Dobbiamo «rassegnarci all’Mrna», come si è lasciato scappare il professor Bassetti. I nuovi vaccini sono infatti le «armi» di un «arsenale» che punta a rivoluzionare il modo in cui il mondo affronterà i problemi della salute. Come stabilito al G20. È strano immaginare un sistema sanitario pubblico concentrato sulla vaccinazione di tutti i sani, anziché sulla cura dei soli malati. Il futuro, però, è questo, ed è ormai delineato con chiarezza. Qualcuno, come Matteo Bassetti, lo ha già anticipato dichiarando che dobbiamo «rassegnarci a un futuro a mRna». Un lapsus freudiano, perché di solito non ci si «rassegna» alle buone notizie, quando sono tali. Il documento ufficiale che decreta il cambio di paradigma, epocale, è il testo conclusivo del G20 dei ministri della Salute (per l’Italia, Orazio Schill ac i ), pubblicato lo scorso 28 ottob re. Per i Grandi del mondo, le tre questioni prioritarie per la salute sono: «Costruire la resilienza (ancora!, ndr) del sistema sanitario globale, armonizzare i protocolli sanitari mondiali, espandere gli hub globali di produzione e ricerca», con particolare attenzione a quelli che lavorano sulla tecnologia mRna (come la Fondazione mRna di Padova, che ha ricevuto 320 milioni del Pnrr coinvolgendo ben 36 «spoke» nella mangiatoia). L’obiettivo è «facilitare un migliore accesso ai servizi». Più ospedali? Più medicina territoriale? Più medici? Macché: il G20 identifica questi servizi con «vaccini, terapie ( le g g i farmaci, ndr) e diagnostica» (Vtd) a livello globale, ossia profilassi preventive per evitare che ci si ammali, nell’ambito dell’approccio One Health di cui ha parlato anche il presidente Giorgia Meloni a Bali. Un arsenale a mRna realizzato innanzitutto per combattere le prime dieci minacce alla salute globale individuate dall’Oms (Ebola, Sars, Mers, lo stesso Covid che ha una mortalità dello 0,02% o la «malattia X», che ancora non si sa cosa sia, ma per prudenza è in lista). Nel mondo occidentale, però, si continua a morire di infarto, ischemia, cancro, diabete, malattie respiratorie. Ed è questo il punto d’approdo delle terapie a mRna: terapie e vaccinazioni non per le malattie del terzo mondo ma per quelle del primo. Le malattie non trasmissibili, insomma: tumori, diabete, glaucoma, le cosiddette «malattie dei ricchi» e dei servizi sanitari «ricchi». Mesi fa, il direttore di Oms Europa, Hans Kluge, aveva spiegato che siamo chiamati a combattere una «permacrisi» globale. La popolazione mondiale aumenta (abbiamo da poco superato gli 8 miliardi), curare tutti non è più sostenibile e le tecnologie terapeutiche a mRna - nella mente dei cervelloni della salute globale - rappresentano la soluzione. È su queste che si stanno concentrando i maggiori investimenti, miliardi di euro destinati non a migliorare strutture ospedaliere, costruire più ospedali o formare nuovi medici, ma a far produrre, per ogni malattia, vaccini e terapie ad hoc da aziende e organismi privati. Quelli coinvolti dai Grandi del mondo sono i soliti, riconducibili a una sola persona, quel Bill Gate s benedetto dal World economic forum: Global fund (cui l’Italia ha versato finora più di un miliardo e mezzo di dollari), Gavi Alliance, Cepi, Unitaid, eccetera, ai quali il G20, che rappresenta le istituzioni, riconosce ufficialmente il ruolo di «partner». È rivolto a loro, e alle «filantropie» (citofonare S o ro s ), l’ap - pello a «sostenere investimenti, organizzazioni e iniziative sanitarie». Un vaccino per evitare il cancro, un vaccino per evitare il diabete, e via dicendo, da somministrare a tutti, dai neonati ai centenari. Sembra un futuro lontano, ma è già il nostro presente. Lo step successivo, sperimentato per la prima volta con il Covid, è il passaggio all’obbligatorietà di queste profilassi vaccinali e terapeutiche con la giustificazione che «non si possono intasare gli ospedali». Qui, rientrano in scena le istituzioni, con il meccanismo gradualmente avviato in pandemia. In teoria, tutta l’impalcatura del green pass non serve più; in realtà continua a esistere. In teoria, soltanto i medici e soltanto in pochissimi Paesi (tra i quali, neanche a dirlo, l’Ita - lia) sono stati forzati a vaccinarsi; in realtà nel documento del G20 la certificazione verde anti Covid deve essere implementata su scala globale, dato che i ministri «si adoperano per procedere verso meccanismi che convalidino la prova della vaccinazione». In teoria, l’obbligatorietà è durata pochi mesi e ha riguardato soltanto un vaccino, l’anti Covid; in realtà sarà estendibile ad altri vaccini perché «bisogna capitalizzare il successo degli standard esistenti e del green pass per rafforzare la prevenzione e la risposta alle future pandem ie » . Non è un caso che la federazione nazionale degli Ordini dei medici (Fnomceo) abbia modificato le regole deontologiche della professione, annunciando che saranno introdotti articoli relativi ai vaccini e alle vaccinazioni: i medici non potranno sconsigliarne l’utilizzo. L’a rc h et i p o, insomma, abbiamo imparato a conoscerlo: perennizzazione della crisi sanitaria attraverso il paradigma ideologico della «permacrisi», commissionamento del prodotto salvifico (vaccini e terapie mRna) a privati che ne assicurano produzione e gestione - e fin qui niente di nuovo - ma poi anche deresponsabilizzazione dello Stato a discapito del cittadino, perché le tasse (già molto alte nell’Ue) non bastano più. Ciliegina sulla torta: i nuovi farmaci saranno realizzati nei Paesi poveri del mondo: una mancia non si rifiuta a nessuno e la propaganda buonista vuole sempre la sua parte.
NEL 2012 NON CI SARA' LA FINE DEL MONDO IN SENSO APOCALITTICO,MA UN CAMBIAMENTO A LIVELLO POLITICO ED ECONOMICO/FINANZIARIO. SPERIAMO CHE QUESTA CRISI SISTEMICA ,CI FACCIA FINALMENTE APRIRE GLI OCCHI SUL "PROGRESSO MATERIALE:BEN-AVERE""ECONOMIA DI MERCATO" FIN QUI RAGGIUNTO E SPERARE IN UN ALTRETTANTO "PROGRESSO SPIRITUALE:BEN-ESSERE"ECONOMIA DEL DONO,IN MODO DA EQUILIBRARE IL TUTTO PER COMPLETARE L'ESSERE UMANO:"FELICITA' NELLA SUA COMPLETEZZA".
STUPIDA RAZZA
lunedì 28 novembre 2022
mercoledì 23 novembre 2022
Criptovalute nel caos Genesis può fallire Dopo il no di Binance al salvataggio
E adesso la tempesta che si è scatenata nel mondo delle criptovalute può davvero diventare uno tsunami. Cz ha infatti detto no: la società di prestiti in criptovalute G e ne s i s global trading, in drammatica ricerca di liquidità, si era rivolta a B i n a n c e, ma la più grande borsa di criptovalute fondata e guidata da Changpeng Zhao, detto appunto Cz, ha risposto picche a causa di un potenziale conflitto di interessi. Da notare che Cz si era offerto di dare una mano a Ftx , ma dopo aver guardato i conti della società si era tirato indietro, aprendo così la strada al fallimento della borsa cripto di Sam Bankman-Fried. Secondo il Wall Street Journal, Genesis ha bisogno di un miliardo di dollari, ha chiesto aiuto anche ad Apollo Global Managem e nt e la risposta è stata la stessa di Cz: «No». Sembra quindi che il destino di Genesis sia segnato. D’altronde dal 16 novembre Genesis ha bloccato i prelievi e l’erogazione di p re s t i t i . «Non abbiamo in programma di dichiarare bancarotta a breve. Il nostro obiettivo è quello di risolvere consensualmente la situazione attuale senza la necessità di alcuna dichiara zione di fallimento. Genesis
continua ad avere conversazioni costruttive con i creditori», ha detto un portavoce di
Genesis.
