L
a cultura del debito è pericolosa. Per cultura del debito non
intendiamo quella di prendere a prestito oggi per costruire un
futuro migliore, ma quella di non affrontare i costi oggi per
rimandarne il pagamento al futuro, se possibile alle prossime
generazioni, senza curarsi se questi costi saranno più grandi.
La cultura del debito ha fatto un salto di qualità di fronte alla
guerra in Ucraina e ai costi che ne derivano. Non sto parlando solo della
discussione su quanto debito pubblico aggiuntivo sia accettabile per
attenuare i costi economici della guerra su famiglie e imprese. Anche questo
debito, qualora sia necessario farvi ricorso, può essere incluso nel debito
necessario ad assicurare un futuro migliore. Sto parlando di qualcosa di più
inquietante, cioè del modo in cui la comunità occidentale, di cui l’Italia fa
parte, sembra voler affrontare la guerra economica contro la Russia.
L’impressione è che fino a oggi ci sia stata una gradualità di sanzioni che
sembra disegnata in modo da minimizzare quelle che implicano un maggior
costo immediato per i Paesi che le impongono, privilegiando quelle che
spostano il costo in un tempo futuro, senza valutarne l’entità. Parlo di quelle
sanzioni che rischiano di distruggere le istituzioni e le infrastrutture
economiche e finanziarie del multilateralismo e della globalizzazione,
usandole come armi per isolare il Paese aggressore. Al momento sembrano
innocue per noi: cosa costa abbandonare una riunione del G20 quando parla
il rappresentante della Russia, o bloccare le riserve della banca centrale russa,
o escludere le istituzioni russe dai circuiti finanziari globali? Molto più
costoso sarebbe oggi procedere a bloccare l’import di gas dalla Russia,
magari temporaneamente, o intraprendere altre azioni con impatto
immediato, anche quelle di aiutare maggiormente la difesa Ucraina, come
chiede il suo governo. Ma questa è appunto la cultura deteriore del debito
applicata alla geopolitica. Allontanare i costi immediati, anche se il tempo
guadagnato può essere visto come utile per una migliore preparazione ad
affrontare l’eventualità di una guerra prolungata, ma non considerare
attentamente le azioni che producono danni futuri molto peggiori.
Naturalmente questa analisi risponde all’idea che il nostro sostegno
all’Ucraina sia solo finalizzato a porre fine il prima possibile alle stragi e a
respingere l’invasione russa. Due obiettivi non identici, ma che è giusto
perseguire insieme con ogni sforzo e a costo di sacrifici immediati. Le cose
cambiano se si inizia a parlare di una guerra a difesa delle democrazie
occidentali e si agisce in modo da mettere in discussione la possibilità di
riformare consensualmente la governance economica globale, e con essa
l’ordine globale, mantenendo ciò che di buono ha portato la globalizzazione
al mondo, sia ai Paesi emergenti sia a quelli industrializzati, cioè alle
democrazie liberali. Trasformare la guerra in Ucraina, che è una guerra
specifica contro una invasione di uno Stato sovrano europeo e quindi non
accettabile dall’Ue, in una guerra tra civiltà, valori e regimi politici non ha
senso ed è una scelta pericolosa, che non è utile a raccogliere l’appoggio
internazionale più largo per costringere la Russia a rinunciare all’invasione.
Non possiamo considerare questa guerra come una resa dei conti tra le
democrazie, che rappresentano una minoranza nel mondo, e i Paesi retti da
sistemi diversi dalle liberaldemocrazie. La storia dal secondo dopoguerra in
poi non ci indica grandi risultati ogni volta che si è andati in quella direzione.
Attenzione a non pensare che l’Occidente possa isolare il resto del mondo
non gradito. Il rischio è che avvenga il contrario, in Asia, in Africa e forse
anche in America Latina dove le democrazie devono far dimenticare passate
amicizie ingombranti. Anche se la globalizzazione come l’abbiamo
conosciuta richiede un aggiustamento e nuove regole, queste devono essere
concordate e condivise nell’interesse del benessere e della pace, che
riguardano una popolazione globale di cui Europa e Stati Uniti
rappresentano solo circa il 10 per cento. Troppo facilmente oggi molti dicono
che con la guerra di aggressione in Ucraina è crollato il vecchio ordine
globale. Certamente quest’ordine è in crisi, ma non tanto per la guerra in
corso ma perché sono cambiati gli equilibri economici e politici globali e
nuovi accordi sono necessari. Le istituzioni di Bretton Woods, dalla Banca
mondiale al Fondo monetario internazionale, hanno bisogno di essere
rinvigorite e riformate anche perché non possono essere più considerate le
istituzioni dell’Occidente, essendoci molti altri attori oggi nel mondo. Ma
non sarebbe una buona idea per l’Occidente buttarle a mare per non
condividerne il governo. È necessario un nuovo ordine mondiale, ma per
unire il mondo e non per dividerlo in blocchi impegnati a far prevalere la
propria egemonia. Una volta nei contesti internazionali si parlava di
engagement più nel significato di coinvolgimento che di confronto/conflitto
ed era una buona prassi. Anche oggi contano le parole oltre che le azioni e
l’Europa è chiamata a giocare un ruolo affinché l’Occidente non ne esca
compromesso. Perché alla fine il “debito” viene a scadenza e si rischia di
pagarlo con nuove guerre.
NEL 2012 NON CI SARA' LA FINE DEL MONDO IN SENSO APOCALITTICO,MA UN CAMBIAMENTO A LIVELLO POLITICO ED ECONOMICO/FINANZIARIO. SPERIAMO CHE QUESTA CRISI SISTEMICA ,CI FACCIA FINALMENTE APRIRE GLI OCCHI SUL "PROGRESSO MATERIALE:BEN-AVERE""ECONOMIA DI MERCATO" FIN QUI RAGGIUNTO E SPERARE IN UN ALTRETTANTO "PROGRESSO SPIRITUALE:BEN-ESSERE"ECONOMIA DEL DONO,IN MODO DA EQUILIBRARE IL TUTTO PER COMPLETARE L'ESSERE UMANO:"FELICITA' NELLA SUA COMPLETEZZA".
STUPIDA RAZZA
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