Che la globalizzazione sia
stata il fattore
preponderante della storia
economica, sociale e politica degli
ultimi tre decenni è stato detto
tante volte, magari troppe, ma
non per questo non vale la pena
riprendere un dato che ben lo
sintetizza. Da mezzo secolo i
politologi e gli statistici del
Konjunkturforschungsstelle
(Kof) di Zurigo computano un
indice della globalizzazione, sia
dal punto di vista delle norme, sia
da quello delle pratiche. Le
dimensioni sono le più svariate,
comprendono indicatori
tradizionali (commercio,
investimenti) e altri (accesso ai
media, numero di negozi Ikea).
De jure come de facto, dal 1970 si è
assistito a un aumento
considerevole (rispettivamente
del 80% e 47%), che ha interessato
tutti i paesi o quasi: Somalia,
Eritrea, Afghanistan e Repubblica
Centroafricana chiudono il
plotone, che come facile
immaginare è condotto dai paesi
europei medio-piccoli.
Ma la distanza tra i super-
globalizzati e gli a-globalizzati è
diminuita nell’ultimo decennio,
una forma di convergenza che
riflette la convinzione, suffragata
dall’analisi, che aprirsi al mondo
è benefico. Certamente ci sono
effetti distributivi, tra paesi,
all’interno dei paesi, tra
generazioni, tra sessi, ma non
tutti sono riconducibili alla
globalizzazione. Come ricorda
Stefano Scarpetta in «Un mondo
diviso» (Laterza 2022), la
tecnologia, sia come soluzione
alle sfide - si pensi a come il
container ha cambiato i costi dei
trasporti e ottimizzato le rotte -
sia come sfida essa stessa - la
capacità di upskilling e reskilling
della forza lavoro impattata dai
processi produttivi globali - ha un
ruolo altrettanto importante, se
non maggiore. Tutto ciò per
riconoscere che il cambiamento
crea vincenti e perdenti, e che la
coesione sociale è una conquista
che va difesa e protetta, ma
scaffali interi di biblioteche sono
disponibili per mostrare il
successo della globalizzazione
nel ridurre la povertà in tutto il
mondo. Adesso pare che la
globalizzazione sia destinata a
scomparire e forse il mondo a
rinchiudersi. Non lo dicono
ormai i No-Global o i profeti della
decrescita ma sacerdoti dei
mercati aperti come Larry Fink. Il
capo di BlackRock, il più grande
gestore al mondo con un
gruzzoletto da 10 trilioni di
dollari, sostiene nella sua
annuale lettera agli azionisti che
la guerra in Ucraina porterà alla
Un tavolo per ridisegnare
il mondo dopo la guerra
L’analisi
di Andrea Goldstein
ristrutturazione rapidissima
delle catene globali di
produzione, dando priorità alla
prossimità geografica e alla
riduzione dei rischi idiosincratici
rispetto al contenimento dei costi
e alla massimizzazione del
rendimento del capitale investito.
In Francia, Marine Le Pen fa
dell’autonomia strategica sia de
jure («mai più servi di
Bruxelles»), sia de facto - la
ricerca dell’eccedente
commerciale attraverso la
preferenza nazionale,
l’esclusione di settori come
l’agricoltura dai trattati di libero
commercio, la regolamentazione
dei prezzi delle materie prime.
Mentre è probabile, ancorché
non certo sicuro, che gli elettori
transalpini faranno da diga
contro il protezionismo
immiserente, il rischio vero è che
le profezie più nere si
autorealizzino. In un certo senso
sarebbe la pena del contrappasso,
alla luce del dominio che la
retorica della globalizzazione ha
esercitato in molti ambienti
influenti dagli anni ’80 in poi. Ma
sarebbe ovviamente una
punizione fin troppo esemplare
che farebbe milioni di vittime
collaterali – i consumatori più
vulnerabili alle prese con il
ritorno dell inflazione, la
manovalanza nei paesi emergenti
che verrebbe spremuta ancora di
più nella ricerca di stipendi così
esigui da sbugiardare gli
argomenti degli araldi del near
shoring. La soluzione, o un pezzo
di soluzione, per essere realisti,
impone di riconoscere che la
geografia economica
internazionale è cambiata
profondamente e che per trovare
nuove regole che evitino di
gettare il bimbo con l’acqua
sporca bisogna sedersi attorno ad
un tavolo ovale sovrastato da una
luce che chiarisca le menti – non
un’immensa sala conferenze,
tanto meno un lungo tavolo dove
cercare l’umiliazione del partner.
Fuor di metafora, sta a Cina, Stati
Uniti ed Europa, probabilmente
assieme a Giappone e India -
difficile al momento immaginare
che una aggressiva petro-
autocrazia come la Russia di
Putin possa prendervi parte -
produrre gli elementi costitutivi
di una nuova fase di prosperità
equa e sostenibile.
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