Il classico esempio di dichiarazione che vorrebbe rassicurare e invece provoca l’e f fetto
contrario. La società si era già
inguaiata all’inizio dell’a n n o,
quando aveva prestato 2,4 miliardi di dollari a Three Arrows capital, finita in bancarotta poco tempo dopo.
EPICENTRO DEL BITCOIN
La società madre di Genesis è
Digital currency group (Dcg),
che sul suo sito si definisce
«l’epicentro del bitcoin e dell’industria della blockchain».
E non esagera. Nel portafoglio
di partecipazioni del gruppo
fondato nel 2015 da Barry Silber t si contano 165 società e si può trovare il gotha del mondo cripto (non ci sono comunque Binance e Tether): da Coinba - s e, che fino al fulmineo avvento di Ftx era la più grande borsa critpo negli Stati Uniti oltre a essere stata la prima a quotarsi al Nasdaq, a eToro per arrivare a C h a i n a lys i s , la società di analisi più reputata del settore. Per non parlare di Ftx. Il Wall Street Journal s o s t ie n e che Genesis ha erogato prestiti ad Alameda, società affiliata a Ftx che dava in garanzia Ftt, i token della borsa cripto di Bankman-Fried. Token che ora valgono zero. Ora in caso di fallimento di Genesis quali sarebbero le ripercussioni su Dcg, l’epicentro del bitcoin e dell’industria blockchain?
Una nuova crisi
La crisi delle criptovalute può trasformarsi facilmente in una nuova crisi di sistema dei mercati finanziari, e l’eventualità non deve essere sottovalutata dopo il fallimento di Ftx. Per evitare un bis del 2008 e del caso Lehman Brothers servirebbe un intervento rapido delle banche centrali per rassicurare i risparmiatori. L’appello è venuto dal presidente della Consob, Paolo Savona, durante la presentazione di un libro sull’ex governatore della Banca di Italia, Antonio Fazio. «Se importanti società decidono di non rimborsare», ha spiegato Savona, «quote di fondi comuni, questi a differenza delle banche non hanno un fondo di garanzia o una banca centrale in grado di intervenire. È’ una lacuna che va colmata». Anche perché- ha continuato il presidente della Consob- «Non rimborsare quote di fondi significa che la crisi c’è già. Quanto dobbiamo aspettare perché esplodano 10 o 15 grandi casi che la rendano sistemica?».Se dobbiamo parlare di competitività del sistema Italia devo dire cose su cui sarò facilmente frainteso. Negli ultimi sette anni la bilancia dei pagamenti italiana è stata strutturalmente in attivo, una condizione che io e Antonio Fazio ab - biamo sempre sognato e non abbiamo mai ottenuto. Quindi sulla competitività il giudizio non può essere negativo e tranchant. Certo, la Cina è cresciuta fortemente e la quota italiana nel commercio mondiale si è ridotta come peso di circa il 50 per cento. Il resto del mondo è cresciuto, ma noi non siamo andati indietro. Però, attenzione: le cose nel Paese non vanno così mal e. E allora perché non si fanno gli investimenti? Perché non c'è sufficiente fiducia per mobilitare l’i m p re n d itoria privata, mentre ci sono enormi pressioni per mobilitare l’i m p re n d i to r i a pubblica. Il problema quindi è la fiducia: non riusciamo a ricostruire una fiducia che utilizzi questi vantaggi rappresentati dalle esportazioni, che sono le nostre pietre miliari della crescita. L’altro punto è il volume del risparmio. Fra il 2021 e il 2022 - mi tocca pure fare l'apologia del governo che non c'è più - si era creata questa ondata di fiducia, che a seguito della cessazione dei vincoli derivanti dai lockdown, aveva addirittura determinato una crescita troppo forte in tutte le parti del mondo, che ha sostenuto l’i n f l a z ione attingendo all’enorme liquidità che c’era in circolazione, quella che gli economisti oggi stanno riesaminando a fondo. IN UNA SITUAZIONE DI VANTAGGIO Su questi due elementi si era diffuso un tale desiderio di ripresa che ci siamo trovati rispetto al resto dell’Europa in una situazione di vantaggio che addirittura ha consentito al governo che è andato via di dire: «Vi lasciamo una situazione in cui noi siamo leggermente meglio del resto dell’Eu ropa». E dal punto di vista statistico va benissimo. Però alla fine nel momento in cui si affermavano queste cose sono arrivati due nuovi problemi esterni al Paese. Uno è l’inflazione, l’altro è la necessità di riprendere in mano i problemi del debito pubblico. Questa condizione dell’i nflazione non può essere affrontata con gli strumenti classici - attraverso una stretta monetaria o il ritorno a una stretta fiscale – perché dobbiamo cercare una misura precisa che ancora non è stata trovata, che sia a metà strada fra la dose di restrizione monetaria e la dose di misure minime possibili di - chiamiamole - “cautele fiscali”. Se sbagliamo questa dose, inevitabilmente i problemi si trascineranno. L'inflazione peraltro ha eroso oggi il potere di acquisto dei salari, ma anche quello dei 5 mila miliardi di risparmi mobiliari che abbiamo a disposizion e. Come ristabiliamo la fiducia? Partiamo dai fatti. Primo: l’imprenditoria italiana ha mostrato le sue capacità nel mantenere quella competitività testimoniata dal surplus della bilancia dei pagamenti. Secondo fatto: l’Italia è uno dei tre paesi sui 27 d’Europa che ha un avanzo di partita corrente. Questo significa che noi viviamo al di sotto delle nostre risorse. Il resto del mondo pensa invece che noi viviamo al di sopra delle nostre risorse e non è vero. Questo vuole dire che noi ci rappresentiamo all'estero molto, molto male. Usando gli strumenti di comunicazione e gli strumenti politici questo cambio di immagine dell’Italia è un passaggio importante. Gli economisti possono fare la loro parte fornendo le statistiche che dimostrano che l’Italia ha una bilancia dei pagamenti strutturalmente attiva. Abbiamo anche un enorme risparmio, ma purtroppo larga parte affluisce all’estero: significa che non riesce a saldarsi con la volontà di crescita dell’Ita l i a , e questo è il primo dei problemi che deve affrontare e risolvere la politica. QUANDO IL NULLA GARANTISCE L’INCERTO C’è qualche altra cosa che sta avvenendo ora. Abbiamo ignorato gli sviluppi degli strumenti virtuali come le c r i pto cu r re n cy che sono utilizzate per fare da collaterale dei derivati (quindi il nulla che garantisce l’i n c e rto, visto che le formule per la valutazione del valore di mercato dei derivati non esistono), e oggi abbiamo una situazione instabile. Siamo in una situazione classica che ci aveva insegnato il nostro maestro Guido Carli spiegando che i ritardi nelle decisioni costano più di decisioni anche sbagliate, ma prese imm e d i ata m e nte. Oggi le banche centrali, nonostante si trovino in una situazione di restrizione monetaria relativa per combattere l’in f la zio ne, qualora arrivasse la crisi derivante dall’i n qu i n a m e nto dei criptoderivati attraverso i loro fallimenti (l’u ltimo dei quali è Ftx ), devono dire che interverranno per dare la liquidità alle imprese ovviamente non truffaldine. Già l’a n nu n c io che le banche centrali non si tireranno indietro di fronte a una situazione di crisi sistemica consentirebbe di risparmiare tantissime risorse rispetto ai costi sopportati davanti alla crisi del 2008 perché si scelse di procrastinare in ogni modo la decisione, facendo poi fallire Lehman Brothers e salvando tutto il resto impegnando cifre pazzesche. Sarebbe costato molto meno intervenire subito annunciando che sarebbe stato rimborsato il risparmio che certo incautamente si era infilato in quelle situazioni tutto sommato con il consenso delle autorità. Anche adesso si è dato il messaggio fino a poco tempo fa che il problema era modesto e che quindi non era il caso di intervenire. Ma se importanti società decidono di non rimborsare le quote di fondi comuni... beh, i fondi comuni a differenza delle banche non hanno la liquidità necessaria a compensare e non hanno un fondo di garanzia o una banca centrale in grado di intervenire. Questa è una lacuna istituzionale molto grave che va colmata e va colmata subito dicendo «lo faremo». Questo è urgente per le banche c e ntra l i . BISOGNA DIRE «LO FAREMO» L’inflazione? Uno dei miei maestri keynesiani che ci veniva a trovare spesso in Banca di Italia, Karl Brunn e r, ci diceva che «il problema dell’inflazione è non averla. Se incappi nell’i n f l azione, stai attento a come ne esci». Credo non ci sia definizione migliore sul momento che noi stiamo v ive n d o. Bisogna fin da adesso organizzarci e presentare dei programmi di intervento che impediscano che l’esplosione della crisi già in essere. La crisi c’è, perché non rimborsare quote di fondi significa che la crisi c’è già. Quanto dobbiamo aspettare perché esplodano dieci o quindici grandi casi in grado di fare diventare sistemica la crisi? È un fatto molto, molto serio che bisogna affrontare subito. *testo dell’intervento alla presentazione del libro di Ivo Tarolli “Antonio Fazio e i fatti italiani”.
