazione non dispiaceva alla gente, perché se ne vedevano i vantaggi. Poi, a un certo punto, ha mostrato i suoi effetti collaterali, le sue controindicazioni. E non solo: fino a un certo punto, la globalizzazione è stata l’espansione americana e occidentale nel mondo, poi è diventata l’e s pa n s io n e cinese o asiatica e la recessione occidentale; espansione commerciale, vitale e perfino infettiva. Do na ld Trump se ne era accorto, perciò fu protezionista. La globalizzazione sta generando una marea di contraccolpi che mettono in ginocchio imprese, famiglie, cittadini, mentre i palazzi del potere continuano a incensare la globalizzazione e i suoi derivati. Per questo dico: potete deviare, reprimere e criminalizzare la rivolta anti-sistema, ma non è destinata a scemare, a finire. Il potere si conferma ma l’a nti pote re cresce. E nasce un dualismo incolmabile tra Stato e società, tra Paesi ingovernabili e democrazie senza ricamb i o.

Viaggio nell’universo di Elon il visionario

 

È l’uomo del momento. Oltre che il miliardario più ricco del mondo con un patrimonio personale di oltre 264 miliardi di dollari. Ma chi è davvero Elon Musk? La filosofia del genio ribelle della tecnologia, che ora vuole diventare il nuovo «signore» di Twitter, affonda le radici nel cosmismo russo. Konstantin Eduardovic Ciolkovks kij (1857-1935) è considerato il grande padre della cosmonautica russa. Già nel 1885 scriveva trattati sperimentali sugli aerostati, e addirittura nel 1894 pubblicava articoli scientifici su «l’aeropla - no, ossia il velivolo aeronautico». Soprattutto, però, la sua mente era inebriata da una fascinazione per i razzi. Come racconta Silvano Tagliagamb e, «nel 1903 fu pubblicata la sua opera, divenuta ormai un classico della letteratura scientifica, intitolata Stud io degli spazi cosmici con apparecchi a reazione, in cui veniva enunciata per la prima volta da un punto di vista scientifico la possibilità di realizzare voli interplanetari con l’ausilio di missili». Ciolkovkskij non era soltanto un ingegnere. I suoi studi tecnici erano il frutto naturale del suo pensiero filosofico, il cui orizzonte era, appunto, il cosmo. Il pensatore russo era convinto che nell’universo non potessero non esistere forme di vita superiori, più evolute degli esseri umani, e riteneva che il compito dell’umanità fosse quello di progredire, di svilupparsi attraverso la scienza e la tecnica. «La tecnica del futuro», diceva, «darà la possibilità di vincere la gravitazione terrestre e di viaggiare per tutto il sistema solare. Di visitare e di esplorare tutti i suoi pianeti. Di liquidare i mondi imperfetti e di sostituirli con popolazioni proprie. Di contornare il sole con dimore artificiali, prendendo il materiale dagli asteroidi, dai pianeti e dai loro satelliti». Questa visione metafisica, che oggi può apparirci a tratti delirante, ha contribuito a dare enorme impulso alla ricerca sovietica finalizzata alla conquista dello spazio, che sarebbe avvenuta parecchi anni dopo la morte di Ciol - kovk s k i j. Se vi state chiedendo per quale motivo dovremmo ricordare, oggi, il nome di questo singolare intellettuale russo, provate a rileggere le sue parole, e forse vi sembrerà di aver sentito discorsi non troppo diversi uscire dalla bocca di un uomo che – da tempo e soprattutto in queste ore – sorride dalle prime pagine di tutti i giornali. Un uomo di nome Elon Musk, nato nel 1971 a Pretoria, in Sudafrica, cittadino canadese poi naturalizzato statunitense, fondatore di compagnie come Tesla e SpaceX, ragazzino prodigio dietro PayPal e, soprattutto, futuro dominatore di Twitter. LA FILOSOFIA DI ELON L’idea che Musk possa mettere le mani sul social network più amato dai progressisti sta spargendo da giorni terrore e raccapriccio fra i maggiori rappresentanti della sinistra globale, i quali tendono a considerare il guru digitale come un pazzoide anarco capitalista con tendenze destrorse, amante degli scritti di Ay n Rand e dell’ultraliberismo. O, peggio, come un pericoloso feudatario tecnologico criptotrumpiano sulla scia di Pete r Thiel, altro dissidente della Silicon Valley che ha dimestichezza con dottrine estreme quali l’accelerazionismo e l’il - luminismo oscuro del filosofo Nick Land. In effetti, è facile liquidare Musk come uno svalvolato di successo. Dopo tutto, ha chiamato un figlio X Æ A-12, poi divenuto X Æ A-XII (per gli amici X), mentre la donna con cui si è frequentato fino all’anno scorso, la cantante e artista canadese Gri - mes, durante la relazione ha cambiato nome in c (il simbolo della velocità della luce). Contemporaneamente, però, Elon è anche l’uomo più ricco del mondo, con un patrimonio stimato da Forbes di 264,6 miliardi di dollari (44 dei quali servono per mettere le mani su Twitter). Che gli piaccia creare il caos è indubbio: i suoi tweet sull’uso dei pronomi maschili, femminili e neutri da parte della comunità Lgbt ha fatto infuriare gli attivisti trans, cita Ernst Junger, si oppone alla cancel culture, al politicamente corretto e alla ideologia Woke, preferisce il Texas conservatore e libertario alla California fricchettona e progressista, finanzia contemporaneamente democratici e repubblicani… I nsomma, genera scompiglio, e si diverte un mondo. IL MODO PER DECIFRARLO Che cosa si agiti nella sua mente è difficile da comprendere, ma una chiave di lettura della sua figura ci è fornita proprio dal nostro russo Ciol - kovkskij. Q ue s t’ultimo è stato uno dei maggiori rappresentanti di una corrente filosofica chiamata cosmismo (di cui il già citato Silvano Tagliagambe ha offerto un indispensabile analisi in Dal caos al cosmo, Sandro Teti editore), le cui radici affondano nell’e s ote r ismo russo. A partire dal fondatore riconosciuto del movimento, il bibliotecario N i kol a j Fë d o rov (1829-1903), il cosmismo ha proposto una singolare fusione fra sapienza esoterica e progresso scientifico s c ate n ato. Sotto il comunismo, le sorti dei cosmisti furono altalenanti: in auge negli anni della esaltazione cosmonautica, messi da parte o perseguitati in altri periodi. Dopo il crollo dell’Urss, nell’era di El’cin, gli ultimi rappresentanti della corrente arrivarono negli Stati Uniti, grazie alle relazioni stabilite dall’Esalen Institute, ovvero la culla californiana della New Age. Come ha ricostruito Douglas Rushkoff, in quegli anni i cosmisti giunti in California lavorarono su «come perfezionare gli umani attraverso l’evoluzione intenzionale, spostare la coscienza nei robot, sconfiggere la morte, colonizzare lo spazio o trasferirne la coscienza sui computer. Queste furono le origini del movimento transumanista di oggi». Non per nulla le conferenze dell’Esalen «sono state esperienze formative per i dirigenti, gli investitori, i professori, gli scienziati e i tecnologi più influenti della Silicon Valley». Elon Musk ha evidentemente assorbito le esalazioni del cosmismo, in particolare la fissazione per la conquista di Marte. Il cosmista Aleksan - dr Bogdanov, ricercatore e scrittore di fantascienza, bolscevico della prima ora, teorizzò la costruzione di una società comunista sul Pianeta Rosso. Bogdanov era solito glorificare Satana in quanto «dio del proletariato», e forse – come ha notato A l ek s a n d r Dugin – scelse Marte per il legame del pianeta con l’a n ge l o Samael, spesso associato proprio a Satana. Non risulta che Musk sia appassionato di satanismo, ma di sicuro è deciso a conquistare Marte. Come i cosmisti, sogna un’umanità capace di abbracciare l’immen - sità dello spazio grazie ai satelliti di Starlink, che dovrebbero permettere collegamenti digitali su tutto il pianeta Terra. Come i transumanisti occidentali (che dei cosmisti sono in parte eredi), Elon immagina una ibridazione fra uomo e macchina. Non deve trarre in inganno la sua nota diffidenza nei riguardi dell’i nte l l i ge n za artificiale. Nel 2017, al World Government Summit di Dubai, Musk ha profetizzato che «nel corso del tempo, vedremo una fusione più completa tra intelligenza biologica e intelligenza digitale». A suo dire, o riusciremo a stabilire «una simbiosi tra l’intelligen - za umana e quella delle macchine», oppure perderemo ogni ragione d’e s i s te re. L’EREDITÀ DI FAMIGLIA A ben vedere, nella famiglia Mu s k pensieri di questo genere sono una sorta di tradizione. Il nonno di Elon, infatti, era un signore di nome Jo s hua Haldeman, e tra il 1936 e il 1941 è stato uno dei leader di un singolare movimento nordamericano e canadese chiamato Technocracy Incorporated. Di nuovo, una variante del transumanesimo con una fortissima carica utopistica. «L’ideologia della tecnocrazia sfugge a una facile caratterizzazione», ha scritto Ira Basen. «Era anticapitalista e antidemocratico, ma non fascista. Era anti-governativo, ma non libertario. Credeva in una forma radicale di uguaglianza sociale ed economica, ma non era marxista». Il nonno di Mu - sk, dopo qualche tempo, prese le distanze dal movimento, ma è difficile pensare che la sua visione del mondo non abbia sfiorato i suoi discendenti, e non soltanto in senso anticomunista. La tecnocrazia riteneva che «la scienza e la tecnologia stessero trasformando la vita del Nord America e che solo ingegneri ed esperti altamente qualificati fossero in grado di costruire un “n u ovo ” Nord America». I posti di lavoro cancellati dalle macchine non torneranno, agli umani non resta che adattarsi e «progredire» o soccombere. Più o meno, sono gli stessi concetti espressi da Elon Musk, mago e scienziato che immagina un futuro luminoso stando seduto su un passato leggermente più oscuro.

