STUPIDA RAZZA

venerdì 29 aprile 2022

Le sanzioni usate come arma morale

 Sulla questione dell’Ucrai - na cerchiamo di andare, una volta per tutte, all’e s s e n z i a l e, partendo dai dati di fatto pacifici e indiscutibili. Il primo di essi, ovviamente, è che l’Ucrai - na è stata oggetto, in effetti, di u n’aggressione militare ingiustificata da parte della Russia. Il secondo è che l’Ucraina non fa parte né dell’Unione europea né della Nato, alle quali non è neppure legata da alcun specifico trattato, accordo, convenzione o altro che le dia titolo ad ottenere da esse aiuti o sostegni di qualsivoglia natura. Il terzo è che non esistono neppure trattati, accordi o convenzioni bilaterali tra l’Ucraina e l’Italia per cui ques t’ultima sia tenuta a fornire alla prima alcuna forma di assistenza, aiuto o soccorso. Il quarto è che, essendo tanto la Russia quanto l’Ucraina membri dell’Onu, spetterebbe solo al Consiglio di sicurezza della stessa Onu adottare i provvedimenti necessari, anche coercitivi, per porre fine all’aggressione; il che, però, nel caso specifico, non è avvenuto e non può avvenire, per la sola ragione che il Paese aggressore è uno dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza ed è quindi in grado, esercitando il diritto di veto, di impedire ogni iniziativa. Deve quindi concludersi che, in tale situazione, piaccia o non piaccia, non esiste, in base al diritto internazionale, alcun obbligo giuridico a carico di chicchessia di attivarsi a favore dell’Ucraina contro la Russia. Ciò premesso, ne deriva che qualsiasi decisione che l’ Ita - lia, l’Ue o la Nato abbiano adottato o dovessero adottare a sostegno dell’Ucraina in danno della Russia è riconducibile solo ed esclusivamente a valutazioni di natura politica, del tutto discrezionali e sul merito delle quali, quindi, si possono legittimamente nutrire e manifestare le più ampie ris e r ve. In particolare, quanto alle sanzioni, è stata da molti messa in luce la loro sostanziale inefficacia, accompagnata, per converso, dall’e f fetto «boomerang» in danno degli stessi Stati europei che le hanno deliberate; effetto che, peraltro, viene sostanzialmente ammesso, sia pure in varia misura, anche dai sostenitori di questa scelta politica, i quali, però, affermano che esso deve passare in seconda linea, a fronte dell’impresci ndibile dovere morale di «fare qualcosa» a dimostrazione della solidarietà del cosiddetto «mondo libero» con l’Ucraina, siccome vittima di una brutale aggressione da parte di un altro Paese retto, come la Russia, da un regime ritenuto autocratico e liberticida. E l’adempimento di un tale dovere imporrebbe quindi ai popoli di tutti i Paesi dell’Unione europea l’accettazione di sacrifici che comportino un peggioramento, anche sostanziale, della qualità e del tenore della loro vita. Ora, su questo punto, occorre fare chiarezza e dire, quindi, anche a costo di apparire cinici e brutali, che l’imposi - zione ad un popolo di sacrifici di qualsiasi genere, in assenza di obblighi derivanti dalla Costituzione o da trattati o convenzioni internazionali, è giustificata solo ed esclusivamente a condizione che essi siano o possano ragionevolmente apparire come necessari per il conseguimento di obiettivi rispondenti ad un interesse concreto e attuale dello stesso popolo e non di altri, pur senza escludere che anche altri possano, eventualmente, trarne vantaggio. Ciò significa che, in mancanza (come nel nostro caso) di tale condizione, nessun sacrificio può essere legittimamente imposto, neppure in nome della più alta e nobile delle finalità morali, ivi compresa anche quella di giovare ad uno Stato ingiustamente aggredito da un altro. Illuminante e ancora attuale, in proposito (pur se antiquato nello stile), appare quanto affermava, circa un secolo fa, Benedet - to Crocein uno dei suoi «frammenti di etica» dedicato proprio alla «giustizia internazionale», secondo cui: «Anche chi sia animato dal più nobile e più ardente e più ardito sentire etico, se ed in quanto consiglia e governa ed esercita opera politica, deve unicamente avvisare alla salvezza dello Stato, col quale s’identifica in que l l ’atto», e, ancora: «la soluzione dei problemi morali dell’umana convivenza mercè un distorcimento dello Stato e della politica dalla loro propria natura è errore di logica che apre la via a pericolose illusioni o a incoerenti e dannosi atti pratici». Si potrà obiettare, a questo punto, che l’attivarsi a sostegno di uno Stato ingiustamente aggredito risponde comunque all’interesse generale dell’intera comunità internazionale a che le ingiuste aggressioni vengano scoraggiate. Il che può essere vero, ma proprio perché si tratta di un interesse generale e, quindi, diffuso, esso non può giustificare l’imposizione di sacrifici solo ai popoli di uno o più singoli Stati, per decisione di chi, nei medesimi, è investito del potere politico. Diverso è, ovviamente, il caso che dall’ingiu - sta aggressione subita da uno Stato ad opera di un altro, uno o più Stati terzi specificamente individuati possano ragionevolmente desumere l’e s istenza di un pericolo attuale (e non meramente ipotetico) che l’aggressione possa essere rinnovata in loro danno. È evidente, infatti, che in tal caso l’imposizione di sacrifici ai popoli esposti al suddetto pericolo al fine di poterlo meglio fronteggiare risponderebbe ad un loro effettivo interesse e sarebbe quindi giustificata. Ed è proprio questo l’a rgomento al quale (in alternativa a quello moralistico), si appigliano talora i sostenitori della politica delle sanzioni, secondo i quali vi sarebbe appunto il pericolo che la Russia, se non bloccata in Ucraina, passerebbe poi ad aggredire altri Paesi. Si tratta, però, di un argomento la cui inconsistenza appare manifesta, ove si consideri che il paventato pericolo è privo di qualsivoglia concretezza, essendo frutto di semplici e gratuite illazioni, tanto più pretestuose in quanto non tengono alcun conto del carattere peculiare e difficilmente riproducibile delle ben note ragioni che, a partire dal 2014, hanno dato luogo al contenzioso tra l’Ucraina e la Russia e, quindi, alla sciagurata decisione di que s t’ultima di ricorrere all’uso dello strumento militare.

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