Pure sotto le coperte siamo in recessione Coccole e narcisismo hanno ucciso l’EROS
Dopo un’epoca di esibita, consumata (apparente?) libertà sessuale, oggi di esibirci sotto le coperte non ne abbiamo più né la voglia né il coraggio e neppure la fantasia. Un calo del desiderio che si diffonde anche tra i giovani. I motivi? Noia, vite di fretta, lavoro sopra tutto… E rapporti dove alla passione si preferisce il rifugio di una tiepida tenerezza. Nel prossimo numero di Pa - n o ra m a in edicola, un’inchiesta sulla crisi di Eros, che qui a nt i c i p i a m o.
«Per un’ora d’amore non so cosa darei» cantavano i Matia Bazar nel 1975. Un bel niente, risponderemmo oggi. Neanche alla peggiore serie tv ci sentiremmo di rinunciare per un’ora d’amore. Chi più ne ha la forza, la voglia e il coraggio? Non lo si dice, ma ormai si pensa. Il grande psicoanalista Luigi Zoja ha descritto il calo della sessualità nel suo ultimo saggio, Il declino del d esid e rio (Einaudi). «Il problema è immenso, le discussioni che lo riguardano invece sembrano squittii di topo», osserva dal suo studio milanese. Ai primi del Novecento di sesso se ne parlava molto, negli anni Settanta non si faceva altro che parlarne (e farlo). Era una macchina che metteva in moto settori della cultura e dell’e c o n omia. Oggi non mette in moto nulla. Continua Z o ja: «È una tendenza che si è manifestata con l’inizio degli anni Duemila. Le uniche ricerche complete sono le tre inglesi Natsal, la quarta è in via di realizzazione. […] Dai Natsal, che indagano 60 anni di vita sessuale britannica, emerge come tra i giovani ci sia un ritorno alla monogamia, una richiesta di esclusività del partner. Con tutte le insicurezze che i giovanissimi si trovano ad affrontare, non vogliono anche quella sentimentale. E al tempo stesso dicono che non sono più così interessati alla sessu a l i tà » . Secondo l’ultimo rapporto Censis-Bayer sui nuovi comportamenti sessuali degli italiani tra 18 e 40 anni, 700.000 non hanno una vita erotica, 1,6 milioni non hanno mai avuto rapporti, mentre l’astinenza è capitata almeno una volta a 13 milioni, con una durata media di sei mesi. Le coppie bianche con relazioni stabili ma «no sex» sono circa 220.000. […] Intanto in America si parla già di sex re c essio n : «In un futuro visibile non si torna indietro. Siamo arrivati a quello che Max Weber chiamava il “d i s i n c a nto del mondo”. Si è perso il senso di appartenenza, la religione, la credenza. Quello in cui viviamo è lo stadio finale del “d i s i n c a nta m e nto”, un’imme rsione in un mondo senza trascendenza, di completa solitudine. La riduzione della sessualità a un atto unicamente biologico, di idraulica del corpo, è tremendo, ma è molto difficile si recuperi quello che si chiamava “fare l’a m o re” o meglio l’Eros». P l ato n e nella Re p ubb l ic a scriveva: «Dalla somma libertà viene la schiavitù maggiore e più feroce». […] L’uomo è sicuramente quello che sta attraversando la crisi peggiore, non ha capito quanto la donna sia cambiata, resta ancorato a un passato glorioso, dove era quello che non doveva chiedere mai. Ne è convinto anche Fabrizio Quattrini, sessuologo clinico, docente all’Università dell’Aquila, il cui ultimo libro Il piacere maschile (G i u nt i ) fotografa la débâcle: «Ho notato più che un calo, una modalità diversa di vivere l’intimità». Signora mia, il piacere dannunziano è una chimera. Siamo all’a st inenza, alla quaresima perenne. «Seguo tante coppie in difficoltà che da tre, quattro anni non fanno più sesso», racconta lo psicoterapeuta, che tuttavia vede in questo declino solo la punta dell’iceberg. «C’è un egoismo che porta alla perdita della libido. Siamo immersi nella fretta e si fa fatica a formare una coppia. Vedo situazioni atipiche e nascoste: dal marito che va a trans all’a m a nte donna per la moglie. Il mondo non sta rinunciando al sesso, sta solo cambi a n d o » . […] Intanto il sesso riproduttivo non sente l’e m e rgenza del momento: lo dicono le statistiche, riportate dall’analisi del saggio La trappola delle culle ( Rubbettino) di Luca C i fo n i e Diodato Pirone. Nel 2021 i figli sono stati 1,25 a testa, meno della metà del 1964, che è considerato una specie di paradiso perduto della natalità, un Eldorado che sarà impossibile riconquistare. Così mentre da noi sono venuti al mondo solo 399.000 bambini (per la prima volta nella nostra storia), in Francia ci hanno doppiato con 742.000 nascite. La ginecologa A l e ssandra Kustermann, prima donna primario della clinica Mangiagalli di Milano, conferma tutto: «È vero che c’è un calo del desiderio e sono diminuite le nascite, non solo in Italia, ma nel mondo occidentale. L’i p otesi che si sia ridotta la sessualità, il desiderio e quindi la natalità potrebbe essere interessante. Io lo penso da anni. Una delle domande che faccio alle donne che vengono in visita è quante volte la settimana hanno rapporti sessuali. Q u a ra nt’anni fa mi rispondevano: tre, quattro volte. Oggi al massimo due. Un dato importante da rilevare è anche un calo della fertilità, dovuto all’aumento dell’età della donna alla prima gravidanza. Le giustificazioni sono: siamo stanche, lavoriamo, ci sono i bambini, la casa. Ma la sessualità è una parte importante della relazione con il partner e il calo di frequenza dei rapporti è significativa, secondo me, della difficoltà della coppia. Dell’ac co ntentar si di un rapporto fatto di affetto, magari di carezze, ma che non corrisponde all’immaginario della relazione uomo-donna. Oggi forse decidere di diventare una famiglia è più difficile: non è una necessità». L’aveva previsto Herber t Marcuse nel suo Eros e Civiltà: l’inevitabile «desessualizzazione» nella società capitalistica. Per scendere dalle vette della Scuola di Francoforte alla nostra misera realtà: qui non si batte più un chiodo.Tra i giovani boom di miocarditi dopo il vaccino