Gender e follie green Ue penalizzano le Pmi

 

Alzi la mano chi non ha sentito, almeno una volta negli ultimi anni, parlare di investimenti sostenibili in società che seguono i cosiddetti criteri Esg. L’acronimo di environmental (ambientale), social (inclusione sociale), governance (la gestione di una società, che non può escludere la parità di genere) è diventata una sorta di etichetta che serve per distinguere le aziende «etiche». Con la tassonomia finanziaria della Ue, si è già deciso di «bollinare» come Esg il finanziamento dell’i n dustria nucleare e del gas in quanto energie di transizione, dietro il rispetto di alcune c o n d i z io n i . Ma c’è una nuova direttiva proposta da Bruxelles che rischia di avere un impatto anche sulle Pmi, le piccole medie imprese rimaste fino a oggi fuori dai radar delle normative sui «bollini» della sostenibilità. Lo scorso 23 febbraio la Commissione europea ha predisposto lo schema di una norma comunitaria che per favorire un comportamento sostenibile dei grandi gruppi industriali li chiama ad essere responsabili anche della sostenibilità delle aziende che compongono la supply chain. Se entrerà in vigore, le Pmi, per continuare ad essere fornitori o distributori delle big, dovranno dimostrare di essere anch’esse «Esg complaint», ovvero di rispettare tutti i criteri di sostenibilità, con costi di adeguamento molto elevati. Verranno dunque imposti, seppur indirettamente, nuovi paletti alla certificazione della filiera dei grandi gruppi sia a monte sia a valle. Pensiamo ai distretti, al settore della moda, con le piccole concerie o pelletterie che lavorano per le griffe, o a quelle del comparto alimentare, per non parlare dell’edilizia. L’id e nt i - tà Esg non dipenderà più, dunque, da quello che tu grande azienda fai per rispettare i criteri nei tre ambiti della sostenibilità, ma anche dalla capacità di monitorare o correggere quello che fanno i tuoi fornitori e distributori. Un colosso come l’Eni si è già preparato: a febbraio 2021 ha creato Open-es, una piattaforma per le informazioni Esg di filiera. In sostanza, il fornitore entra e può ottenere gratuitamente un report di sostenibilità, basato sul consolidamento delle informazioni inserite. Una specie di autocertificazione Esg che gli consentirà di partecipare ai nuovi bandi o di continuare a lavorare con il Cane a sei zampe. In molti settori questa bollinatura rischia però di essere più complicata e anche costosa. Soprattutto quando verrà richiesta per legge. Ma se e quando la nuova direttiva Ue entrerà in vigore, ci sarà anche un’altra svolta dirompente dagli effetti più «politici». Le aziende dovranno infatti creare anche un modello interno di controllo e ascolto degli stakeholder anche di quelli delle Pmi con cui si interfacciano. E tra questi nella direttiva vengono menzionati esplicitamente i sindacati. Nell’a rt i - colo 9 della proposta di direttiva c’è un richiamo al cosiddetto stakeholder capitalism (ovvero quello guidato da relazioni reciprocamente vantaggiose tra l’azienda e i dipendenti, i clienti, i fornitori e le comunità dove opera), dedicato alle procedure di reclamo. I reclami possono essere presentati da: «persone interessate o che hanno ragionevoli motivi per ritenere che potrebbero essere colpite da un impatto negativo; sindacati e altri rappresentanti dei lavoratori che rappresentano persone che lavorano nella catena del valore in questione; organizzazioni della società civile attive nei settori collegati alla catena del valore in questione». Insomma, una rappresentazione didascalica del concetto di stakeholder. Non solo. «Viene espressamente previsto che l’azienda dia risposta a queste segnalazioni e, soprattutto, che chi ha reclamato possa incontrare i rappresentanti dell’azienda a un livello appropriato per discutere gli impatti negativi gravi potenziali o reali che sono l’oggetto del reclamo. Quindi si arriva a una sorta di concertazione allargata sulla soluzione dei problemi», spiega Luca Testoni, cofondatore di Et group, cui fanno riferimento Eticanews ed Esg business review. «Certo, i leader dei singoli settori industriali hanno tutto l’interesse che questo meccanismo funzioni ma l’i mporre all’azienda una Esg identity relazionale, cioè legata all’insieme delle sue relazioni, apre orizzonti completamente nuovi. Tanto che nella proposta di direttiva è prevista, di fatto, l’i s t i tu z io n e anche di una nuova Authority europea composta dai rappresentanti delle autorità di vigilanza», aggiunge Te s to n i . Che il prossimo 15 giugno con Et group presenterà i risultati dell’Igi (Integrated governance index) realizzato ogni anno presso le società quotate e che approfondisce le modalità con cui le quotate stanno affrontando i temi legati alla Esg. Sarà dunque interessante capire come le Pmi sapranno adeguarsi alle nuove norme. Il tema era stato già accennato in due domande del sondaggio fatto per il rapporto 2021 da cui veniva fuori che metà delle società intervistate attuavano una due diligence sui fornitori per i temi ambientali e sociali e oltre la metà applicava modelli di compliance Esg. «Ma alla luce delle novità arrivate da Bruxelles quest’anno le risposte saranno sicuramente più ponderate», conclude Te - s to n i .

