STUPIDA RAZZA

venerdì 22 aprile 2022

Perché la crescita verde non è la panacea che stavamo aspettando

A nziché occuparsi di limiti alla crescita,
gli economisti preferiscono ambire a
ciò che chiamano «crescita verde»:
una costante espansione
dell’economia che tuteli però
l’ambiente; una crescita dunque che
non danneggi il pianeta. È un’aspirazione
perfettamente lecita, per carità. Molto meglio una
crescita verde di una crescita che distrugga la Terra.
Su questo non ci piove. Ma a prima vista anche una
crescita del genere sembra vagamente
contraddittoria. Crescita significa più produzione.
Più produzione significa più impatto. Più impatto
significa meno pianeta.

Una crescita senza fine – verde o no che sia – rischia
solo di non portare ad alcuna crescita. Su un pianeta
morto non c’è crescita. Una crescita eterna accelera
la distruzione di ogni cosa. Come ha sottolineato
Greta Thunberg al vertice Onu sul clima, è una favola
con un finale molto brutto.
Per capire cos’è la crescita verde dobbiamo tenere
presente la cruciale distinzione, tracciata dagli
economisti, tra «produzione
economica» e «produzione
materiale». Il Pil viene valutato in
termini più monetari che
quantitativi, concreti. Quindi
appare evidente che la crescita
economica non equivale alla
crescita materiale. Separando (o
«disaccoppiando») il valore
monetario dal suo contenuto
materiale, possiamo sfuggire – se
non per sempre, almeno in misura
apprezzabile – al dominio dei
limiti finiti. Questa la loro tesi.
Una tale distinzione porta gli economisti ad accusare
i loro oppositori di fraintendere il concetto di
«crescita economica». «Pensano che sia qualcosa di
brutale, di fisico, e che tutto si riduca semplicemente
a produrre più roba», ha detto l’economista premio
Nobel Paul Krugman. Non tengono conto delle
«tante scelte – su cosa consumare, su quali
tecnologie usare – implicate nella produzione di un
dollaro di Pil». La sua convinzione che queste «tante
scelte» permetteranno di raggiungere anche gli
obiettivi ecologici più stringenti senza mai
compromettere la crescita economica lo spinge
(sulla falsariga dell’ex presidente americano Donald
Trump a Davos) a bollare gli scettici della crescita
come «profeti della disperazione».
Qui Krugman si sbaglia. Gli scettici della crescita
sanno benissimo che differenza c’è tra denaro e
materia. In genere accettano il fatto che ci siano
«tante scelte» in termini di tecnologia. Molti di loro
plaudono allo straordinario potere di quest’ultima,
riconoscendone i benefici oltreché i costi. È palese
che la società ha un’enorme capacità di sviluppare
nuove tecnologie più pulite, più
leggere e più verdi. L’ingegnosità
tanto cara all’ex presidente
americano Ronald Reagan è viva e
vegeta. Sarebbe sciocco negarlo,
perché l’abbiamo visto con i
nostri occhi. Ci sono abbondanti
prove, ad esempio, che le
emissioni di carbonio del Pil
globale siano scese di oltre un
terzo dalla metà degli anni
Sessanta. Sono diminuite perché
la nostra ingegnosità tecnologica
ci ha permesso di operare in modo più efficiente. L’accresciuta efficienza ha
ridotto gli impatti della nostra attività economica.
Qui non sono in discussione né l’esistenza né
l’importanza del fenomeno. Ma questo
«disaccoppiamento relativo», da solo, non è
sufficiente a compiere la magia della crescita eterna.

