L e concessionarie italiane sono arrivate all’attuale crisi del mercato (con cali mensili ben oltre le due cifre) appesantite negli indicatori fondamentali, per responsabilità loro e forse soprattutto delle case auto, che di fatto governano le scelte organizzative e forzano quelle gestionali. È quanto emerge dall'analisi dell'Automotive Dealer Report di ItaliaBilanci. Nel 2020 un concessionario su quattro ha chiuso in perdita, laddove prima succedeva a uno su sette, ma a parte questo bisogna dargli atto che hanno reagito bene. Gli indici 2020 riportano scostamenti minimi sul 2019, nell'ordine dei centesimali, a parte il reddito operativo sul capitale, passato da 9,2 a 8%, e il reddito netto sul capitale netto, da 8,6 a 6,5%. Evidentemente la chiusura Covid s'è fatta sentire sul giro d'affari, al punto che tanti nemmeno hanno riaperto. A fine 2020 i concessionari in attività erano 1.248 rispetto ai 1.329 del 2019, pari al -6%, mentre nei 3 anni precedenti la diminuzione annua media era stata del 3%. In pratica gli indici medi sono stati tenuti su dall'uscita di chi li avrebbe affossati. Ma se nel 2020 le case hanno allentato la pressione sulla rete, non l'avevano fatto tra il 2017 e il 2019, dove si nota un graduale appesantimento. Mentre i ricavi crescevano del 14%, le spese di gestione aumentavano del 16,5 e quelle del personale addirittura di oltre il 20%. Così il valore aggiunto e i ricavi per addetto diminuivano del 3,4 e del 3,8% rispettivamente. A livello patrimoniale, il capitale aumentava del 15% e i mezzi propri del 22, mentre il ricorso a terzi del +7%. Erano gli anni in cui il valore medio delle auto aumentava del 5% in 24 mesi, grazie ai suv, a fronte di volumi in contrazione del 3%, nonostante le iniezioni di km0 ogni fine mese, che deprezzavano l'usato dei concessionari. Secondo le elaborazioni del Centro Studi Fleet&Mobility, lo stock usato ruotava più lentamente coi giorni medi di giacenza saliti da 68 a 71. Pur con un magazzino medio sceso da 89 a 76 unità, il peso sui ricavi saliva dal 18.6 al 19.5% peggiorando la leva finanziaria. Evidentemente i costruttori, avendo sfiorato il tetto magico dei 2 milioni di immatricolazioni nel 2017, che invece era solo l'epilogo del rimbalzo dopo la crisi 2012/14, hanno ripreso a spingere per investimenti in strutture, pur consapevoli che le relazioni migravano sul digitale, e per assumere personale, sapendo bene che 2 milioni di vendite non sarebbero mai tornati. Ma niente, il mercato doveva assorbire tutte le macchine che era necessario produrre per tenere al minimo i costi unitari. Una politica simile, verso i fornitori, è stata tra le cause della crisi dei microchip. Sia come sia, questi numeri raccontano del mondo che non c'è più: guardarli può fare più male che bene. Meglio pensare al prossimo.
NEL 2012 NON CI SARA' LA FINE DEL MONDO IN SENSO APOCALITTICO,MA UN CAMBIAMENTO A LIVELLO POLITICO ED ECONOMICO/FINANZIARIO. SPERIAMO CHE QUESTA CRISI SISTEMICA ,CI FACCIA FINALMENTE APRIRE GLI OCCHI SUL "PROGRESSO MATERIALE:BEN-AVERE""ECONOMIA DI MERCATO" FIN QUI RAGGIUNTO E SPERARE IN UN ALTRETTANTO "PROGRESSO SPIRITUALE:BEN-ESSERE"ECONOMIA DEL DONO,IN MODO DA EQUILIBRARE IL TUTTO PER COMPLETARE L'ESSERE UMANO:"FELICITA' NELLA SUA COMPLETEZZA".
STUPIDA RAZZA
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