Uno studio canadese registra casi di miocarditi quasi 150 volte maggiori del previsto dopo il vaccino. Tassi più alti tra gli under 30. Leggete questo numero ad alta voce. Scandite bene ogni cifra: 148,32. È il rapporto tra le miocarditi diagnosticate e le miocarditi attese nei ragazzi della Columbia britannica, di età compresa tra 18 e 29 anni, fino a marzo 2022, dopo la seconda dose del vaccino Moderna. Sapete cosa significa? Che le infiammazioni al cuore sono state quasi 150 volte di più di quanto era stato previsto, in base alle precedenti statistiche sulla malattia. È una delle scoperte contenute in uno studio appena pubblicato dal Canadian medical association journal, rivista scientifica canadese. Gli autori hanno monitorato i 4 milioni e mezzo di inoculati della provincia più occidentale del Paese, misurando i tassi degli effetti collaterali cardiaci a sette e a 21 giorni dalla prima, dalla seconda e dalla terza dose. Complessivamente, si sono verificate 99 miocarditi per 100.000 sh o t a una settimana dalle punture, contro le 6,7 preventivate: 14,81 volte di più. Prendendo come riferimento il periodo più lungo, il dato arrivava a 141 miocarditi effettive contro le 20,1 pronosticate (7,03 volte di più). I tassi di miocarditi erano maggiori tra i ragazzi delle classi 12-17 anni e 18-29 anni, specie se di sesso maschile. Nella prima fascia, le reazioni registrate sono state oltre 25 volte di più di quelle preventivate; nella seconda, 9,87 volte di più; tra 30-39, 6,17 volte di più. Inoltre, come dicevamo sopra, è stato comprovato che il rischio massimo è rappresentato dalla seconda dose di Moderna: dai 18 ai 29 anni, entro sette giorni dalla somministrazione, il tasso di miocarditi schizzava a 22,05 per 100.000 inoculazioni (contro il 5,06 di PfizerBiontech); dai 30 ai 39, si attestava a 6,99 (contro lo 0,46 di Pfizer-Biontech). Evidenze simili per la finestra di rischio di 21 giorni: tra 18 e 29 anni, tasso di 22,97 miocarditi per 100.000 dosi dopo il secondo sho t di Spikevax, contro il 5,84 di Comirnaty; tra 30 e 39, 6,99 contro 1,38. È un particolare rilevante anche per l’Italia: fino a primavera - dunque, fintantoché si vaccinava in massa la popolazione giovane - una buona quota di punture si faceva con il siero di Moderna. Il calcolo del rapporto tra i danni cardiaci diagnosticati e quelli attesi, poi, ha portato in luce un altro dettaglio preoccupante: per gli adolescenti, il pericolo di miocarditi rispetto ai precedenti storici sembrava aumentare con il primo booster. Dopo la seconda dose di Pfizer, stando alle informazioni raccolte in Canada, il differenziale toccava quota 134,29. Dopo la terza, saliva a 139,80. In soldoni: in età puberale, si verificavano quasi 135 volte più reazioni avverse al cuore di quelle che era ragionevole aspettarsi, entro sette giorni dalla seconda dose; e quasi 140 volte di più dopo il primo richiamo. Pure nei più grandi è accaduto qualcosa di simile: nei trentenni, a fronte di un rapporto tra miocarditi registrate e miocarditi attese di 3,35 dopo la seconda dose Pfizer, se ne osservava uno di 11,84 dopo la terza; negli over 40, si passava da 8,05 a 25,51. Stessa dinamica, allargando la finestra di rischio da una settimana a 21 giorni. Ricapitolando: in termini di incidenza, le miocarditi tendevano a verificarsi soprattutto in seguito al ciclo primario, tranne che tra gli adolescenti vaccinati con Pfizer, a 21 giorni dal richiamo (il tasso di miocarditi, in effetti, saliva da 6,73 a 9,75 con la terza dose). Il rapporto tra casi osservati e casi attesi, invece, era quasi sempre più elevato con il booster. Tuttavia, gli scienziati che hanno vergato la ricerca canadese hanno trovato una specie di gabola, per salvare l’ortodossia vaccinale. Visto che l’incidenza delle miocarditi cala tra gli anziani, i quali, al contempo, sono più esposti alle conseguenze gravi nel Covid, includerli nelle stime sposta l’asticella verso l’eterna giostra delle inoculazioni. E siccome ci sono più effetti avversi dopo la seconda dose che dopo la terza, gli studiosi sostengono che pure inseguire i ragazzi con la siringa debba rimanere «la strategia preferenziale». Il punto è che, per dimostrare il vantaggio degli antidoti, essi citano un report americano risalente all’e s ta - te del 2021. Ovvero, a prima che comparisse la meno patogena variante sudafricana. Lo scorso febbraio, un paper pubblicato dall’Euro p ea n journal of clinical investigatio n , giungeva già a conclusioni molto diverse: «Nei ragazzi tra 12 e 17 anni, la vaccinazione con due dosi era uniformemente vantaggiosa solo in ragazze non immuni al Covid con comorbidità. Nei ragazzi con una pregressa infezione e n e s su n’altra patologia, persino una sola dose comportava più rischi che benefici». Ora, in pieno scenario Omicron, la bilancia pende ancor di più a favore di una moratoria sulle punture. Se ne stanno rendendo conto un po’ ov u n que, dalla Scandinavia alla Columbia britannica. Da noi, quando suonerà la sveglia?