venerdì 29 aprile 2022

Vincere o trattare? Ora gli Usa hanno dubbi

«Finché continueranno gli assalti e le atrocità, continueremo ad aiutare Kiev». L’ha giurato ieri Joe Biden, che chiede al Congresso il via libera per altri 33 miliardi di dollari di sovvenzioni al Paese invaso da Vladimir Putin. Ma alla retorica oltranzista, l’i n qu i - lino della Casa Bianca, che era stato capace di evocare il cambio di regime a Mosca, comincia ad associare cenni di prudenza: «Non stiamo attaccando la Russia,ma aiutiamo l’Ucraina a difendersi», è stato il distinguo del presidente. Sleepy Joe è alle prese con enormi grattacapi politici. Nei sondaggi precipita: la media delle rilevazioni registra un 52% di cittadini scontenti del suo operato. «I due terzi degli americani non vogliono un intervento militare contro la Russia», ricorda alla Ve rità il giornalista statunitense A ndrew Spannaus. «E anche se una leggera maggioranza è favorevole a supportare la resistenza, i più pensano che il presidente farebbe meglio a occuparsi dei problemi interni. Ogni volta che si alzano i toni, anzi, aumenta la preoccupazione che si arrivi a uno scontro aperto». Ieri, intanto, per B id e n è arrivata una pessima notizia sul fronte economico: la crescita Usa, nel primo trimestre del 2022, si è inaspettatamente contratta. È la prima volta che accade da metà 2020. Come se non bastasse, la sinistra liberal fa le bizze: la deputata Alexandria OcasioCor tez, star dei dem radicali, ha votato contro una legge per sequestrare i beni degli oligarchi. In vista delle elezioni di medio termine, il quadro non è roseo. E non si dimentichi che, a B id e n , la sponda del Cremlino serve per rilanciare il dialogo sul nucleare con Teheran. Per far breccia in Iran, persino il diavolo torna utile. Questi fattori potrebbero contribuire ad aprire una breccia nelle posizioni massimaliste d’Oltreoceano. Vi accennava ieri Il Messaggero, citando l’esperto della Luiss Germano Dottori: mentre continuano la guerra per procura contro Puti n , gli americani starebbero segretamente lavorando con i russi per definire le nuove frontiere dell’Ucraina. In parole povere, per spartirsi il Paese. L’idea, ovviamente, è di lasciare al Cremlino Donbass e Crimea. Ma al di là del possibile punto di caduta, l’indiscrezione è rilevantissima di per sé: proverebbe che, al netto dei proclami marziali, a Washington si stanno convincendo che si dovrà trovare un accordo con lo zar. I più accorti avevano già notato un certo stridore tra le dichiarazioni di Antony Blinken e quelle di Lloyd Austin, capo del Pentagono, a margine del vertice di Ramstein. Mentre costui esplicitava che l’obietti - vo degli Stati Uniti è indebolire la Russia e annichilirne il potenziale bellico, il segretario di Stato apriva all’ipotesi di un’Ucraina neutrale. Quali conclusioni trarre? Che, ridimensionate le ambizioni di vittoria totale, gli americani sono tornati al proposito di limitare l’avan - zata russa, per poi trattare da una posizione di maggior forza? È plausibile, sebbene un «alto funzionario dell’am ministrazione Biden», ieri, abbia rimarcato che gli Usa sono pronti «a fornire all’Uc rai n a ciò di cui ha bisogno per vincere». Fatto sta che, nel Donbass, i russi avanzano: lo evidenzia l’ultimo resoconto della Rivi - sta italiana difesa. E la rapida evoluzione della situazione sul campo può determinare altrettanto repentini riadattamenti della strategia. Si è rotto l’idillio tra settori militari e amministrazione Usa? Secondo lo storico G iu l io Sap el li , invero, «quello tra B li nken e Aus ti n è un gioco delle parti. Il discorso di Ja n et Yel l e n , da fine politica, sui pericoli di un embargo sul gas russo, era legato ai timori di un aumento dei prezzi del gallone e, dunque, di una débâcle di Bi - den al midterm. Mi pare che le cuspidi della finanza abbiano visto chiaramente che bisogna raggiungere un compromesso». Anche perché «più si aspetta, più si muore da entrambe le parti e più territorio occupano i russi», sottolinea S pa n n au s . «A livello politico, il dissenso sulla linea di sostegno all’Ucraina è quasi nullo. Alcuni accademici e commentatori, invece, iniziano a mettere in guardia sul rischio che Puti n arrivi a impiegare testate nucleari tattiche. E su Ne - wsw e ek sono usciti alcuni articoli, di cui ho parlato su Tran - satl a n tic o.i n fo, nei quali un analista dell’intelligence della Difesa spiega che Mosca non sta conducendo una guerra totale, bensì una guerra di posizione. E che, pertanto, è giusto avviare una trattativa». Dalla Russia, qualche mano si tende. Puti n ha comunicato che proprio Crimea e Donbass sono la base minima per una pace. E ieri l’altro, il dicastero degli Esteri ha pubblicato una foto di Paolo VI con An drey G ro myko, ministro sovietico, risalente a un incontro in Vaticano del 1966: «Due mondi così diversi», recitava la didascalia, «che riuscirono ad avviare un dialogo costruttivo: una lezione da imparare». Eloquente. Le vere variabili, in Occidente, sono Londra e Kiev. Per i britannici, protrarre il conflitto significa inguaiare l’Ue, dalla quale hanno divorziato, accreditarsi come riferimento per i Paesi antirussi dell’Est e mandare un segnale a Pechino, a proposito degli assetti securitari asiatici. Ne ha discusso Liz Truss, ministro degli Esteri inglese, alludendo a una «Nato globale», che presieda anche all’area indopacifica. Se Washington e la Russia stessero sul serio disegnando mappe segrete, pertanto, nell’a n gl osfera si delineerebbe una sostanziale divergenza. Non sarebbe una novità, ci rammenta Sa p el l i : «I rapporti in realtà sono sempre stati litigiosi: cooperare per competere». Quanto agli ucraini, è difficile immaginarli accettare supinamente lo smembramento della loro nazione. Perciò nel Donbass si continua e si continuerà a combattere. La soluzione non è imminente: la guerra «può durare mesi o anche di più», sospirano dalla Casa Bianca. Ogni contendente è ancora primariamente interessato a incamerare quante più conquiste possibili - in ballo, ad esempio, ci sono il destino di Odessa e gli sbocchi sul mare di Kiev. Lo scenario, per americani e russi, sarebbe il seguente: davanti a tutti ci si combatte; al riparo da occhi indiscreti ci si parla. Prima o poi arriverà l’agognata stretta di m a n o?


