STUPIDA RAZZA

lunedì 20 marzo 2023

L’Iraq 20 anni dopo, i disastri di una guerra che andava evitata

 

E ra iniziata sotto i migliori auspici, la seconda guerra del Golfo. Una grande operazione militare che aveva due obiettivi: distruggere le presunte installazioni irachene per sviluppare armi di distruzione di massa. E detronizzare il dittatore Saddam Hussein, reo di intrattenere presunte relazioni pericolose con la rete terroristica di alQaeda. Le armi chimiche non furono mai trovate. Neppure i laboratori per produrle. E non fu mai provato il legame tra il network di Bin Laden e il dittatore iracheno, certamente spietato con il suo popolo, ma anche, proprio in virtù della sua appartenenza al movimento secolare Baath, nemico dell’estremismo islamico. Le immagini satellitari dei laboratori mobili di armi biologiche, ovvero la “pistola fumante” esibita il 2 febbraio del 2003 dal Segretario di Stato Usa Colin Powell davanti al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, si rivelarono presto un pretesto creato ad hoc per legittimare un’invasione studiata a tavolino da oltre un anno. Per quanto orfana del sostegno dell’Onu, di Francia e Germania, la «coalizione dei volenterosi», come la definì il presidente Usa George W. Bush, raccolse l’adesione di 16 Paesi. L’invasione scattò alle 5.30 del mattino del 20 marzo 2003, quando 40 missili cruise Tomahawk e decine di bombe si abbatterono su Baghdad. Davanti all’imponente macchina bellica a guida americana - 260mila uomini e 50mila mercenari - le forze armate irachene opposero una resistenza minima. La capitale irachena cadde dopo solo tre settimane. Il 15 aprile fu la volta di Tikrit, la città natale di quel dittatore che, nel volgere di 10 anni, era passato dal ruolo di solido alleato a nemico della Casa Bianca. Il 1° maggio, sul ponte della portaerei Lincoln, Bush dichiarò: «Missione compiuta». Il 13 dicembre Saddam veniva catturato (e condannato a morte tre anni dopo). Era davvero la fine della guerra? Tutt’altro. Era l’inizio di un conflitto strisciante devastante, tanto per il popolo iracheno (130mila vittime), quanto per i marines (4.400 morti) e per le casse degli Stati Uniti (fino a 3mila miliardi di dollari di costi diretti e indiretti). Il primo errore compiuto dall’Amministrazione Bush fu anche il più grave: mettere fuori legge il partito Baath, dunque i quadri dell’Amministrazione irachena, e sciogliere le forze armate, incluso l’esercito, i cui ufficiali erano quasi esclusivamente sunniti, alcuni molto capaci. Non pochi si unirono alla feroce insurrezione armata contro gli «invasori americani» che prese il via alla fine del 2003. E che poco dopo precipitò il Paese in una guerra civile inter-confessionale, con carneficine tra sunniti e sciiti. L’insurrezione contro gli Usa perse forza nel 2008. Alla fine del 2011, dopo 8 anni di sforzi per mantenere l’ordine, dopo migliaia di imboscate e centinaia di attacchi kamikaze, la coalizione americana completò il ritiro dall’Iraq. Le “consegne” passarono a un Governo a maggioranza sciita assetato di vendetta nei confronti della minoranza sunnita. Il il 29 giugno 2014, Abu Bakr alBaghdadi annunciò la rinascita del Califfato. Le milizie dell’Isis avevano già conquistato grandi città in Siria e Iraq. La loro avanzata fu inarrestabile. Nei successivi tre mesi arrivarono a controllare un territorio tra la Siria e l’Iraq esteso come la Gran Bretagna, dove vivevano otto milioni di persone. Un regno del terrore. Con la caduta di Raqqa (2017) e di Mosul (2018) lo Stato Islamico si ritrovò senza uno Stato. L’ex regno di Saddam è oggi un gigante petrolifero dai piedi d’argilla. Meno vulnerabile nei confronti del terrorismo dell’Isis, ma in balia di feroci milizie filo-iraniane che si fanno giustizia da sè. Venti anni dopo quel 20 marzo del 2003, l’Iraq produce 4,5 milioni di barili al giorno (mbg). Un volume che lo rende il sesto produttore mondiale, ma lontano dagli obiettivi che le autorità di Baghdad si erano prefissate: 6 mbg entro il 2010 e 8 mbg entro il 2020. L’Iraq non è uno Stato fallito, ma è cronicamente instabile. Non si è mai liberato dal morbo della petrodipendenza. Non è guarito da quell’endemica corruzione che da decenni divora le sue risorse. Non è mai riuscito ad offrire un tenore di vita accettabile alla gran parte dei suoi abitanti che, esasperati da una classe politica incapace e indifferente, dal 2019 si sono riversati in piazza. Una tardiva “primavera irachena” presto affogata nel sangue grazie all’aiuto di Teheran. Già dal 1980, la storia dell’Iraq è una lunga sequenza di guerre aperte o striscianti intervallate solo da pochi anni di relativa pace. Con l’Iran deciso a non rinunciare a quello che considera il suo giardino di casa. Se la fuga dall'Afghanistan è stata forse il più disastroso ritiro nella storia degli Stati Uniti, la gestione della guerra in Iraq è stata probabilmente la più fallimentare. I costi sono stati esorbitanti. Un recente studio, diffuso dalla Brown University, calcola costi diretti dal 2003 al 2010 per 1,1 trilioni di dollari. A ciò vanno aggiunti i costi indiretti, stimati da altri enti fino a due trilioni di dollari. Vent’anni dopo il 20 marzo 2003, le cose non sono affatto andate come gli americani si aspettavano.

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