STUPIDA RAZZA

domenica 10 aprile 2022

La grande fuga, via dalla Russia 600 multinazionali

 

Sono più di 600 le multinazionali che hanno deciso e annunciato uscite, totali o parziali, dalla Russia da febbraio. Nei più diversi settori, da petrolio e hamburger a tech e media, da banche a contabilità. Da Exxon Mobil e BP a McDonald’s, da Citigroup ai re delle carte di credito, da McKinsey e Bain fino a Apple e Disney. Jeffrey Sonnenfeld di professione fa l’accademico, veterano docente di management all’Università di Yale. Ma negli anni ha vestito i panni di consulente di più d’un presidente e di centinaia di amministratori delegati. E oggi è salito alla ribalta per una “cattedra” all’incrocio drammatico tra geopolitica e aziende. Tra le imprese e l’invasione russa dell’Ucraina. È diventato il narratore ufficioso dell’esodo della Corporate America e globale da Mosca. Il curatore della lista globale, la più autorevole, divenuta barometro di una guerra che ha cambiato il business. «È un fenomeno senza precedenti», spiega al Sole 24 Ore. Che quanto e forse più delle sanzioni governative stringe oggi l’embargo attorno a Vladimir Putin. Se le misure varate dalle capitali non hanno di regola un passato di grande efficacia, «nella maggior parte dei casi non sono state accompagnate da un blocco, da un embargo volontario, del business». Sonnenfeld, che non nasconde come la sua classifica nasca per sollecitare l’esodo, offre altre statistiche a controprova dell’impatto per niente secondario: «Le aziende uscite o che hanno sospeso o ridotto attività sono il triplo, per numero e impatto complessivo, rispetto allo storico embargo deciso contro il Sudafrica dell’apartheid. Sono equivalenti almeno a un quarto del Pil russo«. Il Sudafrica è proprio il parallelo che più gli sta a cuore. Sottolinea i risultati ottenuti da quella fuga e gli obiettivi oggi semmai più raggiungibili: «Il governo dell’apartheid fu rapidamente sostituito da una compagine che iniziò la dissoluzione di quel sistema e una vasta trasformazione sociale. Ora in gioco è più semplicemente uno stop ai massacri». C’è chi segnala come le imprese siano state facilitate in scelte etiche da più fattori. Le crescenti pressioni alla sensibilità sociale, da parte di opinione pubblica e investitori che sottoscrivono manifesti Esg. E le ripercussioni di una pandemia che, per contenere rischi, frena la globalizzazione e invoglia ad accorciare le catene di forniture e produzione. Ciò detto, Sonnenfeld resta sorpreso da velocità e determinazione mostrata da più marchi e spesso non i più scontati. «Studio gli aspetti dell’impatto sociale da 45 anni e le prime tre ondate di imprese che hanno lasciato mi hanno colpito. Non avrei immaginato che compagnie petrolifere sarebbero state tra i leader», mettendo in gioco asset per decine di miliardi. Neppure, aggiunge, le «società di consulenza e contabilità», sovente sfuggenti. O le Big Tech, da Ibm a Dell a piattaforme social, non sempre all’avanguardia dei diritti. In realtà, però, la classifica di Sonnelfeld con il passare delle settimane ha rivelato anche sfide e limiti dello storico disimpegno da Mosca. Su scala mondiale, gran parte delle imprese in uscita batte bandiera americana e europea, con alcune eccezioni asiatiche di nota da Samsung a Toyota. La stessa formulazione dell’elenco si è complicata. Le due categorie originali, chi lascia e chi resta, hanno ceduto il posto a cinque. Chi si ritira del tutto (ad oggi 250), chi sospende le attività (257), chi ridimensiona (72) e chi prende tempo (99) rinviando solo futuri investimenti o progetti. Senza contare 194 gruppi che si sono arroccati. Alcune imprese citano ostacoli legali o pratici. Altre vorrebbero riprendere in mano asset e operazioni se e quando possibile. Sonnenfeld registra tutto ma professa scetticismo per chi, compresi gruppi di non poche nazioni occidentali, invoca la necessità di restare o temporeggiare. A volte sostenendo di volersi dimostrare datore di lavoro responsabile, o di dover offrire prodotti e servizi essenziali alla popolazione russa. Teme il desiderio di operazioni di sola immagine. «Simili scelte possono erodere il proposito del business blockade, un soft landing non è possibile», incalza, davanti all’enormità della guerra. «Bisogna avere impatto sulla società civile, inviando un messaggio che oltrepassi le censure», che isoli il Cremlino e incrini il suo controllo. Tra chi tiene duro addita gruppi del calibro della conglomerata Usa Koch Industries. Nel novero dei gruppi prudenti conta numerose case farmaceutiche, da AstraZeneca a J&J, come nomi industriali e del largo consumo. Menziona le cautele di PepsiCo, che ha 20.000 dipendenti e 24 impianti in Russia e riduce le attività. E quelle di Danone, che temporeggia. Il Wall Street Journal ha evidenziato che di recente sugli scaffali russi comparivano generi non esattamente “essenziali” quali rasoi, cosmetici, patatine, gelati. Prodotti targati Pepsi, Gillette, P&G e Unilever. Sonnenfeld considera insostenibile anche il modello McDonald’s, che ha fermato le attività ma paga tuttora 60.000 dipendenti russi. E le imprese che considera imperturbabili o poco impegnate sono il segno più visibile del quesito di fondo: se la Russia, per le aziende, diventerà davvero un “nuovo Sudafrica”.

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