STUPIDA RAZZA

martedì 26 ottobre 2021

«Alle aziende il green pass non serve»

 

«Sì, ma senza ideologie», risponde con il sorriso, ma il tono fermo, alla richiesta di fare un bilancio dei primi 10 giorni di green pass in azienda. Lo raggiungiamo al telefono al mattino presto - «facciamo alle 8?» - mentre sta andando al lavoro nel suo ufficio di Verona. Accento «imbastardito», tra origini lombarde e una vita nel Nordest, Renato Della Bella è vicepresidente nazionale di Confimi, più di 45.000 aziende associate. Da imprenditore è a capo della Gruppo Centro Nord, che oltre alla sede scaligera ne ha anche una a Novara e un’altra a Pistoia, con una novantina di dipendenti. È nel campo dell’edilizia. Dicono sia in ripresa. «La ripresa è stata agganciata, sì, ma noi siamo specializzati nel settore di solai alveolari destinati a grandi impalcati, e attendiamo con ansia l’avvio dei cantieri pubblici legati al Pnrr, perché ancora non sono partiti. L’incremento delle materie prime e dell’energia aggiunge la preoccupazione di un freno agli investimenti». Momento cruciale, insomma. «Non possiamo fermarci, mai». Riavvolgiamo il nastro. In estate il governo annuncia il green pass per lavorare. Il suo primo pensiero? «Che sarebbe potuta essere una misura utile. Da subito abbiamo però chiesto chiarezza: che almeno fosse una norma che aumentasse la sicurezza senza creare ulteriori problemi. Certo non ne abbiamo bi s og n o » . Paura della burocrazia? «Anche, sì, e poi è subito nata la preoccupazione dell’impatto sui dipendenti. Non siamo il settore pubblico né la grande industria. È impensabile, per noi, non poter disporre di una percentuale che va dal 5 al 30% del personale». Che però se è senza certificato può essere sostituito. «E con chi? Siamo alla costante ricerca di manodopera specializzata, non si trova. Ma lo sa che i nostri collaboratori se perdono il posto ne trovano subito uno nuovo? La domanda è nettamente superiore all’o f fe rta » . Avevate ragione a temere? «In questi mesi ci siamo innanzitutto accorti che il green pass non è uno strumento di utilità sanitaria: non sono i medici che lo richiedono, è utilizzato solo a fini politici per incentivare il vaccino». Su questo funziona, si dice. «Ottimo. Peccato che, dopo due anni passati a gestire - e lo abbiamo fatto bene - la sicurezza nei nostri stabilimenti, ci troviamo a dover fare invece gli sceriffi per conto del governo per portare avanti un obiettivo surrettizio». Per la sicurezza di tutti? «Stanno però accadendo alcune cose molto spiacevoli». Ad esempio? «I lavoratori che hanno scelto di avere il certificato con i tamponi stanno impazzendo perché non sono disponibili. Da noi, sono il 10% del totale. Stimo che nel Paese ci  siano 2 milioni di persone che non riescono a trovare posto in farmacia. Due le opzioni: lavorano senza controlli, o non lavorano affatto». I tamponi li deve pagare quindi chi fa impresa? «Accade di frequente. In un’azienda in provincia di Verona che ha il 30% di personale non vaccinato, non potevano far altro. Io ho cercato di trovare una soluzione diversa. Tanto tempo, tante scartoffie, ma ci sono arrivato». A cosa ha pensato? «Mettendomi d’accordo con altri imprenditori del territorio ho organizzato un servizio di somministrazione di tamponi sul lavoro. I test costeranno meno - 13 euro - grazie a un’intesa con la compagnia che offre il servizio». Perché non offrirli gratis? «Due le ragioni. Una economica, una più ideale. Primo: non è che non ci abbia pensato, ma non posso pagarli, perché non so come dare un benefit in busta paga da circa 200 euro netti al dipendente non vaccinato. In assenza di norme chiare, rischio di aggiungere una voce che verrà contestata dall’Inps, magari come evasione di contributi. E poi: come mi comporto con gli altri che non ne hanno necessità?». Seconda ragione? «I dipendenti non me lo hanno Per molti siamo all’ava n gua rdia. «Se gli altri