Tesla, titolo dimezzato Pesano Twitter e Cina
L’aumento della cigs del 65% campanello d’allarme sulle crisi
L’allarme per lo stato di crisi delle imprese industriali e commerciali è confermato dall’ampio ricorso a settembre alla cassa integrazione straordinaria. Mentre va esaurendosi l’impatto negativo del Covid-19 sulle attività produttive, la nuova emergenza è legata alla guerra in Ucraina e all’aumento dei prezzi e delle materie prime. Le oltre 15 milioni di ore di Cigs autorizzate dall’Inps a settembre superano del 65% il dato di agosto (una crescita ben superiore rispetto all’incremento complessivo della Cig che sfiora il 9%). È il quadro che emerge dal rapporto realizzato dall’Associazione Lavoro&Welfare di Cesare Damiano, il cui centro studi Mercato del Lavoro e Contrattazione ha rielaborato i dati Inps evidenziando, in particolare, i 15 settori nei quali cresce la Cigs, con le “colonne” del Made in Italy come il Tessile (+347%), Trasformazioni minerali (+202%), Pelli e Cuoio (+189%), Metallurgico (+186%), Commercio (+127%), Vestiario e Abbigliamento e Arredamento (+110%). Per dimensioni e peso sul sistema produttivo, spicca il settore Meccanico (+23% su agosto). In maggior sofferenza, le Regioni del Nord - nel Centro il Lazio -, dove si genera la maggior parte del Pil, dalle quali arriva la maggior richiesta di decreti di Cigs: la Lombardia 349 (+25%), il Lazio 245 (+94%), l’Emilia-Romagna 158 (+33%), il Veneto 132 (+71%) e il Piemonte 127 (+2%). «La situazione attuale è caratterizzata da un maggiore ricorso alla Cigs, il cui utilizzo riguarda generalmente le situazioni di crisi aziendale – commenta Cesare Damiano-. È un segnale della crisi che comincia a mordere seriamente il nostro tessuto produttivo, con le riduzioni produttive indotte dalla carenza e dall’aumento del costo delle materie prime. Una situazione che si fa dura per le famiglie e per le imprese». Rispetto a settembre del 2021 il ricorso alla Cigs diminuisce di circa l’1%, ma nel periodo gennaio-settembre 2022, rispetto allo stesso periodo del 2021, la Cigs aumenta di oltre il 25%, con oltre 153 milioni di ore autorizzate. Si attendono, a breve, i dati di ottobre dell’Inps per vedere se questo quadro sarà confermato. Nelle causali in crescita le crisi Il numero delle aziende in crisi che fanno ricorso a decreti di Cigs fino a settembre 2022 diminuisce rispetto allo stesso periodo del 2021: sono 1.470 (-14,73%). Si modifica la composizione delle aziende che ricorrono ai decreti di Cigs, con un aumento tra i grandi gruppi commerciali e industriali con molte unità produttive presenti sul territorio nazionale: da 2.614 siti del 2021 a 3.752 (+43,53%). In crescita i ricorsi alla Cigs per Crisi aziendale (+39%), con 317 decreti sono quasi il 19% del totale dei decreti. In forte aumento anche i Contratti di Solidarietà: sono 789 decreti (+83%), quasi la metà di tutti i decreti di Cigs concessi (47%), un anno fa erano il 20,23% del totale. «Molti contratti sono la riaccensione di decreti già presenti in precedenza ma sospesi per Covid - spiega Giancarlo Battistelli, che ha curato il rapporto-. Questi contratti di solidarietà consentono la riduzione di orario e la salvaguardia dell’occupazione. Il loro aumento testimonia una sotto-utilizzazione delle attività a cui sono legati e una presenza occupazionale non utilizzata». Con causale “Sospensione Cigs” si registrano 210 decreti (-81%), sono quasi il 13% del totale dei decreti di Cigs. Infine, le aziende che chiudono definitivamente, passando attraverso i decreti di Cigs, sono 130 (la stessa percentuale del 2021) pari a quasi l’8% dei decreti di Cigs. «Il maggiore ricorso alla Cigs è legato alla possibilità di intervenire negli stati di crisi aziendali - continua Battistelli -, per favorire processi di riorganizzazione, riduzioni di orario con i contratti di solidarietà ed altre causali, compresi interventi nelle chiusure di aziende».I lavoratori interessati Il rapporto ha tradotto le ore totali autorizzate di Cig (Cigo, Cigs, Cigd, Fis) equivalenti a posti di lavoro con lavoratori a zero ore, tra gennaio e settembre 2022, che corrispondono ad un’assenza completa di attività produttiva per oltre 296mila lavoratori, di cui oltre 98mila in Cigs, 17mila in Cigd, oltre 107mila in Cigo e 73mila in Fis. In base alle ore di Cig, nel 2022, fino a settembre, si sono perse quasi 58 milioni di giornate lavorative. Il massiccio ricorso agli ammortizzatori sociali ha avuto ricadute economiche per i lavoratori che fino al mese di settembre, hanno avuto una diminuzione complessiva del monte salari di oltre 1 miliardo e 260 milioni di euro al netto delle tasse. Il conto per ogni lavoratore in Cig a zero ore, fino a settembre corrisponde ad una perdita del reddito di oltre 4.480 euro al netto delle tasse. Se il conto si fa non sulle ore autorizzate, ma sul “tiraggio”, ovvero sull’effettivo utilizzo della Cig, che è stato mediamente del 26,60% bisogna rivedere questi numeri al ribasso. La Cigs nell’ultimo decennio Per il periodo gennaio-settembre di ogni anno, nel 2012 la Cigs ha totalizzato oltre 247 milioni di ore, contro i 120 milioni del 2022. La punta più alta è nel 2014 con oltre 342 milioni di ore. «Sembrerebbe che oggi si stia molto meglio - aggiunge Battistelli- ma è un’impressione parziale perché, ancora oggi si risente della possibilità nella fase transitoria di trasformare le ore dei decreti di Cigs in ore caricate nella Cigo o nella Cigd». Prima del Covid, ovvero dal 2012 al 2018, la Cigs scende da 247 milioni di ore a 69 milioni di ore (-72%) nei mesi che vanno da gennaio a settembre. Mentre dal 2018 al 2022, la Cigs torna a salire: da 69 milioni di ore a 120 milioni di ore (+73%). «In questa fase, ancora non è del tutto trasparente lo stato di crisi delle aziende - conclude Damiano-. Il periodo Covid-19 ha finito per nascondere lo stato di crisi preesistente nelle aziende che si sta gradualmente manifestando. Il problema sull’occupazione si porrà nel medio periodo, se non ci sarà una ripresa in grado di saturare la capacità produttiva».
Ocse: nel 2023 non ci sarà la recessione globale
Indebolita dalla guerra in Ucraina e dal peggiore shock energetico dagli anni Settanta, l’economia mondiale frena, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti, anche se dovrebbe riuscire a evitare la recessione l’anno prossimo, sempre che il quadro non peggiori. Lo scenario è quello dell’ultimo outlook dell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che per l’Italia prevede una contrazione alla fine dell’anno e una sostanziale stagnazione (+0,2% appena) nel 2023. La crescita mondiale rallenterà quest’anno al 3,1% (a settembre la stessa Ocse aveva previsto un +3,1%) contro il 5,9% del 2021, per poi calare al 2,2% nel 2023 e risalire al 2,7% nel 2024. Principale motore della crescita nel biennio 2023-2024 saranno i Paesi emergenti dell’Asia, che peseranno per tre quarti, mentre Europa, Nord America e Sud America registreranno basse performance. A cominciare dall’Europa, che più di tutti sente il peso del conflitto in Ucraina e del conseguente shock energetico nonché – ma questo è un problema condiviso con l’altra sponda dell’Atlantico – dell’inflazione fuori controllo. Per l’Eurozona, l’Ocse prevede quest’anno un incremento del 3,3% del Pil, che frenerà bruscamente nel 2023 (+0,5%) e risalirà all’1,4% nel 2024. A soffrire di più sono le economie tradizionalmente dipendenti dalle importazioni di energia russa, come quella tedesca: per Berlino si prevede l’anno prossimo una contrazione del Pil dello 0,3%, comunque meno marcata dello 0,7% stimato a settembre; meglio andrà invece in Francia, dove la dipendenza è minore e dove si stima una crescita dello 0,6%. Per l’Italia, dopo la crescita sostenuta dei primi trimestri del 2022 (che si tradurrà in un +3,7% annuo), l’Ocse rileva indicatori che puntano a un declino dell’attività e fanno prevedere qualche contrazione trimestrale. Il 2023 dovrebbe tuttavia registrare un lievissimo segno positivo (+0,2%), prima di ritrovare la crescita vera e propria (+1%) nel 2024. Il debito pubblico si attesterà al 146,5% nel 2022, per poi ridursi al 144,4% nel 2023 e al 143,3% nel 2024. «Pensiamo che le politiche attuate oggi cominceranno ad avere un impatto nel 2024 – ha dichiarato il capo economista dell’Ocse, Alvaro Santos Pereira - e pensiamo che ci sarà un rimbalzo dell’economia italiana. Ripeto – ha aggiunto però - quello che già da tempo diciamo: prima di tutto ciò che è importante per l’Italia è la prudenza di bilancio, perché c’è comunque un indebitamento abbastanza forte». Fuori dall’Eurozona, peggiora lo scenario nel Regno Unito, maglia nera del G7 per i prossimi due anni (con una contrazione dello 0,4% nel 2023) per effetto di alta inflazione ed elevati tassi di interesse. Anche per quanto riguarda gli Stati Uniti, l’aggressiva politica della Federal Reserve per contenere l’inflazione produrrà una frenata della crescita: dall’1,8% di quest’anno allo 0,5% del 2023 (+1% la stima per il 2024). L’Ocse tuttavia, in linea con le principali banche centrali e con la Commissione europea, in questa fase prolungata di alta inflazione (8,3, 6,8 e 3,4% le stime per l’Eurozona tra il 2022 e il 2024) non vede alternative a politiche monetarie restrittive, accompagnate da misure mirate da parte dei governi. «L’ulteriore inasprimento della politica monetaria – si legge nel rapporto presentato ieri - è essenziale per combattere l’inflazione e il sostegno della politica di bilancio dovrebbe diventare più mirato e temporaneo». «Non prevediamo una recessione – ha sintetizzato il segretario generale dell’Ocse, Mathias Cormann, presentando l’outlook – ma certamente un periodo di marcata debolezza». Il condizionale tuttavia rimane d’obbligo. I numeri indicati fanno parte dello scenario base dell’Ocse, che non manca di ricordare che c’è il rischio di più gravi carenze di gas, con effetti a cascata sulla catena produttiva. In questo caso, le ricadute su crescita e inflazione potrebbero essere consistenti. Soprattutto in Europa, dove l’Ocse stima nel 2023 un impatto fino a 1,4 punti percentuali di Pil in meno e 1,25 punti percentuali in più per l’inflazione. A quel punto, diversi Paesi non riuscirebbero più a scongiurare la recessione.
