Recentemente mi è capitato di attraversare i gironi grotteschi della sanità campana, un continente perduto e selvaggio dal quale tanti non sono tornati.
Quando si parla di “malasanità”, il senso comune non rappresenta adeguatamente la realtà: le formiche in bocca e le garze nello stomaco sono solo le vette sublimi, il guizzo poetico, si può dire, di un sistema che è nella sua quotidianeità, nella sua ordinarietà, che riesce a dare veramente il peggio di sé. E’ una sanità di classe, i cui dispositivi di esclusione incidono ormai in misura notevole sulla distribuzione generale del reddito: sulle famiglie, in Campania e in tutto il martoriato mezzogiorno, sono stati scaricati i costi sociali, occulti e diretti, della massiccia ritirata del welfare sanitario; e il risultato, in termini di impoverimento assoluto e relativo, è tragicamente evidente. Migliaia di nuclei familiari tracollano o si indebitano o si costringono a dolorosissimi viaggi della speranza, per affrontare eventi che dovrebbero essere normalmente a carico del Servizio Sanitario Nazionale sui territori. La continua evocazione della biopolitica, come categoria omnibus dell’analisi, trova proprio su questo terreno una sua evidente giustificazione: una brutta diagnosi diventa immediatamente lotta per la sopravvivenza fisica ed economica – i tempi della vita biologica e le forme della riproduzione sociale, si rivelano nel loro nudo intreccio. Pochi altri terreni sono più immediatamente politici di questo. Eppure la sinistra di classe, i movimenti, lo hanno spesso snobbato pur essendo chiaro, fin dagli anni 70, che la figura del salario, nella sua nuova dimensione sociale, vedeva le prestazioni del welfare assumere un ruolo via via più centrale in una configurazione moderna dell’idea di reddito.
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