STUPIDA RAZZA

giovedì 19 maggio 2022

Si ripete lo scontro tra Usa e Russia Ma stavolta l’obiettivo si chiama Cina

 

Ottobre 1962. Un brivido di paura percorse il mondo. Una flotta sovietica stava facendo rotta verso la Cuba di Fidel Cas tro, a bordo trasportava missili Mrbm in grado di trasportare testate nucleari. Tra Usa e Urss vigeva, in una logica di diffidenza reciproca, un sistema di deterrenza basato sul fantasma apocalittico del conflitto nucleare. L’equ il ib rio, pur precario, resse, le nostre vite lo testimoniano. La vicenda come noto si concluse con l’ordine di Nikita S. Khrus hchev di invertire la rotta. John F. Kennedy, poco prima, aveva lanciato un appello agli americani: «Non rischieremo prematuramente e senza necessità una guerra nucleare mondiale dopo di cui anche i frutti della vittoria sarebbero cenere sparsa sui nostri cadaveri; ma nemmeno indietreggeremo di fronte a un tale rischio». La logica fa capolino in quel «senza necessità» che lumeggia ancora l’attu a l i tà . RAGIONI E CONSEGUENZE Per gli storici non è ancora chiara la motivazione prevalente dell’accaduto. Forse fu un tentativo da parte sovietica di recupero del gap missilistico rispetto alle dotazioni Usa (almeno dieci volte superiori) che contraddiceva i successi ottenuti nello spazio (l’anno prima Yuri Gagarin sulla Vostok 1 aveva volato nello spazio cosmico). Anche se Cuba era costantemente minacciata dalle avances destabilizzanti delle amministrazioni americane, per il Pentagono era una specie di fissazione (operazione Mongoose), sembra sproporzionata la scelta di armare l’isola con armi così estreme. O, forse, proprio la risoluzione finale degli accordi era ciò che K h r u s h ch ev voleva dopo la grande esibizione delle performances tecnologiche e tattiche sovietiche. Una riduzione degli esperimenti e delle testate nucleari, troppo onerose per una potenza in ascesa; una relazione paritetica, il «filo rosso», tra il Cremlino e la Casa Bianca; lo smantellamento dei missili Jupiter in Italia e Turchia; infine, una specie di ammissione di colpa da parte americana nell’impegno di non invadere l’isola più spavalda della terra. C’è, però, un precedente molto meno noto. Ke n n e dy, in piena crisi, convocò, nell’am - bito di consultazioni multilaterali, il cancelliere tedesco Konrad Adenauer per condividere lo stato della crisi. La Germania Occidentale era sul filo della Cortina di ferro e avrebbe subìto la prima, devastante, ondata dell’attacco nucleare in caso di conflitto. Il cancelliere, dopo il primo incontro in cui si palesava la possibilità di una escalation militare, si rifiutò di proseguire il colloquio e rientrò in patria. A pochi anni dalla sconfitta dell’Asse e in un Europa che si stava ancora leccando le ferite, nessuno avrebbe accettato di sacrificarsi per la convenienza strategica degli Stati Uniti, il che, credo, servì a depotenziare il fervore belluino del Pentagono. A fianco della Germania Ovest c’era tutta l’Europa continentale, in particolare il IV governo di Amintore Fanfani che investì tutta la prerogativa diplomatica disponibile per la rimozione dei missili Icbm dislocati in Puglia e Basilicata. Oggi la scuola realista sta affidando ancora a un premier tedesco, Olaf Scholz, di fatto già riluttante a potenziare il supporto militare all’Ucraina, le poche speranze di scompigliare la marcia entusiasta dei paesi della Ue verso un’alta probabilità di uno scontro terminal e. IL RAFFRONTO CON OGGI Quel pericolo non è affatto più improbabile rispetto alla crisi del 1962: allora il vis à vis vedeva due paesi vittoriosi con un surplus di potenzialità distruttiva e simbolica. L’attuali - tà contempla una nuova potenza in ascesa entrata prepotentemente in partita, la Cina, paradossalmente anche grazie alla professione di strategia unilaterale statunitense nella presunzione di allineare il mondo e allevare il futuro a proprio piacimento. La potenza affermata è ora costretta a rilanciare tutto il suo egemonismo nel bel mezzo di una estenuante crisi valoriale ed economica, con dentro la bomba ad orologeria di un deficit commerciale micidiale. Mentre la Russia sta scivolando fuori orbita, la sua potestà e credibilità sono ogni giorno più compromesse. Proprio qui sta il punto, all’elegante simmetria della trappola di Tuc id id e che fatalizza lo scontro tra due potenze, Usa e Cina, la Russia rappresenta per gli Stati Uniti, nella visione infausta di una alleanza tra Cina e Russia, l’anel - lo debole da rendere inerte il prima possibile, depotenziando sul nascere quella eventualità. La guerra scatenata dalla Russia è solo l’acme di un contenzioso tra la Casa Bianca e il Cremlino più o meno sotterraneo e iniziato dagli anni Novanta. La reattività russa, messa alle strette, rischia di essere ancora più pericolosa di quella della potente Unione Sovietica del 1962. Vi è, al di là del regime assolutistico di Vladimir Puti n , la tenuta spirituale e simbolica del popolo russo, che fa rendere temibile una resistenza ad libitum alle sofferenze, impensabile per l’O c c id e nte. Della stessa natura è fatta la resistenza della popolazione