STUPIDA RAZZA

venerdì 24 dicembre 2021

Banco di prova per l’Europa, la gravità non è percepita

 

L o scriviamo senza troppi giri di parole: a distanza di 10 anni dalla crisi dei debiti sovrani del 2011, la UE si ritrova oggi ad affrontare un banco di prova di eguale gravità che, se non gestito adeguatamente, rischia di metterne potenzialmente a repentaglio la tenuta. Dell’energy crunch che attualmente attanaglia il mercato europeo si è scritto e detto molto in questi ultimi mesi. Tuttavia, la sensazione è che, fatte alcune eccezioni, non vi sia tutt’ora una reale consapevolezza della gravità del fenomeno. In primo luogo sono i prezzi a parlare: dal prezzo medio di 39 euro/MWhregistrato nel 2020, il prezzo spot dell’elettricità si appresta a chiudere il 2021 a circa 119 euro/MWh. È però in quest’ultimo trimestre che si è verificata l’accelerazione della crisi energetica con i prezzi spot dell’elettricità dei paesi del Vecchio Continente che oramai si stanno stabilizzando sopra i 350- 400 euro/MWh. In Francia le consegne di febbraio sono addirittura arrivate alla cifra monstre di 900 euro/MWh. Finora l’approccio adottato dei governi europei è stato quello, immediato, stanziare fondi per compensare il caro bollette. Ma è evidente che si tratta di soluzioni temporanee che occorrerà sostituire con politiche di più ampio raggio. Diverse sono infatti le cause di natura strutturale che hanno alimentato e continueranno a farlo la dinamica rialzista dei prezzi su cui insistono elementi legati sia alla domanda che all’offerta. L’impennata dei prezzi a cui si sta assistendo nel comparto energetico infatti non si sarebbe verificata se, per stemperare gli effetti recessivi sull’economia mondiale a causa delle politiche di contenimento della pandemia (lockdown), non fossero stati implementati dallo scorso anno a oggi 32 mila miliardi di stimoli, monetari e fiscali. Un vero e proprio boom dei consumi che però ha incontrato un regime di offerta assolutamente impreparato ad assorbirlo. Il balzo dei prezzi inaugurato nel 2020 infatti è arrivato dopo circa 10 anni di prezzi calanti sfociati in costante calo degli investimenti in capacità produttiva da parte dei produttori energetici. Sarebbe però un delitto intellettuale non evidenziare come anche scellerate scelte di natura politica stiano aggravando la crisi impendendone l’assorbimento. Il riferimento va in particolare alle politiche climatiche e alla gestione dei rapporti con Gazprom. Sul piano punto l’anno che volge al termine ha dimostrato quanto pericolosa possa essere una politica energetica basata interamente sulle fonti rinnovabili. Le quali hanno certamente il merito di inquinare poco e avere un basso costo di produzione (escludendo gli investimenti per implementarla), ma hanno l’enorme vulnus di essere dipendenti dal meteo e quindi non poter garantire un approvvigionamento stabile. La dinamica ha richiesto una produzione di gas maggiore del previsto aumentando il divario di circa 10 milioni di metri cubi al giorno. Peccato però che la produzione di gas in Europa, escludendo Regno Unito e Olanda, abbia registrato nel periodo gennaio-novembre a 23,3 miliardi di metri cubi dai 70,3 miliardi di metri cubi del 2019 proprio a causa dei sempre zelanti target di riduzione delle emissioni di CO2. In un contesto di aumento della domanda e di calo della produzione interna dunque non c’è stato altro da fare che affidarsi ai fornitori stranieri. Ma anche in questo caso l’import dall’estero Banco di prova per l’Europa, la gravità non è percepita L’intervento di Guido Crosetto e Giancarlo Torlizzi non è tutt'ora in grado di soddisfare appieno la domanda. A pesare sul mercato europeo di gas naturale sono giunte anche le minor forniture dalla Russia a seguito della revisione dell’accordo di transito attraverso l'Ucraina. Secondo alcuni osservatori, le difficoltà della Russia di soddisfare appieno le necessità energetiche europee sarebbero ‘indotte', e troverebbero spiegazione nella mancata approvazione del gasdotto Nord Stream2 che collegherà la Russia con la Germania. Certamente non possiamo escludere a priori il fatto che Mosca possa sfruttare le falle del piano energetico UE per portare avanti i propri interessi. Ma è chiaro che nel momento in cui la UE ha deciso di fare a meno dei contratti di lungo termine per perseguire la liberalizzazione del mercato del gas, si è di fatto messa ancora più nelle mani del suo principale fornitore da cui forse intendeva affrancarsi. L’incertezza sull’avvio dei flussi dal North Stream2 non fa altro che aggravare la condizione di tensione sul lato dell’offerta. Stando a BloombergNEF, le scorte di gas in Europa potrebbero arrivare ad appena 4,4 mld/mc entro marzo 2022. Non è un caso se il 21 dicembre il prezzo del gas ad Amsterdam che esercita un ruolo di benchmark per il mercato europeo sia arrivato a 176 euro/ MWh superando il picco di inizio ottobre. La liberalizzazione ha certamente pagato nelle fasi di prezzi in discesa ma oggi davanti a una tensione strutturale appare come una pratica suicida. Lo sanno bene le acciaierie italiane che si trovano oggi ad affrontare l’accesa competizione da parte dei concorrenti turchi in grado di beneficiare di un prezzo dell'elettricità di circa 60 euro/ MWh proprio grazie al mantenimento dei contratti di fornitura di lungo termine con Gazprom. Lo stallo non dispiace naturalmente a Washington che da anni preme per sostituirsi a Mosca come principale fornitore europeo. Tuttavia finora i produttori di shale gas hanno sempre privilegiato i buyer asiatici pronti a pagare un premio maggiore rispetto ai buyer europei. (🙏🙏🙏) Ecco dunque che aver inserito nel dossier relativo all'Ucraina anche il dossier relativo al NorthStream2 senza le adeguate compensazioni è stato un errore madornale da parte dei policymakers europei. Fatte queste premesse dunque non sussistono i motivi per assistere a un miglioramento della tensione sui mercati energetici. A giudicare dalla curva forward del prezzo dell'elettricità gli operatori si attendono il mantenimento dell’attuale stato di tensione anche per tutto l'inverno del prossimo anno. Come uscirne? La Cina ha dimostrato che dalla crisi energetica si può uscire solamente in modo da rivedere interamente le proprie climatiche accompagnando lo sviluppo delle fonti green a un aumento della produzione di energie fossili. Se la UE non farà questo salto  pragmatico, riannodando al tempo stesso il filo del dialogo con Mosca, la crisi energetica è destinata ad aggravarsi ulteriormente con il rischio concreto di sfociare in razionamenti produttivi, casse integrazioni, tensioni sociali e blackout.  

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