Le sanzioni usate come arma morale

 Sulla questione dell’Ucrai - na cerchiamo di andare, una volta per tutte, all’e s s e n z i a l e, partendo dai dati di fatto pacifici e indiscutibili. Il primo di essi, ovviamente, è che l’Ucrai - na è stata oggetto, in effetti, di u n’aggressione militare ingiustificata da parte della Russia. Il secondo è che l’Ucraina non fa parte né dell’Unione europea né della Nato, alle quali non è neppure legata da alcun specifico trattato, accordo, convenzione o altro che le dia titolo ad ottenere da esse aiuti o sostegni di qualsivoglia natura. Il terzo è che non esistono neppure trattati, accordi o convenzioni bilaterali tra l’Ucraina e l’Italia per cui ques t’ultima sia tenuta a fornire alla prima alcuna forma di assistenza, aiuto o soccorso. Il quarto è che, essendo tanto la Russia quanto l’Ucraina membri dell’Onu, spetterebbe solo al Consiglio di sicurezza della stessa Onu adottare i provvedimenti necessari, anche coercitivi, per porre fine all’aggressione; il che, però, nel caso specifico, non è avvenuto e non può avvenire, per la sola ragione che il Paese aggressore è uno dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza ed è quindi in grado, esercitando il diritto di veto, di impedire ogni iniziativa. Deve quindi concludersi che, in tale situazione, piaccia o non piaccia, non esiste, in base al diritto internazionale, alcun obbligo giuridico a carico di chicchessia di attivarsi a favore dell’Ucraina contro la Russia. Ciò premesso, ne deriva che qualsiasi decisione che l’ Ita - lia, l’Ue o la Nato abbiano adottato o dovessero adottare a sostegno dell’Ucraina in danno della Russia è riconducibile solo ed esclusivamente a valutazioni di natura politica, del tutto discrezionali e sul merito delle quali, quindi, si possono legittimamente nutrire e manifestare le più ampie ris e r ve. In particolare, quanto alle sanzioni, è stata da molti messa in luce la loro sostanziale inefficacia, accompagnata, per converso, dall’e f fetto «boomerang» in danno degli stessi Stati europei che le hanno deliberate; effetto che, peraltro, viene sostanzialmente ammesso, sia pure in varia misura, anche dai sostenitori di questa scelta politica, i quali, però, affermano che esso deve passare in seconda linea, a fronte dell’impresci ndibile dovere morale di «fare qualcosa» a dimostrazione della solidarietà del cosiddetto «mondo libero» con l’Ucraina, siccome vittima di una brutale aggressione da parte di un altro Paese retto, come la Russia, da un regime ritenuto autocratico e liberticida. E l’adempimento di un tale dovere imporrebbe quindi ai popoli di tutti i Paesi dell’Unione europea l’accettazione di sacrifici che comportino un peggioramento, anche sostanziale, della qualità e del tenore della loro vita. Ora, su questo punto, occorre fare chiarezza e dire, quindi, anche a costo di apparire cinici e brutali, che l’imposi - zione ad un popolo di sacrifici di qualsiasi genere, in assenza di obblighi derivanti dalla Costituzione o da trattati o convenzioni internazionali, è giustificata solo ed esclusivamente a condizione che essi siano o possano ragionevolmente apparire come necessari per il conseguimento di obiettivi rispondenti ad un interesse concreto e attuale dello stesso popolo e non di altri, pur senza escludere che anche altri possano, eventualmente, trarne vantaggio. Ciò significa che, in mancanza (come nel nostro caso) di tale condizione, nessun sacrificio può essere legittimamente imposto, neppure in nome della più alta e nobile delle finalità morali, ivi compresa anche quella di giovare ad uno Stato ingiustamente aggredito da un altro. Illuminante e ancora attuale, in proposito (pur se antiquato nello stile), appare quanto affermava, circa un secolo fa, Benedet - to Crocein uno dei suoi «frammenti di etica» dedicato proprio alla «giustizia internazionale», secondo cui: «Anche chi sia animato dal più nobile e più ardente e più ardito sentire etico, se ed in quanto consiglia e governa ed esercita opera politica, deve unicamente avvisare alla salvezza dello Stato, col quale s’identifica in que l l ’atto», e, ancora: «la soluzione dei problemi morali dell’umana convivenza mercè un distorcimento dello Stato e della politica dalla loro propria natura è errore di logica che apre la via a pericolose illusioni o a incoerenti e dannosi atti pratici». Si potrà obiettare, a questo punto, che l’attivarsi a sostegno di uno Stato ingiustamente aggredito risponde comunque all’interesse generale dell’intera comunità internazionale a che le ingiuste aggressioni vengano scoraggiate. Il che può essere vero, ma proprio perché si tratta di un interesse generale e, quindi, diffuso, esso non può giustificare l’imposizione di sacrifici solo ai popoli di uno o più singoli Stati, per decisione di chi, nei medesimi, è investito del potere politico. Diverso è, ovviamente, il caso che dall’ingiu - sta aggressione subita da uno Stato ad opera di un altro, uno o più Stati terzi specificamente individuati possano ragionevolmente desumere l’e s istenza di un pericolo attuale (e non meramente ipotetico) che l’aggressione possa essere rinnovata in loro danno. È evidente, infatti, che in tal caso l’imposizione di sacrifici ai popoli esposti al suddetto pericolo al fine di poterlo meglio fronteggiare risponderebbe ad un loro effettivo interesse e sarebbe quindi giustificata. Ed è proprio questo l’a rgomento al quale (in alternativa a quello moralistico), si appigliano talora i sostenitori della politica delle sanzioni, secondo i quali vi sarebbe appunto il pericolo che la Russia, se non bloccata in Ucraina, passerebbe poi ad aggredire altri Paesi. Si tratta, però, di un argomento la cui inconsistenza appare manifesta, ove si consideri che il paventato pericolo è privo di qualsivoglia concretezza, essendo frutto di semplici e gratuite illazioni, tanto più pretestuose in quanto non tengono alcun conto del carattere peculiare e difficilmente riproducibile delle ben note ragioni che, a partire dal 2014, hanno dato luogo al contenzioso tra l’Ucraina e la Russia e, quindi, alla sciagurata decisione di que s t’ultima di ricorrere all’uso dello strumento militare.

