STUPIDA RAZZA

giovedì 28 aprile 2022

Taiwan in bilico tra mire cinesi e desiderio d’indipendenza

 

Taiwan vive da decenni sotto la minaccia dell’invasione della Cina continentale dalla quale la separa un esile tratto di mare. Dalla guerra civile in poi, persa dai nazionalisti di Chiang Kai Shek che nell’isola trovarono riparo dalla furia dell’Armata rossa, Pechino la considera una provincia ribelle da riportare all’ovile, se occorre, con la forza. Dal canto suo Taiwan si considera già una nazione indipendente e per questa ragione l’ultimo Work Report votato dalla Plenaria del Parlamento cinese ribadisce a chiare lettere la contrarietà di Pechino: «La Cina si oppone fermamente alle attività separatiste che cercano l’indipendenza di Taiwan e alle interferenze straniere». Fine delle comunicazioni. L’Isola che non c’è e il suo futuro sono più che mai al centro della geopolitica. Dal ritiro degli alleati dall’Afghanistan alla guerra russoucraina fino alle tensioni tra Europa e Cina, ogni sussulto globale può esserle letale, appesa com’è al filo delle relazioni tra Cina e Stati Uniti. Questi ultimi per contenere i russi durante la Guerra Fredda riconobbero la Cina chiudendo le porte a Taiwan. Oggi con il Taipei Act si impegnano a difenderla da  ogni tipo di aggressione. Dal 2020 il ministero della Difesa di Taiwan - che in un report ha ammesso di recente la fragilità dei porti e degli aereoporti locali in caso di invasione - monitora ossessivamente le incursioni nel suo spazio di difesa aerea, il picco degli sconfinamenti cinesi è stato raggiunto dal 1° ottobre scorso, Festa della Repubblica popolare cinese, diventata per Taiwan il giorno dell’intrusione più grave, in due riprese, di 38 caccia J-16 della PLA, People liberation army. L’ultimo blitz, in ordine di tempo, si è verificato sul finire della scorsa settimana, con ben 11 aerei segnalati. Una sorta di spada di Damocle sospesa sulla testa dei cittadini taiwanesi. Non solo. Nel mare Pechino ha costruito uno scalo su una lingua di terra rivendicata tra le isole Dasha e Xiaosha, al largo della costa a Est della contea di Pingtan. La minaccia non viene solo dal cielo, quindi, ma anche dalle acque che la circondano. Sotto la guida del presidente Xi Jinping, il governo e le forze armate cinesi hanno aumentato a tutto campo la pressione economica, diplomatica e militare su Taiwan, considerata ad alto rischio di invasione. Lo Stretto è sempre là a dividere più dello stesso sangue gli abitanti delle due sponde ma Taipei è la fune degli equilibri mondiali che Pechino e Washington tirano continuamente dalla loro parte. Il consenso dei taiwanesi su quale sponda scegliere non è però così semplice da conquistare. Soprattutto se si guarda alle scelte delle élite è chiaro che bisognerà attendere l’esito delle competizioni elettorali in calendario. A Taipei si voterà per le presidenziali e per il nuovo Parlamento a gennaio del 2024, le ultime elezioni, agli inizi del 2020, poco prima dello scoppio della pandemìa, hanno riconfermato al potere Tsai Ing-wen, la presidente in carica dal 2016 detestata da Xi Jinping per non essersi allineata al principio One China. «Ci difenderemo da soli», è il mantra di Tsai Ing-wen, «perché siamo già una nazione sovrana e indipendente». E aggiunge: «Se Taiwan dovesse cadere, le conseguenze sarebbero catastrofiche per la pace nell’area e per il sistema delle alleanze democratiche». Dopo l’insuccesso alle amministrative nel 2018 che le è costato la leadership del DPP, il partito indipendentista, Tsai ha ottenuto nelle politiche quasi il 75% dei voti, pari a otto milioni di preferenze. Ci sono, nel 2022, quattro anni dopo, le amministrative, che per il DPP rappresentano un ulteriore momento di verifica in vista delle elezioni presidenziali. Tsai non si ricandiderà. La rosa dei nomi in pista per la successione è molto più radicale del presidente in carica, mentre il partito rivale filocinese, il Kuomintang, al contrario, ha rimesso in sella il giovane Eric Chu, nato in una famiglia di solida osservanza pro Pechino, ma senza toni troppo alti. La vera sfida sarà quella di evitare che una leadership ultraortodossa e filoseparatista faccia solo il gioco di Pechino alzando costantemente la palla all’avversario. Tanto più che la provincia è già così ribelle da permettersi di avanzare l’adesione al Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (Cptpp), il trattato di libero scambio che ha sostituito il Tpp affossato da Donald Trump. Per la Cina, una mossa assolutamente inconcepibile.

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