La riforma
del Senato, se non altro, ha avuto il merito di portare allo scoperto
una serie di questioni di alto profilo, innescando un dibattito come
non se ne sentivano da tempo. Anche se si fa sentire pesantemente
l’anchilosi intellettuale di trenta anni di torpore delle culture
politiche. Il dibattito è interessante, ma confuso e giocato su “quel
che sembri”, per cui Renzi sembra l’innovatore e chi gli si oppone un
unico fronte di conservatori amici della casta. Le cose non stanno così
ed una breve puntualizzazione servirà a dissolvere qualche equivoco.
Il
bicameralismo, storicamente, sorge in Inghilterra, con la rivoluzione
del 1689, dal compromesso fra borghesia emergente –Camera dei Comuni- e
principio di nomina regia –Camera dei Lord-. Poi questa soluzione sarà
adottata dal “compromesso orleanista” delle monarchie parlamentari nel
continente. Con l’avvento delle repubbliche in gran parte di Europa,
nel 1918, la logica avrebbe voluto che il Senato sparisse, non avendo
più il suo referente fondativo, ma le cose non andarono così, perché
l’ala moderata dei nuovi sistemi politici ottenne di conservare il
bicameralismo, diffidando del Parlamento monocamerale nel quale vedeva
l’incarnazione dell’assemblearismo giacobino.
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