Paesi non ci seguono è invece perché non comprendono cosa stiamo facendo. Qui si è creato un clima aspro, le aziende non sono certo avulse dal contesto sociale. Basterebbe forse un po’ di buon senso». M a n ca? «Spero che Draghi voglia rendere concreto il suo “g ra z ie” agli italiani permettendo alle piccole e medie imprese che innervano il Paese di lavorare. Decidendo una volta per tutte come l’esecutivo intenda gestire questa norma nel medio, e pure breve, periodo». Serve meno severità? «No, anzi: un Paese serio fa rispettare le sue leggi con rigore. Le strumentalizzazioni, però, non servono. Se nero su bianco è previsto che si possa avere il lasciapassare o con la vaccinazione o con il tampone, devono esserci le condizioni per entrambe le opzioni». Questione di rispetto per chi fa scelte diverse? «Il rispetto è fondamentale, ma il punto non è nemmeno questo. Ribadisco: la legge c’è. Altrimenti si faccia l’obbligo vaccinale». Nella pratica che cosa intende per buon senso? «Se c’è bisogno di manutenzione urgente in uno stabilimento, le macchine sono ferme, e arriva all’alba per aggiustarle un uomo che dice di aver dimenticato il pass a casa, che faccio? Non ci penso un minuto: lo faccio entrare, perché nel frattempo ci sono 30 persone che non possono lavorare. Così fan tutti, e sottolineo che non sto sponsorizzando una gestione “all’italia - n a”della cosa, anzi: chiediamo solo di poter lavorare con serenità». Non si riesce più? «Si stanno creando divisioni nei gruppi di lavoro, tra le persone, tra i colleghi. In questi due anni abbiamo agito fianco a fianco, c’era il presupposto essenziale: non è il datore di lavoro a imporre regole, siamo tutti sulla stessa barca a combattere contro un nemico invisibile. Ha funzionato, nella mia azienda come in quasi tutte le pmi, mai un contagio interno». Ora il sentimento è diverso? «La coesione si è incrinata, ed è una cosa grave. Nei reparti manca la solidarietà gli uni per gli altri. Questo si traduce in problemi nella gestione, ma pure nello svolgimento del lavoro. E sa cos’altro accade? Proprio i vaccinati mi chiedono di chiesto. E questo è secondo me perché fanno un ragionamento di principio: le convinzioni sono libere, le battaglie vanno, anche, pagate. La libertà ha un prezzo, altrimenti si è gregge». Per un operaio 150-200 euro al mese di tamponi non son pochi. «E sono soldi sottratti ai consumi. Moltiplichi per 3 milioni di lavoratori: 600 milioni di euro al mese si riversano sulle farmacie. Questo, al governo, dovrebbe interessare, ma non sembra sia così». Guardandola egoisticamente, lei sembra aver risolto. «Ma è insostenibile andare avanti a lungo». Come funzionano da voi i control l i ? «Avendo turni a tutte le ore, abbiamo optato per controlli a campione, dovendo quindi sostenere i costi per le attrezzature necessarie e per le ore di lavoro del personale destinato alla verifica. Spendo 200 euro al giorno per un controllo puramente burocratico». Almeno 5.000 euro al mese. «Un investimento senza benefici. E poi basta guardarsi attorno, nei bar o nei negozi: mascherine abbassate, distanziamento non rispettato. Perché il governo non promuove di più le misure di sicurez za? » .Per molti siamo all’ava n gua rdia. «Se gli altri Paesi non ci seguono è invece perché non comprendono cosa stiamo facendo. Qui si è creato un clima aspro, le aziende non sono certo avulse dal contesto sociale. Basterebbe forse un po’ di buon senso». M a n ca? «Spero che Draghi voglia rendere concreto il suo “g ra z ie” agli italiani permettendo alle piccole e medie imprese che innervano il Paese di lavorare. Decidendo una volta per tutte come l’esecutivo intenda gestire questa norma nel medio, e pure breve, periodo». Serve meno severità? «No, anzi: un Paese serio fa rispettare le sue leggi con rigore. Le strumentalizzazioni, però, non servono. Se nero su bianco è previsto che si possa avere il lasciapassare o con la