Vi spiego come faccio (o meglio: facevo) lezione e stando alle valutazioni degli studenti, che sono pubbliche, con un ottimo risultato. Entravo in aula, accendevo computer e proiettore per le slide: leggevo la prima di queste sullo schermo, cominciavo a spiegarla e formulavo qualche domanda per sollecitare l’attenzione degli studenti. Mi avvicinavo a loro col microfono in mano e cercavo di far sì che loro stessi scoprissero passo dopo passo il senso di un pensiero di Aristotele, di Hobbes, di Kant, di Hegel e di altri classici. Il punto essenziale è sempre stato questo: capire il giusto modo di porre le domande, per far sì che le risposte – che io avevo in mente – potessero lentamente venire fuori dagli studenti. Qualche volta venivano fuori risposte inaspettate e intelligenti, a cui neppure io avevo pensato. Il mio impegno era totale, non c’era solo la mia mente, c’era il mio corpo che si agitava se non sentivo una partecipazione adeguata, oppure i miei occhi che brillavano quando uno studente dimostrava di aver colto il punto. Contatti e sguardi reciproci. La lezione non era solo un fatto mentale ma fisico, di corpi che vivevano insieme una esperienza irripetibile: io che mi mettevo a disposizione e loro, gli studenti, che seguivano un pensiero che si faceva carne o una carne che si faceva pensiero. Alla fine grondavo di sudore come se avessi zappato per delle ore. Ma felice di aver preparato il terreno per la semina.
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