ucraina, oggi sottoposta a martirio nell’epica opposizione all’invasione che ha sorpreso le stesse previsioni dell’inte ll igence russa e di quella tedesca. Le sanzioni, pur deprimendo la vita e le consuetudini quotidiane, avranno bisogno di troppo tempo per piegare l’hu - mus di quelle genti, le stesse che ritroviamo nel Tol s to j di «Guerra e pace» o nei lunghi supplizi dei «Racconti di Kolyma» di Sa l a m ov. La storia antiliberale della Russia è il suo humus sociale, fatto di silenzio e remissività, di fede e incantamento, come lo furono nella profezia redentiva della dittatura del proletariato, nonostante quell’incanto smentisse costantemente ogni promessa di libertà per il proprio p o p o l o. IL RUOLO DELL’E UROPA Anche dopo l’evap o ra z io n e dell’Urss, la Madre Russia ha collezionato troppi errori strategici (non ammissibili nemmeno se indotti dalla «manina» degli apparati più bellicisti della controparte storica) a cominciare dalla pochezza creativa, dall’incapacità di imporsi quale soggetto imprescindibile del consolidamento della pace globale attraverso alleanze e prassi testimoniali di influenza. Furono disattesi dialettica e contraddittorio con l’economia di mercato, ogni ipotesi sperimentale di democrazia e del suo fine epistemologico più profondo: l’emanci - pazione dei più. Non l’insana uguaglianza, l’ipocrisia ideologica del medesimo, ma il libero dispiegamento della differenza ontologica degli esseri, ossia della vera ricchezza dell’umano celata nell’i nt i m a possibilità di autodeterminazione e nel mistero di esistere. E l’Europa? È in stallo economico e culturale, un luogo dell’attesa, un parco delle rimembranze senili. Priva di disegno prospettico unitario e di spirito tensivo, a differenza della povera Europa del 1962, vive ma sopravvive a se stessa abdicando all’idealità insieme alla sua determinazione aggressiva che pure la fecero grande. Appiattita su arrocchi interni demodè mentre copia alla lettera l’etica censoria della Critical race theory, della cancel culture e del verbo militante di Washington. La gente sembra in attesa di una soluzione salvifica. La guerra ci porta solo la soluzione recessiva, una nuova edizione della stagflazione, recessione produttiva più inflazione, omettendo la possibilità di una escalation geografica del conflitto. Intanto, mentre si fraseggia apertis verbis di razionamenti energetici e alimentari, dal contingentamento delle scorte di materie prime, sono partiti i rincari di tutti i beni, comprese le medicine salva vita. Prepariamoci a una simmetrica riduzione dell’at - tesa di vita, selettiva come sempre. L’inflazione in aprile è del 6,2%, in piena ascesa. Il Pil promesso al 4,7%, nel primo trimestre precipita a meno 0,2%. L’oneroso contributo alla militanza pro Kiev non può bastare. Ancor più se i costi degli embarghi e del potenziamento militare dell’Ucra in a per il suo vantaggio tattico sono finalizzati a intensificare il conflitto per logorare la Russia. Fino a quando? UN ALGORITMO IN POLITICA La logica e la forza dell’istanza morale dovrebbero padroneggiare i due tropismi della paura, da un lato quello che ci paralizza, dall’altro ciò che accompagna l’avvedutez - za, l’attenzione verso ciò che ci potrebbe danneggiare e la cura per ciò che esiste a cominciare dal sé, l’amor proprio. Sto appellandomi a una sana paura, alla precauzione. Il sentimento che può contraddire l’assolutismo delle scelte unilaterali, a partire dall’intensi - ficazione della militarizzazione dello scontro, delle parole sempre più brutali e sguaiate nella demonizzazione dell’av - versario. Non c’è solo insensatezza e avventatezza al comando del mondo, è in funzione l’algoritmo ontologico che acceca il senso del limite dinnanzi alla presunzione di essere nel giusto come in tutte gli universalismi militanti. Troppe volte finiti nell’ossimoro delle guerre umanitarie, le «guerre g i u s te » . L’algoritmo politico ha sostituito la dialettica democratica del contraddittorio e della tolleranza, lo vediamo in Italia dove il parlamento è sospeso ad interim, gelato da un nuovo «stato di eccezione» che oggi contempla solo la scelta eterodiretta dell’escalation bellica. Tutto ciò non crea solo dipendenza e consuetudine nelle menti, ma l’automatismo si infila anche nelle prassi collettive e soprattutto in quelle delle stanze dei bottoni. È la matrice dell’algoritmo che impone sequenza, procedura e finalità, il suo perfettismo eccede la nostra imperfezione e i vaghi sentimenti, ispira l’o r i z zo nte transumano. La certezza di un nuovo determinismo attraversa il pensiero, una volta stabilito l’obbiettivo esso si tramuta in verità. Legge e desiderio si identificano. Tutto diviene coazione a ripetere, automatismo paranoico dell’e s c a l at io n estraneo alle conseguenze. Pare di sentire le parole del fisico Julius Robert Oppenheimer. «Quando vedi che qualcosa è tecnicamente attraente, vai avanti e la fai e ragioni circa il da farsi solo dopo che hai avuto il tuo successo tecnico. Questo è stato il nostro approccio con la bomba atomica». 



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