Gazprom minaccia l’Ue: ridurremo i volumi di gas in transito dall’Ucraina
La Ue ha indicato il valore del price cap sul gas a 275 euro per megawattora. Oltre questa soglia si bloccano le contrattazioni. Perplessità dall’Italia. Intanto la russa Gazprom torna a minacciare tagli alle forniture nel gasdotto che passa dall’Ucraina Trovato l’accordo sul price cap, ora l’Europa rischia di subire un nuovo taglio alle forniture di gas russo. Gazprom, che con una coincidenza quanto meno sospetta, ieri ha minacciato di ridurre i volumi che transitano dall’Ucraina: l’unica rotta ancora utilizzata per servire i clienti tradizionali, oltre che da sempre quella preferita per raggiungere l’Italia. La stretta comincerà il 28 novembre, lunedì prossimo – proprio quando le previsioni meteo annunciano un’ulteriore discesa delle temperature nel continente, sotto le medie stagionali – a meno che prima di allora non si arrivi ad una (improbabile) ricomposizione dell’ennesima disputa con Kiev, che Gazprom stavolta accusa di trattenere gas destinato alla vicina Moldova. Il gestore della rete ucraina, Gtsou, respinge ogni addebito: «È una grossolana manipolazione dei fatti, per giustificare la decisione di limitare ulteriormente le forniture di gas ai Paesi europei», si legge in un comunicato. È un copione simile a quelli già andati in scena più volte in passato, con conseguenze pesanti su prezzi e offerta di energia nel 2006 e poi di nuovo nel 2009, in quelle che vengono ricordate come “guerre del gas”. Ma oggi tra Mosca e Kiev è in corso un vero e sanguinoso conflitto, combattuto con le armi, in cui l’esercito russo non ha esitato a distruggere infrastrutture energetiche, con gravi danni per la popolazione civile. Quanto al gas, la rotta via Ucraina non è più una delle tante a disposizione di Gazprom, ma l’unica rimasta per rifornire l’Europa occidentale. I gasdotti gemelli del Mar Baltico – il Nord Stream 1 e il mai utilizzato Nord Stream 2 – sono infatti entrambi fuori uso dopo il sabotaggio dai contorni tuttora misteriosi avvenuto a fine settembre. E prima ancora la Polonia aveva rescisso il contratto per il transito di gas russo nel suo territorio, riservando di fatto la pipeline YamalEurope ai flussi da ovest a est. Via Ucraina ( utilizzando un solo punto di accesso, quello di Sudhza) Gazprom oggi esporta circa 43 milioni di metri cubi di gas al giorno: volumi scarsi ma ancora insostituibili per l’Europa. Se restassimo senza saremmo costretti ad aumentare il ricorso agli stoccaggi, col rischio di esaurirli prima della fine dell’inverno e di non essere in grado di riempirli di nuovo a sufficienza: con le forniture russe azzerate potrebbero mancarci 30 miliardi di metri cubi di gas da mettere via per il prossimo anno termico, ha avvertito di recente l’Aie. Eppure il prezzo del combustibile ieri non è salito più di tanto: il rialzo è stato di poco superiore al 4% al Ttf per il gas in consegna a dicembre, che è tornato a superare 120 euro per Megawattora. Sono livelli elevati, quasi il quadruplo rispetto alla norma in questo periodo dell’anno. Ed è probabile che molti operatori diano già da tempo per scontato che la Russia prima o poi finirà col chiudere i rubinetti. Ma forse c’è anche la convinzione che il prossimo taglio, ammesso che ci sia, sarà lieve. Gazprom calcola che in tutto le siano finora sottratti 52,52 milioni di metri cubi di gas, ma minaccia di trattenere dal 28 novembre solo la quota di forniture destinata alla Moldova: appena 5,7 milioni di metri cubi al giorno dunque, quel poco che ormai spetta a Chisinau, anch’essa coinvolta di recente in dispute con il fornitore russo.
sabato 5 novembre 2022
Nucleare Le centrali non ripartono Nuovi guai per la Francia
Ci risiamo. Per la quarta volta consecutiva Edf ha dovuto rivedere al ribasso le sue previsioni di produzione di energia elettrica, il che avrà conseguenze negative questo inverno non solo per la Francia ma per tutta l’Eu - ropa (l’Italia acquista da Parigi il 5% dell’elettricità che c o n su m a) . Il colosso francese dell’energia si aspetta che quest’anno i suoi impianti atomici producano meno di 275 terawattora, rispetto alla precedente stima di almeno 280 terawattora. Molti reattori sono fermi da tempo, dopo che sono stati riscontrati fenomeni di corrosione nelle tubature, e i lavori di manutenzione stanno procedendo a rilento anche per via degli scioperi dei lavoratori che chiedono stipendi più alti per far fronte all’i n f l a z io n e. I problemi col nucleare (la cui produzione nel 2022 toccherà il livello più basso da 30 anni) hanno portato la Francia a diventare un’importatrice netta di energia elettrica. Parigi nei mesi scorsi ha raggiunto un accordo con la Germania per scambiare gas contro elettricità in caso di bisogno questo i nve r n o. Edf prevede che i problemi alle centrali avranno un impatto sui conti pari a 32 miliardi di euro. Recentemente l’azienda, partecipata dallo Stato all’84% e che presto sarà completamente nazionalizzata, ha paradossalmente fatto causa al governo francese, chiedendo 8 miliardi di euro di risarcimento per i costi sopportati in seguito all’introduzione del tetto agli aumenti in bollette.