Verso l’embargo al petrolio russo Berlino cede, ma chiede gradualità

 

Europa divisa e incerta sul cosiddetto sesto pacchetto di sanzioni nei confronti della Russia. I paesi dell’Un io n e cercano affannosamente un accordo su sanzioni economiche che danneggino l’economia russa senza azzoppare troppo le già esanimi economie europee. Ieri il commissario europeo all’Ec o no mi a Paolo Gentiloni ha affermato che «non c’è ancora nessuna decisione» sull’embargo al petrolio russo. Su questo si cerca una difficile unanimità, che potrebbe arrivare infine su un meccanismo di prezzo massimo (basso) imposto al petrolio russo o su una uscita dagli acquisti in modo graduale. Difficile pensare che l’Europa possa chiudere al petrolio e al gasolio russi in tempi brevi. Eppure, questo è quanto richiedono i Paesi più oltranzisti, come la Polonia e i tre Paesi Baltici. È soprattutto Varsavia ad alzare la voce e a pretendere immediate e dure sanzioni contro la Russia. Ma la Germania, che ne sarebbe assai danneggiata, frena visibilmente. Sinora, la scommessa russa di contare sulle divisioni interne all’Eu - ropa è stata vincente. Nel pomeriggio di ieri, un portavoce del governo del cancelliere Olaf Scholz ha dichiarato che la Germania è ora pronta a fermare le importazioni di petrolio dalla Russia, mettendo da parte le incertezze. Purché, però, si dia abbastanza tempo agli Stati membri di reperire alternative sul mercato, hanno chiarito poi da Berlino. Lo sblocco tedesco potrebbe essere arrivato dopo aver ricevuto l’ass icu razione da Varsavia di poter utilizzare il porto polacco di Danzica come punto di arrivo del petrolio da fornitori alternativi. In ogni caso, l’e m ba rgo al petrolio sembra essere l’ultima concessione che la Germania intende fare rispetto alle forti pressioni che arrivano dagli Usa, dagli altri membri dell’Unione e dalla stessa opinione pubblica tedesca. Per ora, infatti, si parla unicamente di embargo su petrolio e derivati, lasciando il gas ad una successiva fase. Del resto, ormai non si contano più gli allarmi e gli avvertimenti sui danni profondi che un embargo immediato sul gas russo potrebbe causare all’economia e alla società dei paesi europei. Due giorni fa Torben Brabo, Ceo dell’operatore del sistema di trasmissione del gas in Danimarca e presidente di Gas Infrastructure Europe (Gie) in una intervista ha detto che i gestori dei gasdotti si stanno preparando per uno scenario senza gas russo il prossimo inverno. Ma ha anche detto che gli scenari della Commissione Europea per la sostituzione della materia prima sono eccessivamente ottimistici. «I calcoli forniti dal piano REPowerEU della Commissione europea probabilmente non sono del tutto corretti. I numeri della fornitura di Gnl, sono tutti abbastanza ottimisti. Ciò significa che probabilmente non possiamo acquistare tanto Gnl quanto attualmente previsto in REPowerEU. Negli Stati Uniti, ad esempio, non hanno la capacità di liquefazione per fornire effettivamente i 15 miliardi di metri cubi di Gnl in più di cui stanno parlando. E quando si tratta di produttori del Qatar e del Medio Orientes, la loro capacità produttiva è già venduta ad altri consumatori, quindi dovremmo riacquistarla da loro, il che è più difficile». Parole pesanti. Ieri invece è stato il turno di Entsog, la Rete Europea dei Gestori dei Sistemi di Trasporto del Gas, che in una nota ha chiarito i risultati di uno studio interno. Dall’analisi emerge che in uno scenario di interruzione dell’app rov vigionamento di gas russo a partire dal 1° aprile, la maggior parte dei Paesi europei non raggiungerebbe l’obiett i - vo del livello di stoccaggio dell’80% o del 90% il 1° ottob re. La Commissione europea intanto ha approvato l’i s t i tu - zione di un sistema di cap al prezzo del gas in Spagna e Po rtoga l l o. Il price cap di cui si parla non ha nulla a che vedere con quello di cui si favoleggia da settimane a Bruxelles (cioè un tetto massimo a quanto pagato dall’Europa a Gazp ro m) . In questo caso si parla di un prezzo massimo del gas per la generazione elettrica. Il price cap viene imposto in via regolatoria a 40 €\MWh per tutti i produttori di elettricità con impianti a gas e potrà salire fino ad avere una media di 50 €\MWh in 12 mesi. I produttori potranno offrire la propria energia elettrica con un costo variabile massimo pari al cap. In questo modo si ottiene un prezzo marginale di sistema calmierato. I produttori che hanno costi variabili superiori al cap, riceveranno una compensazione pari alla differenza tra questo e l’e f fet - tivo costo sostenuto. La compensazione sarà ottenuta applicando una componente aggiuntiva in bolletta. Nel complesso, comunque, con questo meccanismo si punta ad abbassare il prezzo medio dell’energia elettrica di almeno 50 €\MWh. La debolezza politica dell’Unione si fa sempre più evidente anche con queste divisioni e diversità di trattamento, mentre il gruppo di acquisto europeo per il gas, gli stoccaggi comuni e il price cap da imporre a Gazprom sembrano completamente scomparsi dal dibattito. Come abbiamo scritto settimane fa, il banco di prova sarà l’e m ba r - go sul gasolio, che arriva in un momento di generale scarsità del distillato e che potrebbe mettere a dura prova il sistema dei trasporti continenta l e.

Russia e Cina vogliono un mondo multipolare È una richiesta folle?

 



