Di nuovo tanto rumore per nulla nell’ennesima giornata decisiva in Venezuela? È stato un fallimento o una prova generale? Intorno all’autoproclamato Juan Guaidó è come se si svolgessero da mesi dei ripetuti “stress test”, dove quello che non si vede è ben maggiore di quello che è visibile in superficie. Se così non fosse, a cento giorni di distanza dalla giocata, vorrebbe dire che davvero l’opposizione non abbia la forza né politica né militare per rovesciare il governo di Nicolás Maduro.
Quello di martedì 30 aprile è stato uno stress test sull’esercito per vedere, come già a Cúcuta a fine febbraio, se c’è un punto d’inflessione oltre il quale un numero decisivo di esponenti degli stati maggiori possano rivoltarsi, giocando con una guerra civile dietro l’angolo. Ma è stato stress test anche per la società civile. Come per i blackout di marzo, sono serviti a misurare chi scende in piazza, chi tra i leader dell’opposizione è coerente e accetta l’attuale leadership, da ieri tornata ufficialmente a Leopoldo López, al quale Guaidó scaldava il posto. Il golpetto di ieri è piaciuto alla parte destra dell’opposizione, che da sempre predica (e spesso pratica) che l’unica soluzione alla crisi sia la violenza. Anche il déjà vu degli scontri di piazza da parte di bande di violenti organizzati, come già nel 2014 e 2017 (da non confondere con la legittima opposizione civile), sono stati limitati e si sono andati esaurendo al calar della notte. Ancora una volta nel 2019 – per fortuna – la società civile, chavista e anti-chavista, polarizzata quanto si vuole, si è tenuta lontana dalla violenza.
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