Sul domandare metafisico
Asseriva, infatti, Aristotele nel Libro primo della Metafisica
che: « È proprio del filosofo essere pieno di meraviglia: e il
filosofare non ha altro cominciamento che l’essere pieno di meraviglia»
(1). E, come avrà a sostenere nello scritto sulle Parti degli animali: «in tutte le cose della natura c’è qualcosa di thaumastòn» (2), cioè di meraviglioso, ma anche di indecifrabile. Così Giacomo Leopardi, nel suo Canto notturno di un pastore errante dell’Asia,
preso atto della “piccolezza” dell’uomo di fronte all’immensità della
Natura veniva assalito da una congerie di domande esistenziali, che
alla fine lo portavano a stupirsi della sua stessa esistenza e a
chiedersi sgomento: «ed io che sono?». Similmente Blaise Pascal, nei
suoi celebri Pensieri, si chiedeva inquieto: «Non so chi mi
abbia messo al mondo, né che cosa sia il mondo, né che cosa io stesso.
Sono in un’ignoranza spaventosa di tutto. Non so che cosa siano il mio
corpo, i miei sensi, la mia anima e questa stessa parte di me che pensa
quel che dico, che medita sopra di tutto e sopra se stessa, e non
conosce sé meglio del resto» (3).
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