Qualche giorno fa, e per la prima volta dall’inizio delle ostilità, cioè dal 24 febbraio, m’è capitato di ascoltare la voce dell’aggressore - bellamente ignorata, come accade nei migliori regimi - durante questa guerra di pazzi. Accadeva a Quarta Repubblica, condotta da Nicola Porro, ove era stato chiamato a intervenire il rappresentante della Repubblica di Lugansk (nel Donbass), una delle due prefetture che l’11 maggio 2014 votò un referendum ove l’86% della popolazione espresse la volontà di separarsi dal governo centrale ucraino. Abbiamo ascoltato due cose che meriterebbero maggiore attenzione. La prima cosa è che le ostilità non sarebbero cominciate il 24 febbraio con l’invasione della Russia in Ucraina, ma il 17 febbraio quando, secondo il rappresentante del Lugansk, l’esercito regolare ucraino cominciò a bombardare nel Donbass i separatisti che si erano separati con un referendum considerato illegittimo. La seconda cosa è che negli ultimi 8 anni il governo ucraino ha perseguitato la minoranza russa del Paese (che nel Donbass è maggioranza). Per dire la meno grave, citata dall’ospite di Po r ro: nelle scuole delle regioni russofone era proibito l’uso della lingua madre russa. Giova rammentare, almeno all’osso, la questione dei russofili. Nel 2010, con elezioni ritenute regolari anche dai perdenti, divenne legittimo presidente in Ucraina il russofilo Viktor Yanukovich . Costui nel 2014 si rifiutava, legittimamente, di firmare un documento che avrebbe portato il Paese nella Ue. Al legittimo rifiuto del legittimo presidente seguirono illegittime sommosse di piazza, note come EuroMaidan, che illegittimamente deposero Yanukov ich . In quello stesso 2014 nelle regioni russofone e russofile (Crimea e Donbass), ove non avevano gradito l’illegittimo rovesciamento del governo, furono indetti referendum - senza alcuna meraviglia, con la benedizione della confinante Russia - e i separatisti si autoproclamarono separati, con la Crimea parte della Federazione Russa e, come detto, Lugansk e Donetsk repubbliche indipendenti. In ogni caso, da quel 2014, cominciarono per i russofoni, e vieppiù per i russofili, persecuzioni, eccidi e stragi. Per dirla con le parole di Vladimir Putin: «a quanto pare l’Ucraina non ha bisogno del Donbass». Petro Poro s h e n ko, presidente eletto successivo a (e oppositore di) quello destituito, ebbe anche cura di rendere illegali i partiti di riferimento della minoranza russofila, e Vol odymyr Zelensky, che gli succedette nel 2019, s’è recentemente preoccupato di rendere illegali i partiti che gli si opporrebbero. Insomma: metà del Paese non avrebbe diritto di voto. In tutto ciò, la comunità internazionale è rimasta voltata dall’a l tra parte, per dirla nel lessico di Mario Draghi. Va aggiunto che la Russia, pur riconoscendo la validità dei referendum del 2014, non riconobbe l’indipendenza delle  due repubbliche se non nel 2022. Se così stanno le cose allora, l’azione della Russia in Ucraina andrebbe vista non come invasione contro un Paese sovrano ma come soccorso in aiuto di un popolo oppresso: prima (17 febbraio) avvenne l’azione oppressiva, poi (24 febbraio) l’intervento dei russi, cui gli oppressi avrebbero chiesto a i uto. Al rappresentante della Repubblica di Lugansk che rivendicava il diritto della propria gente di separarsi da un governo centrale che la perseguitava, uno degli ospiti di Po r ro, l’a m ba s c i ato re Giulio Terzi di Sant’A gata ,poneva una domanda. L’ambasciatore è un fervido sostenitore dell’intervento militare della Nato a favore di Zel e n s ky; e lo è con preoccupante fervore, visto che ritiene che bisognerebbe fare la guerra alla Russia e, se necessario, anche alla Cina. L’ambasciatore chiedeva al separatista russofilo se le Repubbliche avrebbero mantenuto la propria indipendenza o aderito alla Federazione Russa. Il tono era: voi ci volete fregare. Ma la domanda stessa è oziosa: se ammetti la possibilità che, magari ripetendo il referendum, a Lugansk e Donetsk si possa concedere l’i nd i pe nd e nza (visto che Kiev non ha concesso loro alcuna autonomia ma le ha perseguitate), non puoi poi limitare la loro volontà di aderire o meno alla Federazione Russa. Sennò che indipendenza è? Evidentemente l’ambasciatore ritiene che la richiesta dell’Ucraina di far parte della Nato (che è un soggetto militare) è prerogativa della indipendenza di questa, mentre sarebbe irricevibile l’eve ntu a l e richiesta di una piccola provincia di far parte della Federazione russa (che è un soggetto politico). Ecco: questo atteggiamento supponente è ciò che ha condotto Puti n eXi Jinping a stipulare gli accordi del 4 febbraio scorso. Senza aggiungere commenti, ne riporto qualche stralcio. Dico solo che la parola-chiave, a me sembra, «multipolare», che ricorre spesso nel documento: Russia e Cina non intendono più accettare un mondo ove v’è una parte che dica a tutti cosa è giusto e cosa no, quale governo è democratico e quale no e, men che meno, che qualcuno si arroghi il diritto di esportare la «propria» democrazia. «Alcuni attori che, sulla scala internazionale, rappresentano solo una minoranza, continuano a sostenere approcci unipolari per affrontare questioni internazionali e fanno ricorso alla forza; essi interferiscono negli affari interni di altri Stati, violando i loro legittimi diritti e interessi. Noi, Federazione Russa e Repubblica popolare della Cina, invitiamo tutti gli Stati a rispettare i diritti dei popoli a determinare in modo indipendente il percorso di sviluppo dei loro Paesi e la sovranità e la sicurezza e gli interessi di sviluppo degli Stati». «Non c’è un modello unico, buono per tutti, per guidare i Paesi a stabilire la democrazia. Una nazione deve poter scegliere, per raggiungere la democrazia, quelle forme e quei metodi che meglio le si addicano, a seconda del sistema sociale e politico, del retroterra storico, delle tradizioni, e delle caratteristiche culturali». «Alcuni Stati cercano d’imporre i propri “standard dem o c rat ic i” ad altre nazioni, di monopolizzare il diritto di stabilire il livello di conformità a quegli standard democratici, di tracciare linee di confine su basi ideologiche. Questi tentativi di egemonia pongono serie minacce alla pace globale e locale e alla stabilità dell’ordine mondiale». «La Cina apprezza gli sforzi compiuti dalla Russia per stabilire un giusto sistema multipolare di relazioni internazionali. Chiediamo che sia stabilito, tra le potenze mondiali, un nuovo tipo di relazione, fondato sul mutuo rispetto, sulla coesistenza pacifica e su una cooperazione di beneficio per tutti. Riteniamo che queste nuova relazioni tra Russia e Cina sono superiori alle alleanze politiche e militari dell’e ra della Guerra fredda». Ora, alla luce di tutto questo, la mia personale preoccupazione è questa: cosa succederà al 9 di maggio? Puti n lancia una bomba H? Trovo preoccupante che la cosa sia presa, almeno a sentire i tiggì, alla leggera. Quando gli si fece osservare che l’uso di armi nucleari avrebbe potuto significare la distruzione del pianeta, Putin ris pos e: «Alla Russia non interessa un pianeta senza la Russia». Oppure al 9 di maggio Puti n potrebbe suicidarsi. Prendere questa eventualità sottogamba – o addirittura auspicarla – mi sembra ancora più preoccupante, oltre che ingenuo: Puti n non è solo, ci sono 150 milioni di Russi dietro di lui. E poi c’è la Cina e gli accordi del 4 febbraio. Un motivo in più per essere prud e nt i .

