La politica
della bellezza
s’intitolava un
aureo testo di
J a m e s H i l -
lman d e d ic ato
alla necessità del bello per
l’anima delle città e delle
comunità. Pensare a quel
titolo in piena dittatura del
brutto è un escamotage per
sfuggire alle miserie della
politica. Certo, la politica della bellezzanon è la bellezza dellapolitica,
vuol dire altro: ma il legame
tra bellezza e politica è un rap-
porto di fantasia e delirio. Ep-
pure il primato mondiale del-
l’Italia è nella bellezza delle
arti, dei centri storici e del
pae s a g g io.
Dieci anni fa, di questi gior-
ni, moriva Hillman, lo psica-
nalista freudiano e platonico
che riscoprì gli dei, e concepì
la sua opera e il suo pensiero
come una meditata fuga dalle
brutture. Lo studioso ameri-
cano ebbe un grande successo
internazionale perché offriva
ai suoi lettori e seguaci una via
d’uscita dalle condizioni del
presente. Indagava nelle an-
gosce dei contemporanei e re-
stituiva loro i sogni e gli incubi
puerili ed eterni dell’u m a n i tà:
gli angeli e i demoni, gli dei e
l’anima, l’arte e l’alchimia, la
depressione e il suicidio, il pa-
dre assente, il bambino che
abita dentro di noi e il vecchio
che trova ragioni per amarsi
anche da senex.
Hillman ha tracciato una fi-
losofia pop, seducente e ac-
cessibile anche ai profani, nel-
le vesti della psicanalisi. Una
visione del mondo, a partire
dalla propria psiche. Più che
una filosofia, una mitosof ia
applicata alla propria anima e
ai suoi misteriosi recessi. Per
congedarsi in bellezza, H i l-
lman ci dona ora, a dieci anni
dalla sua scomparsa, un dialo-
go postumo sull’immagine, a
cura di Silvia Ronchey (L’ulti -
ma immagine, Rizzoli), ispira-
to dai mosaici di Ravenna. Ol-
tre al suo ruolo di divulgatore,
Hillman è stato il significativo
battistrada di una nuova sen-
sibilità, «un’intelligenza ani-
mata» e «un pensiero del cuo-
re». E un efficace traduttore
nel gergo e nelle apprensioni
d’oggi di un sapere mitico e
antico. La mitologia classica
entra nella psicanalisi fino a
prenderne il posto quasi in
forma di paganesimo.
Dobbiamo a Hillman la sco-
perta dell’anima nei nostri
giorni. Hillman ne riscopre la
centralità ma non la situa den-
tro di noi, semmai noi siamo
dentro di essa. L’anima ci av-
volge, come pensavano i neo-
platonici, non ci chiude nel-
l’individualità, semmai ci uni-
sce all’anima mundi. Hillman
ne scrisse pure il codice, quel
codice dell’anima che diventò
best seller e raccolse adepti in
una specie di next age.
Hillma n si riconnette alla
tradizione spirituale che va
dai pitagorici a P l ato n e e a Plo -
ti n o, da Marsilio Ficino a V ic o:
Hillman riportò alla luce il filo
rosso di quel pensiero spiri-
tuale, meridiano e mediterra-
neo che scorre nel fondo dei
secoli. Ha riportato il pensiero
tra l’Egitto, la Grecia e la Ma-
gna Grecia. Dall’America al
Mediterraneo, dalla te c h n e al
myth o s . Dal subconscio al me-
taconscio, per così dire.
Hi llma n ha oltrepassato
l’inconscio collettivo di Ju n g
scoprendo un «noi» comuni-
tario e arcaico nel cuore del-
l’io; una via d’uscita al solipsi-
smo egocentrico dell’Oc c i-
dente. Hillman ha compiuto il
percorso inverso di Ju ng : il
suo maestro aveva viaggiato
dalla mitologia alla psicopato-
logia («Gli dei sono diventati
malattie», dice Jung ) mentre
Hillman ci offre il viaggio di
ritorno scorgendo nelle no-
stre malattie depressive dei
nostri giorni, l’assenza degli
dei e la perdita del mito. L’invi -
sibile non è frutto dell’aliena -
zione, come sostiene gran
parte del pensiero moderno,
ma il contrario, l’a l ie n a z io n e
nasce dalla perdita del contat-
to con l’invisibile. L’i n c o n s c io
torna a essere la caverna pla-
tonica; nei recessi profondi
della psiche abita il Mistero, la
casa divina.
Anche H i ll m a n au s picava
una decrescita felice, ma non
nel senso socio-economico di
S e rge L atouch e; per lui la de-
crescita felice è regredire al-
l’infanzia, tornare bambini,
tornare alle origini angeliche.
Il mito del P ue r aete r n u s am -
micca alle utopie giovanilisti-
che del 1968; ma in lui è nel
segno mitico dell’incanto e
della mutazione alchemica,
all’insegna del Solve et coagu-
la.
C o s’è dunque la politica
della bellezza di H i l l m a n? Un a
denuncia della prevalenza del
brutto nella politica, a causa
del dominio asfissiante dell’e-
conomia, della funzionalità,
dell’utilità, del materialismo e
del tecno-scientismo; l’insen -
sibilità verso l’ambiente, la
noncuranza dell’anima di chi
vi abita, ma anche la stessa ar-
te, per lui, ha perso il contatto
con la bellezza. Senza bellezza
non c’è eros, e neanche amore
per la città, per la comunità, in
definitiva per la politica.
Allora ti scorrono le imma-
gini dei tentativi di immettere
la bellezza in politica. Gabrie -
le D’Annunzio amò definirsi
deputato della Bellezza; non
era un adone, ma un portatore
sano di bellezza. Il divino Ga-
briele sognò di far politica in
bellezza, ma l’impresa abortì,
dopo la sua apoteosi, a Fiume.
Riuscì a vivere la bellezza in
tutti i campi meno che nella
politica: nella poesia, nell’ar -
te, nella vita, nell’arredamen -
to, nell’amore, nella guerra,
negli indumenti, magari a vol-
te sconfinando nel kitsch. Ma
non in Parlamento, non in po-
litica. Uguale sorte per D r ieu
La Rochelle o per Yukio Mishi-
ma, esteti e suicidi.
Parafrasando Mach iavell i,
cum la bellezza non si gover-
nano li Stati. Però sarebbe bel-
lo opporre al buonismo il belli -
smo (ci provò S ga r bi , che fon-
dò il Partito della Bellezza). Al
dandy, all’esteta non si addice
la politica, la kalocrazia è im-
possibile. L’unico capo di go-
verno che pretese di governa-
re a colpi di bellezza finì paz-
zo. Era Ludwig di Baviera, il re
che inseguì, nell’epoca in cui
sorgevano i grattacieli a Chi-
cago, il sogno di rinverdire il
mitico medioevo dei castelli,
rischiando di sconfinare in
Disneyland. Un progetto affa-
scinante agli occhi dell’a rte,
delirante agli occhi della poli-
tica. La bellezza salverà la po-
litica? Ma chi salverà la bellez-
za dalla politica? E qui ti rifugi
con Hillman nell’arte, nel mi-
to, tra gli dei.
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