Investire sull’identità: la globalizzazione finisce per esaltare le differenze
“La globalizzazione è un processo
irreversibile”. L’affermazione, uno dei tanti mantra in circolo
nell’etere del pensiero unico, è stata esternata e sottoscritta nel
tempo da un numero incalcolabile di personalità della più varia
estrazione: dal “cattivo maestro” (leggi diligente scolaro) Toni Negri
all’economista Giovanni Vigo, passando per Romano Prodi, Bill Clinton e
Fidel Castro che, nel 1998, ebbe a dire: “Gridare abbasso la
globalizzazione equivale a gridare abbasso la legge di gravità”.
L’unanime coro non rende solo ossequio allo status quo, ma partecipa
attivamente alla sua difesa, dipingendo i processi in corso come “stati
naturali” al pari delle Alpi o dei Pirenei: un qualcosa che è lì per
volontà divina e con cui bisogna necessariamente imparare a fare i
conti, piaccia o meno. In questo modo si toglie ossigeno a quella che
si potrebbe definire l’immaginazione divinizzante, cioè la capacità di
dar sostanza a mondi diversi iniziando anzitutto col pensarli possibili.
Invece ogni cosa è etichettata come irreversibile: la globalizzazione,
il libero mercato, l’Alleanza Atlantica, l’euro. Ma sarà poi vero? I
fatti sembrano suggerire il contrario.
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