vaccinazione o con il tampone, devono esserci le condizioni per entrambe le opzioni». Questione di rispetto per chi fa scelte diverse? «Il rispetto è fondamentale, ma il punto non è nemmeno questo. Ribadisco: la legge c’è. Altrimenti si faccia l’obbligo vaccinale». Nella pratica che cosa intende per buon senso? «Se c’è bisogno di manutenzione urgente in uno stabilimento, le macchine sono ferme, e arriva all’alba per aggiustarle un uomo che dice di aver dimenticato il pass a casa, che faccio? Non ci penso un minuto: lo faccio entrare, perché nel frattempo ci sono 30 persone che non possono lavorare. Così fan tutti, e sottolineo che non sto sponsorizzando una gestione “all’italia - n a”della cosa, anzi: chiediamo solo di poter lavorare con serenità». Non si riesce più? «Si stanno creando divisioni nei gruppi di lavoro, tra le persone, tra i colleghi. In questi due anni abbiamo agito fianco a fianco, c’era il presupposto essenziale: non è il datore di lavoro a imporre regole, siamo tutti sulla stessa barca a combattere contro un nemico invisibile. Ha funzionato, nella mia azienda come in quasi tutte le pmi, mai un contagio interno». Ora il sentimento è diverso? «La coesione si è incrinata, ed è una cosa grave. Nei reparti manca la solidarietà gli uni per gli altri. Questo si traduce in problemi nella gestione, ma pure nello svolgimento del lavoro. E sa cos’altro accade? Proprio i vaccinati mi chiedono di fare il tampone, perché il vaccino non li rende immuni». Tutti monitorati. «Non è forse questa una nuova fase in cui il governo dovrebbe decidere per un monitoraggio sulla circolazione? Siamo a disposizione: ci permettano di fare tamponi in auto-somministrazione, senza che siano finalizzati al green pass». Sicuri, ma senza codice. «Lasciamolo ai concerti, o alle discoteche. Da noi ci sono tutte le misure fondamentali». Secondo Confindustria lei può chiedere i danni a un dipendente che non ha il pass. Che paghi, dicon o. «O non conoscono le aziende o stanno giocando una partita dai fini diversi rispetto a chi dicono di rap p re s e nta re » . Non ci ha mai pensato? «Figuriamoci, è una idea che mi lascia allibito. Nessuno di noi imprenditori manifatturieri ha mai pensato di sospendere un dipendente la scorsa settimana, figuriamoci fargli causa. Se ne perdiamo 1 su 15, siamo in seria difficoltà». È in atto uno scontro ideologico? «Si può anche non condividere, ci si può persino arrabbiare, ma non ci si può permettere di non lavorare. Aggiungiamo pure il fatto che stiamo andando verso l’inver - no, caratterizzato da un assenteismo permanente del 3 o 4% tra ferie, permessi, malattie stagionali… Sommato al 10% di chi non ottiene il pass si rende la prospettiva di una difficoltà produttiva ancora più concreta». Il giudizio di un imprenditore su Mario Draghi, in mezzo a questo caos, è cambiato? «Quando è arrivato ho pensato “f inal mente”, e continuo a sostenerlo. Questo non mi esime dalla libertà di dire che va bene il Pnrr, va bene la coesione di una politica che non sapeva più che pesci pigliare, ma dal punto di vista sanitario si sta commettendo un errore. Manca al premier la sensibilità sull’impor - tanza della tenuta sociale». Vorrebbe da parte sua lacrime in stile Fornero? «Quel governo, sempre di tecnici, seppure con ritardo, almeno si occupò di gestire una situazione esplosiva. Che riguardava una minoranza, gli esodati, ma sulle cui spalle non si è fatta macelleria sociale». Oggi quella che qualcuno definisce «una piccola minoranza» scende in piazza. «E la politica resta inerme, asservita, senza nemmeno far presente che la coesione non può invece mancare, visto che stanno per arrivare tasse e sacrifici. Dobbiamo ricompattarci, non dividerci». Sac r i f ic i ? «Pesanti, non illudiamoci del contrario. Sarebbe ora che se ne cominciasse a parlare: dovremo ripagare i debiti che stiamo facendo».

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