Fino a che punto l’approccio della comunità internazionale verso Israele abbia invertito la sua strada nell’ultimo mezzo secolo, lo si può misurare guardando semplicemente le sorti che ha seguito una sola parola: Sionismo. Nel 1975 all’assemblea generale delle Nazioni Unite, gran parte del mondo si mise contro Stati Uniti ed Europa dichiarando che il sionismo, l’ideologia alla base di Israele, “è una forma di razzismo e di discriminazione razziale”.
Gli occidentali in genere restarono scioccati. Il Sionismo, che gli avevano raccontato fino a quel momento, era un movimento di liberazione che serviva al popolo ebraico per liberarsi, dopo secoli di oppressioni e di massacri subiti. Con la sua creazione, di Israele, si erano semplicemente risarciti i terribili torti subiti e culminati negli orrori dell’Olocausto. Ma il sionismo sembrava molto diverso agli occhi di quei paesi che, in tutto il mondo, avevano vissuto secoli di colonialismo europeo e poi, più recentemente, di imperialismo USA. La lunga storia dei crimini contro gli ebrei che hanno portato alla creazione di Israele ha avuto luogo principalmente in Europa. Eppure sono stati Europa e Stati Uniti che hanno sponsorizzato e hanno spinto gli ebrei a insediarsi nella patria di un altro popolo, in una terra lontana dalle loro stesse rive. Per tutto il sud del mondo, le grandi epurazioni di palestinesi contro i nativi fatte dagli ebrei europei nel 1948 e nel 1967 hanno ricordato troppo quelle fatte dagli europei bianchi che contro le popolazioni indigene negli Stati Uniti, in Canada, in Australia, in Nuova Zelanda e in Sud Africa.
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