STUPIDA RAZZA

martedì 26 aprile 2022

Le tre svendite targate sinistra e francesi

 

La drammatica svendita di grandi eccellenze nazionali finanziarie e manifatturiere al capitalismo internazionale, in particolare negli anni ’90, è continuata sottotraccia anche negli anni successivi e purtroppo sempre sotto i governi di centro-sinistra. Il caso più emblematico è stato quello dell’Unicredit sotto la guida del francese Jean Pierre Mus tie r. Quando arrivò Mu s tie r, l’Unicredit era la prima banca italiana e anche la più internazionalizzata. L’anno precedente aveva superato lo stresstest della Banca Centrale Europea, che simula eventi negativi per verificare la tenuta patrimoniale delle banche. Vediamo allora cosa ha fatto Mu - s tie r nel silenzio complice del Tesoro e dello stesso parlam e nto. Ne l l ’ottobre 2015 Fe d e r ic o G h i z zo n i , amministratore delegato di Unicredit, su spinta di Jean Pierre Mustier, già in predicato di assumere la guida della banca, vendette agli americani di Fortress la controllata Unicredit credit management bank, che produceva valore per sé e per la casa madre grazie a una innovativa piattaforma per la gestione degli Npl, i cosiddetti crediti non performanti. Naturalmente, vendendo lo strumento, furono ceduti a Fortress anche 2,4 miliardi di euro di Npl e, un anno dopo, questa volta direttamente da Mu s tie r, altri 17,7 miliardi al 13-14% del valore nominale dei crediti in sofferenza. Un gigantesco trasferimento di valore dagli azionisti, piccoli e grandi, a società specializzate nel settore, che la grande finanza aveva subito organizzato; e un grave danno anche per i debitori. Complice la vigilanza della Bce, le banche sono state costrette a vendere i crediti non performanti a prezzo vile, piuttosto che gestirli in proprio negoziando con i debitori, e cioè con famiglie e imprese, eventuali «saldo e stralcio». L’Unicredit, con la sua Uccmb, svolgeva questa attività, ma grazie alla decisione di Ghiz - zo n i e di Mustier la finanza internazionale trovò il Bengodi, perché comprò a prezzi bassissimi i crediti deteriorati, trattando successivamente a sconto con i debitori e realizzando plusvalenze del 70-80% rispetto ai prezzi di acquisto. […] Non contento degli incassi generati dalla vendita di alcuni gioielli, Mustie r varò un aumento di capitale m o n st re, come sussurrarono, compunti, alcuni grandi opinionisti. In tal modo fu spazzato via quel minimo di incidenza esercitato sulla prima banca italiana da alcune fondazioni nazionali, come la Fondazione Cassa di risparmio di Torino e quella di Verona. E così Mu s tie r, già libero da ogni controllo grazie al silenzio di governo e parlamento, si era liberato anche del proprio consiglio di amministrazione. I fondi internazionali gli erano devoti. Diventa difficile non ricordare alcuni conflitti di interesse inquietanti, con Mustier socio e in seguito manager del fondo Tikehau Capital, tra i cui azionisti c’è Amundi, alla quale Mu - s tie r aveva venduto Pioneer. Per buona parte della gestione Mustier il ministro del Tesoro è stato Pier Carlo Padoan, che non si pose mai il problema del danno per il paese causato dal passaggio in mani francesi di una grande società di raccolta del risparmio, che invano Poste italiane aveva tentato di acquistare rappresentando, il risparmio delle famiglie, una delle poche «materie prime» di cui l’Italia è ricca. Quella di Padoan è la mentalità del tecnico privo della sensibilità politica tanto cara alla sinistra italiana e alla finanza internazionale, nonostante l’insegna - mento contrario offerto dai nostri cugini francesi. La musica non cambiò neanche con i governi gialloverde e giallo-rosso, anzi la questione si aggravò perché era subentrata una più grande incapacità politica. L’Unic redit, però, non fu l’unico caso di distrazione dei governi e del Tesoro italiani sulle questioni bancarie. Un caso più complesso, e forse anche più grave, è quello del Monte dei Paschi di Siena, il cui azionista da anni è il ministero dell’Eco nomia, alias il Tesoro italiano. Vista la complessità della vicenda e le eventuali responsabilità ministeriali nella gestione di una banca ridiventata pubblica, scrissi nel 2017 una lettera riservata al direttore generale del Tesoro, all’epoca Vincenzo La Via, e alla Banca d’Italia, per chiedere alcuni chiarimenti. La Banca d’Ita l i a rispose, correggendo e integrando due mie domande ma confermando la vendita di 27 miliardi di euro di Npl a trattativa privata. Governo e Mps rimasero invece in un silenzio imbarazzante. Dopo la privatizzazione e la quotazione degli anni ’90 la gestione del Monte fu affidata, di fatto, alla omonima fondazione, emanazione dei poteri locali quasi tutti in mano alla sinistra comunista. Ed è successo di tutto e di più. Dopo la tragica operazione