DIFENDONO LA DEMOCRAZIA METTENDOLA SOTTO I PIEDI

 

Per giustificare l’invio di armi all’Ucraina, Mario Draghi ha parlato della necessità di difendere la democrazia e la libertà. Un concetto che ha poi ribadito anche Sergio Mattarella, il quale per il 25 aprile ha rispolverato Bella ciao, dicendo che quello russo è un attacco alla democrazia nata dalla Resistenza. Peccato che i primi a mettere sotto i tacchi la democrazia siano proprio il presidente del Consiglio e quello della Repubblica. Anche a voler sorvolare sull’articolo 11 della Costituzione, che ripudia la guerra oltre che come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli anche come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, resta il nodo del Parlamento. Fino a prova contraria, la nostra è una Repubblica democratica e la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Per quale ragione, dunque, il popolo e il Parlamento che lo rappresenta sono stati tenuti fuori da una decisione che impegna il Paese in una guerra, seppur combattuta per procura? Quando a fine febbraio il Consiglio dei ministri varò un decreto per consentire l’invio di armi a Kiev, il premier se la cavò spiegando che si trattava di «un intervento di sostegno e assistenza al popolo ucraino, consentendo la cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari alle autorità governative dell’Ucraina». Ipocritamente si evitò di parlare di mitragliatrici e lanciarazzi, facendo credere che si trattava di un aiuto a scopo difensivo. E, senza entrare troppo nel merito per evitare domande imbarazzanti, questo votarono le Camere, tenute volontariamente all’oscuro sia dal governo che dai partiti di ciò che stava per essere imbarcato in direzione di Kiev. Spacciare uno Stinger per un mezzo difensivo era già un po’ azzardato, ma ancor di più lo era inviare casse di armamenti cedendole a organizzazioni non governative. All’epoca, quando ancora non era chiaro in quale conflitto ci stavamo infilando, il Parlamento scelse di chiudere gli occhi e di fingere che tutto fosse in regola con il dettato c o s t i tu z io n a l e. Del resto, era già successo nell’aprile di 23 anni fa, in piena guerra del Kosovo. All’epoca, il presidente del Consiglio era Massimo D’Alema, uno che in materia di armi poi avrebbe dimostrato una certa esperienza, mentre il vicepresidente era tal Sergio Mattarella, il quale di lì a qualche mese invece avrebbe dato prova anche di un certo interesse per le Forze armate, divenendo ministro della Difesa. A ricostruire alcuni delicati passaggi della storia della nostra Repubblica ci ha pensato l’ex generale M a r io A r pi n o, che nel 1999 era capo di stato maggiore della Difesa. «Il governo, come accade spesso, era traballante e la decisione di partecipare alle operazioni reali (in Serbia, ndr) era stata, come al solito, sofferta, contrastata e mal digerita anche in seno alla maggioranza. Bastava un nonnulla per provocare uno sconquasso. L’ordine politico era di non parlare di operazioni di attacco, ma solo di difesa. Tanto che il ministro in carica, Carlo Scognamiglio, per cavarsela durante un’i ntervista aveva curiosamente definito l’attività dei nostri Tornado come “difesa integ rata”. Suona il telefono, alzo la cornetta e mi passano l’interlocutore, che, senza preamboli, attacca così: “…Sono M atta rel l a . Ho saputo che un suo dipendente, il comandante del gruppo Tornado di Piacenza, al rientro della squadriglia dalla missione ha rilasciato u n’intervista dove ha raccontato di aver lanciato dei missili contro postazioni radar serbe… È inammissibile. La ritengo personalmente responsabile…”». In pratica, il Parlamento, anzi il Paese, doveva restare all’oscuro di quel che stava succedendo. Gli aerei italiani stavano bombardando Belgrado, in violazione della Costituzione e perfino dei sentimenti degli italiani, i quali non avevano certo alcuna voglia di sostenere una guerra, seppur limitata e sbilanciata a favore delle forze della Nato. Però non si doveva sapere. Così come poi si sarebbero giustificati provvedimenti ingiustificabili con la frase «Ce lo chiede l’Europa», all’epoca si fece alzare in volo la squadriglia di bombardieri dell’Ae - ronautica italiana dicendo «Ce lo chiede l’A m e r ic a » . Oggi, con M atta rel l a p residente, la storia si ripete. Prima si è fatto passare in Parlamento un generico sostegno alle vittime di un’i nvasione e ora si decide l’i nvio di armi pesanti, non più difensive ma offensive, aggirando le Camere e, quel che è grave, l’opinione degli italiani. Tutti i sondaggi evidenziano una netta contrarietà all’invio di carrarmati, cannoni e altri mezzi d’at - tacco. Addirittura, per evitare che all’interno della maggioranza ci sia qualche crisi di coscienza, il governo pare abbia intenzione di non fare neppure un nuovo decreto, ritenendo valido il precedente, in modo che nessuno abbia da obiettare. L’ordine è lo stesso che M attarella ricordò al capo delle Forze armate: l’o pi n io n e pubblica non deve sapere. Tutto secretato, dice il ministro della Difesa L oren zo Gue r i n i al Copasir. Siamo in guerra, ma è meglio non dirlo, almeno fino a che un missile non ci pioverà in te s ta .

Energia nel mirino degli hacker russi

 

Una delle più evidenti ricadute della guerra è la stretta su l l ’energia, con lo sforzo da parte dei Paesi del Vecchio continente di diminuire drasticamente la dipendenza dal gas e dagli altri combustibili provenienti da Mosca. Ma questa decisione ha scatenato una rappresaglia immediata da parta di vari gruppi di criminal hacker filorussi. Tre aziende tedesche, dedite alla produzione di energia eolica, sono state bersaglio di cyber attacchi proprio a seguito di questa scelta. Lo scopo è ovvio: causare caos e disservizi. Deutsche windtechnik ag, specializzata nella manutenzione delle turbine eoliche, è stata colpita a inizio aprile. I suoi sistemi di controllo da remoto, collegati a circa 2.000 turbine eoliche, sono rimasti fuori uso per circa un giorno. Prima nel mirino era finito il produttore di turbine Nordex se, costretto a spegnere i suoi sistemi informatici per giorni. In questo caso l’attacco era arrivato dalla gang Conti, un gruppo ransomware che ha già dichiarato il suo sostegno al governo russo e che ha rivendicato l’intrusione. L’u lt i m o caso è quello di Enercon gmbh, produttore di turbine colpito quasi esattamente nello stesso momento in cui le truppe russe hanno invaso l’Uc ra i na . L’attacco ha messo fuori uso il controllo remoto di 5.800 turbine eoliche, che però hanno continuato a funzionare in modalità automatica. Sono stati osservati già in passato gruppi di criminal hacker - con legami con il Gru, il servizio segreto militare russo - operare in maniera distruttiva tramite malware proprio per devastare le infrastrutture critiche di Paesi avversari, in particolare l’Ucrai - na. Basti pensare che a metà aprile Kiev ha sventato Indu - st roye r 2 , un attacco che sarebbe stato lanciato dal gruppo Sandworm (o Unit 74455) e che, se non fosse stato intercettato in tempo, avrebbe causato il blackout totale per oltre 2 milioni di persone. Nel giugno 2017, un attacco portato a termine con il ransomware Pe - tya ha colpito trasversalmente banche, ministeri, giornali e aziende del settore energia Anche in questo caso i sospetti erano caduti sul Cremlino: durante il raid il sistema di monitoraggio delle radiazioni della centrale nucleare di Chernobyl era andato offline. Nel dicembre 2016 una sottostazione a Ivnichna, poco fuori da Kiev, era stata colpita pochi minuti prima della mezzanotte lasciando gli utenti di parte della città al buio; l’interruzio - ne di corrente era durata circa u n’ora. Nel dicembre 2015 invece Sandworm aveva colpito la rete elettrica ucraina, provocando un blackout lungo fino a sei ore per per circa 230.000 persone. Secondo Pierguido Iezzi, ceo di Swascan (Tinexta cyber), società italiana di cyber security, «sono i rischi laterali della guerra combattuta sul campo, azioni di disturbo, per il momento, che servono come monito sia per i Paesi avversari sia per quelli non allineati. Non dobbiamo dimenticare che la Russia, nonostante le difficoltà incontrate dal suo esercito fisico sul campo, possiede una capacità bellica impressionante per quanto riguarda il quinto dominio della guerra: il reame cyber». L’esperto continua: «Sappiamo per certo che nuovi e devastanti malware vengono sviluppati e impiegati come vera e propria arma bellica e non più come riadattamenti di virus creati per ottenere profitto. Negli ultimi giorni è stata individuata un’altra di queste armi di distruzione digitale, chiamata P ipe dre am , specificamente progettata per prendere di mira i sistemi di controllo industriale. L’aumento di malware focalizzati proprio per colpire queste infrastrutture è un chiaro segnale che lo scontro si sta sempre di più muovendo anche sul digitale. Sono armi devastanti in grado di mettere in ginocchio intere economie senza colpo ferire». E l’Italia come si inserisce in questo contesto? Secondo Iez - zi, nel nostro Paese sono stati fatti passi molto importanti negli ultimi mesi, tra cui la creazione dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale. Restano però alcuni punti di criticità, come rilevato da recenti analisi condotte dal team di ricerca Swascan che ha individuato alcune potenziali debolezze in settori come quello delle infrastrutture critiche e dell’energia. Proprio quelli oggi nel mirino di Mosca.

