STUPIDA RAZZA

domenica 29 maggio 2022

Verrà il giorno della vendetta degli alberi

 

Ogni tanto gli alberi vorrebbero vendicarsi del cemento. Ogni tanto gli alberi, le erbe, i fiori, vorrebbero proprio vendicarsi della prepotente indifferenza dell’asfalto. Di certo, ogni tanto gli alberi, le erbe, i fiori, i piccioni, gli scoiattoli, e i cinghiali vorrebbero proprio vendicarsi dell’uomo che ha portato via loro i boschi, che ha prosciugato fonti ed aree paludose, che ha modificato il percorso dei fiumi, spianato colline, sradicato campi di fiori, innalzato muri, sostituito le foreste antiche con nuove foreste di edifici brutti e squadrati. Certo, poi ha sentito il bisogno di ritrovare il canto di Dio in qualche piccolo spazio intermedio, e quindi ha iniziato ad allevare animali al quarto e al dodicesimo piano, a strappare piante dalla terra per contornarsi di foglie e di verde, si è ingegnato a inaugurare orti botanici, giardini privati, ha tracciato filari di alberi sempre più alti lungo i viali dove inizialmente si procedeva su cavallo e alla velocità dei carri, per poi sostituire quel ticchettio di zoccoli al crescente sferragliare di motori, clacson e tram su rotaia. I palazzi sono cresciuti sui fianchi e in altezza, i viali in ampiezza, e le città hanno divorato altra terra, hanno prosciugato altre fonti e altre aree paludose, hanno deviato altri fiumi, spianato ulteriori colline, e così via. Ma ogni tanto gli alberi vorrebbero vendicarsi del cemento. Ogni tanto gli alberi, le erbe, i fiori, vorrebbero proprio vendicarsi della prepotente indifferenza dell’asfalto. Di certo, ogni tanto, gli alberi, le erbe, i fiori, i piccioni, gli scoiattoli, e i cinghiali vorrebbero proprio vendicarsi dell’uomo e della sua vanitosa intraprendenza. E così, lentamente, come il sole ogni mattino rispunta dal solito angolo di fuga, le radici rodono quel piccolo niente che tiene al sicuro i quartieri, interi isolati vengono costantemente sorvegliati dalla vigilanza sotterranea dei faggi e delle rose, dei bagolari e dei ficus australiani, dei platani e dei pini, dei cipressi e degli olmi. Una foresta di occhi termita, formicola, coleottera intorno ai sogni degli umani, ai quali pare che la natura da città sia lì soprattutto per il proprio piacere, per ripararsi dal calore eccessivo delle estati più torride, o dai venti furiosi che certi temporali scaricano sui tetti e sulle loro teste nude. Ma questa stessa natura rigenerante, protettiva, amabile, profumata e coloratissima, che i bambini cercano, che le madri respirano a piene polmoni, che i nonni e i padri, gli amici e i colleghi, i cugini, i calciatori, i corridori, i ciclisti, i venditori di panini lungo i viali d’ingresso ai parchi, i tassisti e i docenti di letteratura inglese, le massaie e le badanti ucraine, i venditori di accendini ai semafori, e ancora la folla che si colora lungo le vie del centro nelle ore di punta, ama osservare ma all’occorrenza maledire, criticare, depistare, è all’oscura ricerca di un colossale naufragio dell’epoca moderna! La natura che si infittisce nelle nostre oasi vorrebbe soltanto portarci via tutto quello che abbiamo, vorrebbe strangolarci la notte nel sonno, vorrebbe occupare le strade e le piazze, vorrebbe capovolgere le nostre chiese, vorrebbe, nel suo silenzio assassino, dismettere la nostra storia e ricominciare a sarchiare, a edificare, a infittire, a disciogliere e ascoltare il simposiare della pioggia sul popolo delle foglie, sui tronchi scolpiti, sulle rocce abbandonate. E invece deve sorreggere luna park e commedie circensi a nostro esclusivo uso e consumo. Ora che stiamo imparando a progettare boschi verticali, con fitolacche e betulle al venticinquesimo piano, pareti ricoperte di epifite che credono di risalire foreste tropicali a Milano, a Parigi, a Nuova York, ma sono soltanto ingredienti viventi ingabbiati in una scatola per topi vegetali, ora che pretendiamo cittàforesta a nostra nuova misura e aspirazione, così come ipotizzate da professori, da architetti, da interior-design, da filosofi del saper vivere il nostro che nonostante qualche guerra rimane un gran bel tempo nel quale affondare, il Dio delle cose remote e selvatiche si dovrà conformare, si dovrà riconfigurare per non lasciarci soli nelle nostre illusioni, dopo il naufragio catastrofico delle grandi ideologie socio-economiche dei secoli appena ritagliati. Certo, qualcuno la bandiera a stelle e strisce la porta ancora in una spilletta sulla giacca di jeans, e qualcun altro, dal gusto vintage, ama sfoggiare falci e martelli d’antan, proclamandosi neocomunista romantico, ma è oramai confessata la fede vasta nella nuova chiesa della natura universale, un francescanesimo quasi buddista, o un buddismo quasi francescano, chissà come la pensano i teologi, i liberi pensatori da talk show, i poeti che hanno il nuovo libercolo da presentare al pubblico pagante ogni sei mesi. A tutto pensiamo tranne che alla eventuale, ipotetica volontà di questi nostri fratelli e sorelle dalle lunghe radici, dalle foglie turionali e capricciose, dalle cortecce luminescenti: saranno loro contenti di farci involontariamente compagnia in queste nostre esistenze troppo rapide o troppo lente, eccessivamente multitasking o al contrario esasperatamente contemplative? Chi lo chiede ai filari di platani che conducono alla grande banca, al grande arco napoleonico, al grande castello, al grande parco, al grande centro commerciale che cosa ne pensano di questa loro esistenza sequestrata? Chi lo chiede agli aceri giapponesi se sono tanto contenti di sventagliare i loro semi ad elica a decine di migliaia di chilometri dalla terra d’origine? Chi lo chiede ai milioni di bonsai che noi torturiamo con troppa acqua, o troppa poca acqua, nei nostri microappartamenti così graziosi, così minimali e moderni, così comodi e però anche scomodi? A quando un sindacato per i diritti degli alberi e delle piante, dei muschi e dei funghi, nelle nostre variopinte città? Faranno mai causa all’umanità per tutte le forme di penitenza a cui, da secoli, li obblighiamo a resistere? O continueremo a credere che lo facciamo per loro, per il bene del pianeta?

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