dell’acquisto di Antonveneta a prezzi sbalorditivi, il mio vecchio amico Franco Bassanini, eletto senatore nel collegio di Siena, dichiarò che si trattava della migliore operazione possibile (purtroppo approvata anche da Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia). E invece fu l’inizio del crollo della banca. Dichiarazioni e coperture politiche di questo tipo aiutarono il disastro del Monte dei Paschi. Quando era banca pubblica, al Monte non accadeva ciò che poi è accaduto, la sua solidità era nota e app rez zata . Una strana sequenza di eventi ha accompagnato la lunga involuzione di Mps. Il governo dell’Ulivo lo privatizzò negli anni ’90, poi la sinistra lo guidò per oltre venti anni attraverso l’omonima Fondazione, con i disastri ricordati. Sempre la sinistra comunista, dopo averlo messo in «braghe di tela», lo rese di nuovo pubblico e ora tenta di privatizzarlo nuovamente. Quando parlo di sinistra comunista parlo dei dirigenti della seconda Repubblica, perché quelli della prima erano tutt’altra cosa sul terreno della gestione e del rigore. Tanto per semplificare, e senza offendere nessuno, nella prima Repubblica Bassanini non ebbe mai incarichi politici o societari importanti e non influenzava quasi per nulla la politica del partito comunista italiano. Nella seconda Repubblica ha ottenuto un potere politico, societario e finanziario molto esteso e ha anche ricevuto la Legion d’onore dal presidente francese Jacques Chirac . Chissà perché! Dalla presidenza della Cassa depositi e prestiti a quella di Open Fiber, fino alla riforma della pubblica amministrazione compiuta da ministro della Funzione pubblica nel governo Prodi (cambiata poi altre quattro volte dai successori) i risultati non furono mai brillanti. Oggi tutti vedono che Mps da solo non regge e, dopo la rinuncia dell’Unicredit alla fusione, l’orizzonte è sempre più incerto. Bisognerà rinegoziare la nuova privatizzazione del Monte con l’Europa in maniera diversa, considerando il contesto mondiale molto cambiato a causa della pandemia. Una presenza pubblica nel sistema bancario oggi si impone, come peraltro accade da tempo nelle banche francesi, tedesche e anche in quelle britanniche. Il fallimento delle politiche pubbliche degli anni ’90 trova nella crisi del Monte dei Paschi la più eloquente conferma, aggravata dalle inquietanti ombre sulla morte violenta di David Rossi, il giovane responsabile della comunicazione istituzionale della ba n c a . Il terzo episodio che, insieme ai primi due già descritti, testimonia l’i n ad eg u atez za della politica degli ultimi trent’anni è la questione Aspi (Autostrade per l’Italia). Privatizzata nel 1999, per oltre vent’an - ni ha operato con scarsissimi controlli dal ministero delle Infrastrutture. Dopo il crollo del ponte Morandi a Genova, nel 2021 è stata ripubblicizzata con Cassa depositi e prestiti e ha sostituito i «perfidi» gestori Benetton con due grandi fondi finanziari, Blackstone e Macquarie, in genere investitori di breve periodo interessati esclusivamente al rendimento economico, ai quali è stato ceduto il 49% della proprietà, mentre Cassa depositi e prestiti detiene il controllo con il 51%. Un disastro frutto di ignoranza o di altro? Se si era persa la fiducia nel gestore, il governo avrebbe dovuto convocare i vertici di Aspi, comunicarglielo e promuovere la rescissione contrattuale consensuale della concessione, lasciando inalterata nel frattempo la gestione durante il tempo necessario per spacchettare i 2.800 km in concessione e metterli in gara. Lo Stato avrebbe così incassato una cifra importantissima, con la quale far fronte agli oneri derivanti dalla rescissione contrattuale di una concessione fin troppo benevola. Avrebbe poi dovuto affidare la rete autostradale a tre o quattro soggetti industriali, piuttosto che conferire il tutto a un soggetto esclusivamente finanziario, Cassa depositi e prestiti, affiancato dai due fondi finanziari prima citati. Sarebbero state pratiche corrette, quelle indicate, rispettose del diritto internazionale e potevano esaurirsi in 12-18 mesi senza le ridicole dichiarazioni «di guerra» ascoltate per due anni. È accaduto l’esatto contrario, non sappiamo se per ignoranza o per interessi occulti, perché si stenta a capire il motivo della presenza di due fondi speculativi nella nuova p ro p r ietà . È sempre bene, però, ricordare i fatti. La folle convenzione con i B e n etto n , tanto criticata, fu istruita sempre dalla sinistra nel periodo 2006- 2008, con il secondo governo Prodi e in particolare dal ministro delle Infrastrutture Anto - nio Di Pietro. All’ex pubblico ministero, in un duro scontro televisivo, ho chiesto invano di esibire il proprio stato patrimoniale e confrontarlo con il m io. Sto ancora aspettando.

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