L’Europa non può rinunciare al gas e si impantana sui pagamenti in rubli

 

Non è dato ancora conoscere quali saranno le sanzioni in arrivo tra Ue e Russia. È pero certo che siamo arrivati al momento della resa dei conti per conoscere l’efficacia di quelle già adottate e la Ue è impantanata in mezzo al guado con riferimento alla vicenda del pagamento del gas russo in rubli che, nelle ultime 48 ore, ha subito una repentina accelerazione. Dapprima l’interruzione delle forniture verso Polonia e Bulgaria.Poi la dichiarata disponibilità di alcune importanti società importatrici a seguire le istruzioni di pagamento diramate dal governo Putin lo scorso 31 marzo. Infine, ieri, la secca presa di posizione del portavoce della Commissione Eric Mamer che ha escluso ogni possibilità di aderire allo schema di pagamento del gas a favore di Gazp ro m . Quando Bloomberg ha riportato che quattro importatori avevano già pagato in rubli e che dieci avevano già aperto il conto in rubli, con la nostra Eni, la tedesca Uniper e l’austriaca Ovm che si starebbero preparando a farlo, a Bruxelles deve essere scattato il campanello d’a l l a r m e. Dopo che solo venerdì scorso la Commissione aveva pubblicato delle linee guida che, con importanti distinguo, ammettevano che i pagamenti eseguiti secondo la procedura del Cremlino non violavano i divieti imposti dalle sanzioni, ieri si sono resi conto che la situazione gli stava sfuggendo di mano e c’era bisogno di chiarire ciò che evidentemente non era c h i a ro. Non deve ingannare il blocco delle forniture verso Polonia e Bulgaria, avvenuto a causa del mancato utilizzo della nuova procedura. Infatti, entrambi i Paesi avevano in scadenza al prossimo 31 dicembre i contratti con Gazprom e si erano attrezzati per tempo con delle alternative e la decisione russa ha avuto più il carattere di un’a z io n e dimostrativa. La vera partita si giocherà nelle prossime settimane con gli importatori con sede in Germania, Turchia, Italia, Francia e Austria, nell’ordine i maggiori clienti di Gazprom. Nella seconda metà di maggio sono previsti importanti pagamenti che devono essere eseguiti secondo le nuove regole, altrimenti la Russia chiuderà i r ubi n ett i . Lo schema proposto da Mosca è ingegnoso e mira, da un lato, a eludere le sanzioni e, dall’altro, a rompere l’unità tra gli Stati membri. Tutta la vicenda ruota intorno alla risposta a una sola domanda: il pagamento dell’i m p o rtato - re Ue è da considerarsi eseguito in valuta estera o rubli? Sembra questione di lana caprina, ma la risposta potrebbe portare al blocco delle spedizioni di gas verso la Ue, che il Financial Times definisce «catastrofica». All’i mportatore viene richiesto di aprire due conti speciali «K» presso Gazprombank in Svizzera, uno denominato in euro o dollari (la valuta contrattualmente prevista per il pagamento), l’altro in rubli. È vero che l’importatore paga in euro o dollari quando esegue il bonifico verso il conto aperto presso Gazprombank, ma quei fondi sono poi convertiti in rubli in contropartita della Banca centrale russa, con cui è vietato avere scambi, e finiscono in un secondo conto che è giuridicamente imputabile sempre al compratore. Solo in questo secondo momento parte il bonifico verso Gazprom. La Commissione ieri è entrata a gamba tesa proprio su questo meccanismo. Fino a venerdì sembrava che si accontentasse della dichiarazione da parte dell’i m p o rta - tore che si considerava liberato all’atto del pagamento di euro o dollari, disinteressandosi di quanto avveniva dopo. Oggi si sono accorti che aprire un secondo conto in rubli, seguendo la procedura imposta da Puti n , si risolve in un palese aggiramento delle sanzioni. Anzi, il solo fatto di «aprire un conto in rubli presso Gazprombank e conformarsi al decreto di V l ad i - mir Putin costituisce una violazione delle sanzioni», ha categoricamente dichiarato M a m e r. Che ha sottolineato la responsabilità degli Stati membri che potrebbero essere soggetti a una procedura d’infrazione, qualora non si adoperassero per imporre il rispetto delle sanzioni. I mercati non sono proprio convinti che la Ue andrà fino in fondo nell’impedire alle società importatrici di eseguire i pagamenti secondo la nuova procedura e quindi non hanno manifestato particolare nervosismo. Ma ormai è scaduto il tempo per le acrobazie verbali e conta la sostanza. Delle due, l’una: o dalla Ue pagano il gas con quello schema, vanificando di fatto le sanzioni, oppure Gazprom interrompe le forniture. I tecnici di Ur su l a von der Leyen ci hanno messo qualche giorno a capire che non basta dichiarare di pagare in valuta straniera, se poi a Mosca comunque arrivano rubli. E si si vuole scongiurare questo risultato, si deve rinunciare al gas russo e assumersene le responsabilità con tutte le inevitabili conseguenze sui prezzi di gas e petrolio. Sono bastati pochi mesi di tensione per ribaltare il segno della nostra bilancia commerciale con l’e s te ro, passata da un disavanzo a febbraio 2022 per 0,4 miliardi, contro un avanzo a febbraio 2021 di 5,3 miliardi (41 miliardi contro 68, osservando 12 mesi). Ancora una volta, tutto ruota intorno alla quantificazione dei costi e alla distribuzione sulla platea di famiglie e imprese. Meglio ponderare con attenzione, perché la guerra fatta con le sanzioni è lunga e non sostituisce quella con le armi, come ci avevano voluto far credere.