Lagarde in veste da falco: sui tassi pronti ad andare oltre
Sarà stato perché si rivolgeva ai cittadini dell’Estonia dove, come ha scandito in apertura del suo intervento a Tallinn, «l’impennata dei prezzi ha toccato il 25%». Fatto è che la presidente Christine Lagarde ha pronunciato ieri un discorso più “falcheggiante” del solito, spazzando via per ora almeno le interpretazioni “dovish pivot” che avevano scorto un qualche cenno di moderazione alla conferenza stampa dopo l’ultimo rialzo dei tassi da 75 punti base. La parola d’ordine ora è «determinazione», a oltranza se necessario. Lagarde ha detto ieri che la Bce è pronta ad andare oltre il tasso neutrale, fino a un orientamento di inasprimento della politica monetaria. «Abbiamo innalzato i tassi ufficiali di 200 punti base e prevediamo di aumentarli ancora. Il nostro lavoro però non finisce qui - ha chiarito -. L’abbandono dell’orientamento accomodante potrebbe non bastare a riportare l’inflazione al nostro obiettivo». E questo anche perché «l’evidenza storica indica che non bisognerebbe attendersi un impatto significativo sull’inflazione dal rallentamento della crescita, almeno non nel breve periodo». La presidente ha sottolineato che dimostrare impegno nei confronti del mandato «è fondamentale per assicurare il continuo ancoraggio delle aspettative di inflazione ed evitare che gli effetti di secondo impatto (spirale prezzi-salari) si radichino». «Le recenti decisioni del Consiglio direttivo testimoniano questa determinazione». Per Lagarde, in tempi così burrascosi le banche centrali devono fare affidamento sulla loro bussola – «la lealtà verso il mandato» – per assicurare la stabilità dei prezzi. «Devono essere pronte ad assumere le decisioni necessarie, per quanto difficili, al fine di ricondurre l’inflazione su livelli più contenuti, perché le conseguenze di un’inflazione troppo alta radicata nell’economia sarebbero molto più deleterie per tutti». La determinazione della Bce sta anche nella tempestività. Nel caso di peggioramenti, non esiterà ad intervenire, non aspetterà “il ritardo dei tempi di trasmissione della politica monetaria”: «Se dovessimo assistere all’ulteriore protrarsi dell’inflazione e al rischio di disancoraggio delle aspettative, non potremmo attendere il pieno concretizzarsi degli effetti degli interventi monetari. Dovremmo adottare ulteriori misure». Lagarde si è infine rivolta ai governi dell’area euro. A fronte del rallentamento dell’economia e della compressione dei redditi reali, la politica di bilancio potrebbe assumere un orientamento più espansivo al di là degli stabilizzatori automatici. In un contesto con vincoli dell’offerta, ciò rischierebbe di accentuare le pressioni inflazionistiche, «costringendo la banca centrale a un inasprimento della politica monetaria superiore a quanto altrimenti necessario».
Schizofrenia Ue: per l’auto elettrica va bene sacrificare 600.000 occupati
Alla baronessa Ursula von der L eyen piace giocare a sette e mezzo sul panno verde del suo amatissimo e ideologico green deal, tanto il banco Europa vince sempre; a perdere sono le imprese e i cittadini-consum ato r i . Sono mal contati i 750.000 impiegati del settore auto che perderanno il lavoro, sono 750.000 le aziende che si occupano in Italia di imballaggi e di riciclo del packaging (6,3 milioni di dipendenti) che salteranno per aria in forza dei nuovi regolamenti europei. Ma che gli fa, l’Europa vuol bene all’ambiente e pazienza se si scopre che è un gigante economico con i piedi d’argilla, pardon di Greta. Ormai l’ossessione verde ha fatto perdere qualsiasi contatto con la realtà alla Commissione europea. Al punto che, per le auto, l’Europa diventa classista e difende solo i ricchi: si potranno vendere anche dopo il 2035 solo le Ferrari e tutte le supercar, mentre gran parte dei cittadini non si potrà permettere l’auto elettrica. Per il packaging, poi, l’Eu ro pa smentisce se stessa: ha fissato dei minimi per il riutilizzo dei materiali, incoraggiando l’economia circolare con l’esalta - zione delle cosiddette materie prime-seconde e ora li smonta perché alla baronessa von der L eye n non piace più il riciclo, lei punta al riuso: vuole ripristinare il vuoto a rendere. Senza considerare che si spreca un sacco di energia per recuperare gli imballaggi e ricondizionarli. Si pensi solo alle bottiglie di vetro (ora, peraltro, introvabili) che vanno comunque lavate e sterilizzate: costa meno, anche in termini energetici, frantumarle e ristamparle. Ma vale anche per le bistecche sintetiche: per far funzionare i bioreattori, si consuma infinitamente di più che per allevare un manzo. Per le coop agricole «le scelte europee con il Farm to fork in tema di agricoltura e alimentazione non sono più attuali e realizzabili»; gli alimentaristi denunciano che «von der L eye n vuo - le farci mangiare le bistecche finte di Bill Gates», ma ora due settori-colossi della manifattura sono rischio fallimento per i diktat di Bruxelles. Il primo è il comparto dell’automobile: dal 2035 non si potranno più commercializzare veicoli a motore endotermico; il secondo è quello degli imballaggi, che coinvolge tutti i settori manifatturieri e che, nel riciclo, ha ottenuto in Italia ottimi risultati. A rendere evidente che le scelte di Bruxelles sono ideologiche, prevaricano gli Stati e non hanno alcun motivato parere ci ha pensato Thierr y Breto n , commissario europeo al mercato interno e all ’industria. Ha cercato di spiegare perché si va dritti al 2035 come anno di morte delle auto endotermiche. In realtà mancano ancora due atti e il passaggio al Parlamento di Strasburgo, ma la decisione è p re s a . Dopo aver certificato che il settore auto vale 12,7 milioni di posti di lavoro (il 6,6% dell’oc - cupazione europea), Breto n ha detto: «Speriamo di mantenerli: 600.000, però, potrebbero perdere il lavoro». In realtà, sono molti di più: Deutsche bank ha stimato che in Germania ne salteranno 870.000. Per quel che riguarda l’Italia, c’è il rischio azzeramento per quasi tutta la filiera della componentistica: 60.000 imprese con 500.000 occupati. Breto n , però, annuncia che nel 2026 si farà una valutazione per sapere se si debbano riconsiderare i biocarburanti e fare il punto sulla transizione. Ci sarà un gruppo di lavoro composto da industrie, sindacati e tecnici che farà un monitoraggio trimestrale. L’Eu ropa, peraltro, è pronta mostrare i muscoli. Perfino con Jo e Bi - den, che si è fatto gli affari suoi con la legge che aiuta con 730 miliardi di dollari la transizione verde negli Usa. È vero, ammette Breto n , che diverse aziende stanno già emigrando in America, così come è sul tavolo il tema delle batterie e dei componenti, che sono un monopolio dei cinesi. Ma l’Eu ro pa risponderà con una propria normativa sulle materie prime critiche che verrà presentata «nel primo trimestre del 2023» e poi darà impulso a « un’industria made in Europa» con un aiuto da 10 miliardi. Beato chi ci crede. Anche perché sull’auto, a Bruxelles, hanno fatto un altro pasticcio. Dovevano varare i motori euro 7 con emissioni da aria di montagna. Gli industriali hanno obbiettato: che senso ha, per noi, fare questa ricerca se fra dieci anni dobbiamo buttare via i motori? La Commissione ci ha ripensato, ha cambiato per l’en nesima volta le carte in tavola e pare che tra quattro giorni dirà come devono essere questi motori perché pure Breto n ammet - te che «dopo il 2035 continuerà a esserci ancora in circolazione il 20% di veicoli endotermici in Europa, molti di più circoleranno nel resto del mondo. E poi, se i calcoli da qui al 2035 fossero sbagliati, dobbiamo pur avere un modo per assicurare la mobilità». Siamo al tutto e contrario di tutto. Esattamente come avviene sugli imballaggi. L’Italia, grazie al Conai, ricicla il 73% del packaging (la quota sale all’83,7% se si aggiunge anche il recupero energetico, ndr.): 10,5 milioni di tonnellate. Ha stornato ai Comuni 727 milioni di euro e altri 420 milioni sono stati investiti nel riciclo. L’Ita - lia è leader assoluto nella produzione di imballaggi. Il nuovo regolamento europeo (200 pagine incomprensibili che non lasciano alcuna autonomia agli Stati) rischia di far saltare oltre 700.000 aziende che danno lavoro a 6,3 milioni di p e r s o n e. Perché la filiera degli imballaggi è lunga: si va da chi taglia il legno fino a chi quel legno recupera, ricicla e rimette in circolo; si va dalla plastica vergine all’acqua minerale. I settori più colpiti saranno l’agroalimentare, la plastica (anche quella biodegradabile), l’alluminio, la carta, il vetro e il legno che già stanno pagando un conto altissimo per la bolletta energetica. Ma a Bruxelles non risulta.