L’ambiente se ne infischia dell’efficienza relativa.
Non basta che il contenuto di carbonio di ogni
dollaro di produzione diminuisca nel tempo.
Quello che conta è l’impatto complessivo
dell’attività umana sul pianeta. Per ottenere un
clima stabile dobbiamo ridurre le emissioni globali
di carbonio in termini assoluti. Se il Pil cresce più
velocemente di quanto diminuisce l’impronta di
carbonio che esso genera, la quantità di carbonio
rilasciato nell’atmosfera sarà più alta quest’anno
rispetto all’anno scorso. È esattamente quello che è
successo finora. I dati, ancora una volta,
confermano un’ovvietà. Prima che la pandemia da
Covid-19 fermasse in modo brusco ampie parti
dell’economia globale, non si era praticamente
registrata alcuna interruzione nell’inarrestabile
aumento delle emissioni: non si era avuta traccia
del drastico calo necessario per stabilizzare il clima
in questo secolo. La rapidità con cui siamo in grado
di disaccoppiare il carbonio dai livelli produttivi
non è affatto quella che dovrebbe essere. Non ci
stiamo muovendo abbastanza velocemente nella
giusta direzione. A volte anche i fautori della
crescita concordano su questo punto. A causare
disaccordo è piuttosto un’altra questione: se, cioè,
sia possibile invertire la rotta. Se possiamo
insomma arginare il precipitoso declino
ambientale e al tempo stesso continuare a
crescere. I sostenitori della crescita verde sono
convinti che possiamo.
Giurano fedeltà a un credo immensamente
allettante che contiene tre diversi ma intrecciati
articoli di fede. Il primo (che riecheggia Reagan)
sostiene che la nostra illimitata ingegnosità possa
scavalcare qualsiasi limite fisico dovesse venire a
frapporsi sul nostro cammino. Il secondo propugna
che la crescita è un fattore essenziale per
raggiungere questo obiettivo. Il terzo (e ausiliario)
postulato è che la crescita verde è il modo migliore
per superare le deludenti prestazioni della crescita.
La crescita verde, in altre parole, non è altro che il
salvatore che il capitalismo stava aspettando. La
crescita verde è – argomentano i suoi fautori –
superiore sotto tutti i punti di vista: migliore
tecnologia, più innovazione, maggiore efficienza. E
queste cose, secondo loro, il capitalismo è
perfettamente in grado di procurarle, grazie alla sua
incessante ricerca di innovazione e novità. Se siamo
preoccupati per i danni causati dall’espansione
economica, sostengono, non dovremmo solo promuovere il percorso di crescita, ma anche
raddoppiare i nostri sforzi per raggiungere traguardi
ancora più ambiziosi. In breve, il messaggio è che
solo la crescita può liberarci dal caos in cui la crescita
stessa ci ha gettato.
È una narrazione comoda e avvincente, ispirata da
un’ansia di fondo su ciò che accade quando la
crescita viene a mancare. Quest’ansia è reale,
naturalmente. Le nostre economie dipendono dalla
crescita nei modi più svariati. Ma così si travisa la
questione. Le idee post-crescita sono utili proprio
perché il pericolo del collasso incombe già su di
noi, e se si vuole superare l’impasse occorre
invertire la rotta rovinosa del capitalismo. Affinché
la crescita verde svolga il ruolo di salvatore in
questo rovesciamento di tendenza, dobbiamo
risolvere tutti i problemi associati alla crescente
espansione dell’economia – cambiamento
climatico, perdita di specie, inquinamento di fiumi
e oceani, degrado dei suoli, esaurimento delle
risorse – senza mai staccare, nemmeno per un
momento, il piede dall’acceleratore della crescita.
Per far funzionare le cose abbiamo bisogno di
sempre più innovazione, di sempre più efficienza.
L’efficienza deve accelerare più di quanto
abbia mai fatto in passato, e deve continuare
a farlo nel futuro – prossimo e remoto – senza
soluzione di continuità.
Siamo come la Regina Rossa in Alice attraverso lo
specchio di Lewis Carroll: condannati
a correre sempre più velocemente per rimanere
fermi nello stesso punto.

In un mondo in cui anche rimanere fermi nello stesso
punto non è affatto sufficiente, questa scuola di
pensiero comincia a mostrare irrimediabilmente la
corda. La capacità
di «disaccoppiare»
all’infinito
l’espansione
economica da
quella materiale è
essa stessa una
forma di rifiuto e
di negazione.

Nella fattispecie,
una negazione di
qualsiasi possibile
limite tecnologico.

E questa
negazione dei
limiti sta già
conducendo a
risultati
profondamente
distopici.



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