«V ivere non è altro che avere tempo» ci ricorda Pascal Chabot, filosofo che insegna all’Institut des Hautes Études des Communications Sociales di Bruxelles. Il suo saggio Avere tempo diventa il manifesto per una nuova cronosofia, una sfida a cogliere l’essenza del bene più prezioso, spesso sciupato perché non compreso, sovente considerato scarso perché i ritmi della vita lo hanno reso confuso e indistinguibile, a tratti contraddittorio. Un libro che intercetta un’istanza contemporanea molto avvertita: il ritorno alla qualità del tempo, a un’ecologia degli orari, diventati forzosa unità di misura esistenziale. È l’esigenza alla base del fenomeno del big quit, vale a dire delle dimissioni di massa che interessa una parte delle nuove generazioni, quella di chi se lo può permettere. Sta crescendo il numero di quanti lasciano il lavoro se lo considerano non più compatibile con le esigenze del tempo di vita considerato una priorità sempre più irrinunciabile. È un modo con cui le nuove generazioni fanno la loro rivoluzione e “uccidono i padri” stakanovisti e unidimensionali. Chabot contribuisce a sistematizzare il tema della percezione del tempo che scorre e la sua natura intrinsecamente conflittuale, spesso paradosso. Abbiamo almeno quattro tipi di tempo: il Fato come sintesi di un imperscrutabile vincolo biologico; il Progresso con la sua tensione vitale verso il futuro; l’Ipertempo nella sua accezione ossessiva di un presente immanente e tecnico che è ovunque e da nessuna parte, centrale soprattutto nella cultura occidentale derivata da certo capitalismo finanziario che vive un presente orientato continuamente al futuro e del futuro stesso fa una commodity; la Scadenza che l’autore associa alla deriva distruttiva verso l’ambiente, il gigantesco collasso verso la fine del mondo, il no future raccontato dai punk inglesi. Naturalmente questa tassonomia del tempo racconta spinte conflittuali e antagoniste tra loro, da cui l’ansia presente di una umanità sempre affamata di tempo, perennemente ritenuto insufficiente e scarso. L’uomo contemporaneo è alla continua ricerca di un equilibrio che debba compendiare l’inafferrabilità del tempo della natura, con la sua inesorabile lentezza (quello del Fato che, ad esempio, dà il ritmo alla crescita dei capelli, secondo un copione che comprendiamo antico e primordiale) con la pretesa del tempo del Progresso che punta a rendere l’uomo padrone della natura, nel segno di «una moderna civiltà di persone impazienti». Nel mezzo, tra le due idee cronologiche, c’è la scoperta dell’orologio che rivoluziona il campo della conoscenza e quello del lavoro. «Una cosa è certa - scrive Chabot -: il tempo non è mai stato così presente in quantità, ma la sua qualità non è mai stata così problematica». È anche per questo che si applica una sorta di revisionismo civile all’idea del «tempo è denaro» di Benjamin Franklin fino ad arrivare al suo ribaltamento laddove il vero denaro sia proprio il tempo. Tanto più dopo che il mondo ha compreso in modo tanto traumatico quanto duraturo la sua intrinseca fragilità durante la pandemia. Un evento epocale che ha indotto i cittadini di cinque continenti ad una diversa percezione della storia stessa. Il Covid è diventato il catalizzatore della volontà di ripensare le priorità, le sequenze, le concatenazioni proprie del metronomo della nostra vita quotidiana. E ha sconvolto gli equilibri di una quotidianità che sembrava immutabile. E di cui il lavoro è da sempre parte importante. Torna preponderante il motto che André Breton fece incidere sulla sua pietra tombale nel cimitero di Batignolles a suggello della vita da poeta e da surrealista: «Cerco l’oro del tempo». La preoccupazione numero uno nel mondo del lavoro resta quella di «quanto denaro consente di comprare il tempo degli individui, in base alla loro formazione e ai loro contributi». Chabot avverte che «di fronte a questo, è difficile credere che il denaro ricevuto in cambio varrà mai lo sforzo. Il tempo è concreto, esistenziale: è qualità aggiunta a una quantità. Il denaro è astratto, circostanziale. È certamente necessario, indispensabile, persino essenziale, e per molti aspetti desiderabile, ma rimarrà sempre fuori dal cuore dell’esistenza perché è solo quantitativo». La cronosofia proposta nel volume non potrebbe non avere un contraltare rivoluzionario e spiazzante. È il «contrattempo» che diventa il vero dominus in una esistenza agganciata alla disciplina degli orari, al mito della puntualità come cortesia sociale, a una fretta che non significhi sciatteria, ma tempo sincopato. Il contrattempo toglie a ciascuno il dominio della giornata, il potere di suddividerla in ritmo riconoscibile e condiviso. Solo allora ci rendiamo conto - è sempre la tesi dell’autore - di poter ritrovare l’energia che pensavamo perduta e la libertà di scelta, sepolta sotto una quotidianità eterodiretta. In effetti il contrattempo ci costringe alla «pazienza dell’imprevisto» e alla necessità di trovare risposte non precostituite. Ci costringe a un esercizio innanzitutto di pazienza che è qualcosa di antico e di arcaico, una sfida di oggi come di mille anni fa. È tutta qui la provocazione di Chabot verso l’epoca della nevrosi ipercinetica. Anche perché «la pazienza è il secondo coraggio dell’uomo». Ne ha avuta molta chi ha scritto questo libro, ne dovrà avere molta anche chi lo leggerà.
NEL 2012 NON CI SARA' LA FINE DEL MONDO IN SENSO APOCALITTICO,MA UN CAMBIAMENTO A LIVELLO POLITICO ED ECONOMICO/FINANZIARIO. SPERIAMO CHE QUESTA CRISI SISTEMICA ,CI FACCIA FINALMENTE APRIRE GLI OCCHI SUL "PROGRESSO MATERIALE:BEN-AVERE""ECONOMIA DI MERCATO" FIN QUI RAGGIUNTO E SPERARE IN UN ALTRETTANTO "PROGRESSO SPIRITUALE:BEN-ESSERE"ECONOMIA DEL DONO,IN MODO DA EQUILIBRARE IL TUTTO PER COMPLETARE L'ESSERE UMANO:"FELICITA' NELLA SUA COMPLETEZZA".
STUPIDA RAZZA
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