Tra un mese resa dei conti sul greggio Il mondo diviso fa schizzare il prezzo
Il 5 ottobre, l’Opec (Orga - nizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, ndr.) plus ha deciso di tagliare la produzione di 2 milioni di barili al giorno (b/g) a novembre rispetto alla propria base produttiva. In particolare, l’Arabia Saudita ridurrà l’output di 526.000 b/g rispetto alla propria quota di 11.004.000 b/g (10.904.000 b/g l’output effettivo a settemb re ) . La Casa Bianca ha definito la scelta dell’Opec plus come un «atto ostile» nei propri confronti. Più precisamente, il presidente Usa Joe Biden ha dichiarato che «ci saranno alcune conseguenze per quello che hanno fatto con la Russia […]. Non entrerò (nel dettaglio, n d r. ) di quello che ho in mente. Ma ci saranno - ci saranno delle conseguenze». Netta la risposta saudita affidata al ministero degli Esteri, secondo il quale «il governo del regno dell’Arabia Saudita desidera innanzitutto esprimere il suo totale rifiuto per queste affermazioni che non sono basate sui fatti e che mirano a ritrarre la decisione dell’Opec plus al di fuori del suo contesto puramente economico. Questa decisione è stata presa all’unanimità da tutti gli Stati membri del gruppo Opec p lu s » . L’OPEC E LA RUSSIA In realtà, alcuni membri dell’Opec - a partire dall’I raq , il secondo produttore dell’Or - ganizzazione - pare abbiano espresso malumori in merito alla decisione del gruppo non tanto per assecondare le volontà politiche della Casa Bianca alle prese con le difficili elezioni di mid-term di inizio novembre e un alto tasso di inflazione (8,2% a settembre, anno su anno), ma perché desiderosi di incrementare ulteriormente i rispettivi output e rendite minerarie. Nei fatti, la Federazione russa, che ha frattanto accolto a Mosca il sultano degli Emirati Arabi Uniti per discutere di energia ma non solo (lo scorso 11 ottobre), è la principale beneficiaria del taglio, poiché non ridurrà la propria produzione in quanto già al di sotto della propria base estrattiva a causa delle sanzioni. Più precisamente, il taglio reale dell’Opec plus sarebbe di 1-1.1.000.000 b/g proprio perché anche altri produttori, oltre la Russia, non sono stati in grado di rispettare le rispettive quote negli ultimi mesi (su tutti, Nigeria e Angola). Al 7 ottobre, il taglio dell’Opec plus ha determinato il più marcato incremento settimanale di prezzo dal mese di marzo e, nonostante una successiva flessione, il successivo 24 ottobre il barile continuava a essere comunque scambiato al di sopra della chiusura di settembre (+4-5 dollari al barile). A differenza degli Stati Uniti, che sono fornitori netti verso l’estero per l’1% circa dei propri consumi totali di energia, l’Unione europea, il cui tasso di inflazione ha raggiunto il 10,9% a settembre (anno su anno), ha una dipendenza energetica dall’estero pari al 60% dei propri consumi totali di energia e il petrolio è la fonte energetica più utilizzata nel proprio paniere energetico (nel 2021, rappresentava il 36% del totale). G7 E PRICE CAP Secondo il sito statunitense O ilp ric e, la decisione dei tagli presa dall’Opec plus potrebbe «rendere molto rischioso» anche l’accordo del G7 volto a imporre un price cap al prezzo del greggio russo a partire dal prossimo dicembre, al fine di ridurre la rendita mineraria della Russia. Premesso che quest’ultima misura avrebbe un senso solo se anche Cina e India la implementassero, il che appare al momento piuttosto inverosimile, la decisione del G7 sommata a quella dell’Opec plus potrebbero determinare un ulteriore incremento della volatilità del barile dalle conseguenze asimmetriche tra le due sponde dell’Atlantico. Più precisamente, se la Federazione russa reagisse alla scelta del G7 con un ulteriore taglio del proprio output, Ubs stima che il prezzo del barile potrebbe immediatamente crescere sino a 125 dollari al ba r i l e. In attesa che il 5 dicembre scattino le sanzioni Ue sul greggio russo via mare, secondo Blo o m b e rg la Federazione russa ha esportato 2.320.000 b/g in Turchia, Cina e India nelle quattro settimane precedenti il 14 ottobre, record dall’inizio del 2022, mentre le esportazioni totali via mare hanno oltrepassato i 3.000.000 b/g, il massimo da metà agosto, a dimostrazione della veloce sostituzione in corso da parte russa degli storici acquirenti europei con i nuovi clienti asiatici. Il 10 ottobre, durante la conferenza sulla sicurezza energetica dell’Institute of international finance di Washington, Monica Malik, capo economista presso la Abu Dhabi commercial bank, ha dichiarato che gli Stati del Golfo (Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti) non saranno in grado di aumentare la loro produzione per sostituire il petrolio russo in Euro pa . I RAPPORTI DI FORZA Il 25 novembre 2021 scrivemmo che «nel campo dell’energia, i rapporti di forza paiono volgere a sfavore del blocco atlantico e a favore di Federazione russa e Cina». Il 26 febbraio 2022, il voto sulla risoluzione al Consiglio di sicurezza dell’Organiz zazione delle nazioni unite allargato che «deplorava» l’i nva s io n e russa dell’Ucraina, metteva effettivamente in luce la divergenza di valutazioni fra l’area di più antica industrializzazione del pianeta e ampia parte dell’area emergente. Di rilievo il fatto che l’asten - sione avesse riguardato un importante membro dell’Opec, nonché alleato degli Stati Uniti d’America, gli Emirati Arabi Uniti. Al tempo, O ilp ric e scrisse che «questo voto evidenzia che la capacità di Washington di contrastare l’in - fluenza di Cina e Russia in Medio oriente è limitata». Il 2 marzo 2022, il voto all’Assem - blea generale delle Nazioni unite rendeva ancora più evidente tale divergenza in virtù dell’astensione di circa la metà dei membri dell’Opec plus, nonché di Cina e India, rispettivamente primo e terzo importatore di greggio al mondo nel 2021 con circa 10.260.000 b/g e 4.250.000 b/g. Se la rottura dell’Opec plus ci appariva, al tempo, alquanto improbabile, oggi non è nemmeno all’ordine del giorno. In attesa della reazione preannunciata dal presidente degli Stati Uniti, l’indice della posizione finanziaria Usa (net international investment position-Neep), dopo avere toccato il record negativo di 18.000 miliardi di dollari nel quarto trimestre del 2021, è migliorato di ben 2.000 miliardi di dollari nei primi due trimestri del 2022 (-16.000 miliardi di dollari). Un dato su cui l’Unione europea e l’Ita l i a dovrebbero urgentemente rif l ette re.