STUPIDA RAZZA

martedì 28 giugno 2022

«Con la pandemia e la guerra siamo tutti più sorvegliati»

 

 David Lyon, sociologo scozzese, è uno dei massimi studiosi del problema della sorveglianza. Ha scritto testi fondamentali, tra cui il celeberrimo S esto po tere, insieme a Zygmunt Bauman. Da poco, la Luiss ha tradotto in italiano il suo ultimo saggio, Gli occhi del virus. Pandemia e sorvegl ia n za . Professore, è vero che la cifra di governo della nostra epoca è una catena ininterrotta di emergenze? «È chiaro che le “e m e rge n ze” so - no momenti chiave per espandere la sorveglianza. Dopo l’11 settembre, c’è stata in molti Paesi un’im - pennata della sorveglianza. E le rivelazioni di Edward Snowden sulla sorveglianza di massa di cittadini americani, da parte della National security agency, l’hanno conferm ato » . Du n q ue? «Il fatto è che anche sistemi non inizialmente designati per la sorveglianza, come Facebook, devono essere tenuti in piedi per consentirne un’ulte - riore espansione». È quello che è avvenuto con la pandemia di Cov id? «Il balzo della s or vegl i a nza pandemica è dipeso proprio dall’esistenza di platform company, benché sia stato spinto da una crisi di sanità pubblica». I governi approfitteranno della guerra per promuovere riforme che la gente, altrimenti, faticherebbe accettar e? «Lo sviluppo dell’idea di Naomi Klein di “dottrina dello choc” indi - ca che diversi tipi di choc - collasso economico, disastri naturali, attacchi militari o terroristici… - possono essere usati dai governi a proprio vantaggio. Ciò include, in maniera significativa, l’e spa nsio ne della sorveglianza, che a causa delle circostanze estreme che la permettono, spesso cresce senza un adeguato meccanismo di accoun - tab il ity pubb l ic a » . Da che punto di vista la sorveglianza pandemica è differente e nuova, rispetto alle forme precedenti di sorveglianza? «Le pandemie hanno sempre indotto forme di sorveglianza, con l’obiettivo di provare a bloccare la diffusione della malattia. Tuttavia, la pandemia di Covid è arrivata nell’era del capitalismo della sorveglianza, quando grandi compagnie americane e cinesi bramavano di inserirsi nel campo dei dati sanitari. Ciò vale in particolare per un’azienda come Google, che durante la pandemia ha inusualmente collaborato con Apple per fornire l’in - terfaccia di programmazione delle app di contact tracing». Ed esiste anche una collaborazione tra società private e governi, per mantenere questo regime di sor veglianza? «La collaborazione tra Apple e Google è solo l’esempio illustre più recente e internazionale di partnership pubblico-privato, tra piattaforme di tecnologia e dipartimenti del governo. Quindi, sì, questa è una tendenza forte, che si vede distintamente nell’arena della sanità pubblica, ma anche nell’a rea contigua delle smart city». Uno dei miti dell’ur ba nis tica c o nte m p o ra n ea . . . «I vantaggi delle smart city per i cittadini vanno esaminati nel contesto del bisogno di tecnologie come i sensori, il tracciamento dei telefoni, le telecamere. E ciascuna di loro dev’essere reciprocamente connessa, per ottenere il massimo beneficio possibile». Il problema dov’è? «Chi possiede e controlla i dati? Coloro che li generano, o i governi e le aziende? Questa è la domanda cruciale del XXI secolo». Anche la più inquietante… «Ed è diventata ancora più pressante durante la pandemia, vista la richiesta di “stare a casa, stare al s ic u ro”». Il lockdown. «Ciò ha senso, certo, nella prospettiva di limitare i contatti a rischio con potenziali infetti. Ma ha anche significato che la casa, lo spazio domestico, è diventato un gigantesco bersaglio per la sorveglianza di studenti, impiegati, di chi faceva shopping online, o usava il Web per intrattenimento… E se alcuni aspetti della sorveglianza direttamente facente capo al governo rimarranno in piedi dopo la pandemia, quanto a lungo resteranno le diverse forme di sorveglianza domestica da parte delle grandi società? » . In definitiva, la preoccupa di più il ruolo del capitalismo privato, o quello delle autorità pubbliche? «La minaccia più grande è una forma di connubio tra organizzazioni pubbliche e private, perché esse sono sempre più interdipend e nt i » . In cosa? «I dipartimenti del governo si basano su un’infrastruttura tecnologica, ma l’infrastruttura spesso si accompagna all’implicita, o anche all’esplicita richiesta di buone pratiche e policy». Buone pratiche che non vengono attu ate? «I governi sono refrattari a tenere a freno e limitare la raccolta, l’analisi e l’uso di dati generati dai comuni cittadini nel loro utilizzo quotidiano di smartphone, Internet e altri sistemi digitali, benché l’im - piego di tali dati spesso danneggi segmenti della popolazione già vulnerabili. Categorie alle quali, nelle democrazie, i governi dovrebbero r i s p o n d e re » . Se viviamo nell’epoca della biopolitica, dobbiamo riconoscere che essa non ha soltanto una funzione repressiva, ma anche produttiva di un nuovo ordine. Che tipo di ordine è quello della biopolitica pandemica? «La pandemia di Covid non è semplicemente produttiva di un ordine; piuttosto, rafforza il meccanismo di produzione che è stato con noi nell’era digitale - e in qualche maniera, persino da prima. Quel l’ordine, in genere, è molto condiscendente nei confronti dello sviluppo tecnologico. Oggi, lo è specialmente per via dell’appa rente “c o m o d i tà” che rende disponibile, nonché per la sua “e f f ic ie n za”». Sono due caratteristiche che non la convincono? «Entrambe possono essere messe seriamente in discussione. Ad esempio, perché nessuna è necessaria a una vita umana proficua. E l’innalzamento di tali presunti elementi desiderabili svaluta altri autentici valori e virtù umani, come l’amore e la giustizia». Nel Pa n o ptic o n , il carcere ideale progettato dal filosofo inglese Jeremy Bentham, i prigionieri sapevano di poter essere osservati in ogni momento, ma non potevano conoscere l’istante esatto in cui le guardie sbirciavano nella loro cella. Per assurdo, oggi, cittadini incensurati, formalmente liberi, sanno di essere costantemente osservati, ma se vogliono usare cellulari, ema il e computer, sono costretti ad accettare questo regime di permanente scrutinio. «Tragicamente - e in modo più accentuato in Occidente - il problema della sorveglianza è spesso percepito come un problema personale. In ballo c’è la m ia p r ivac y » .Non è così? «La privacy è importante, ma concentrarsi su di essa devia l’at - tenzione dalle dimensioni sociali della sorveglianza». Si spieghi. «Noi siamo conosciuti non in quanto individui, bensì, come ha sottolineato Gilles Deleuze, come “d iv idu i”. Il che, oggi, significa che siamo visti in quanto membri di gruppi dotati di indicatori statistici simili, gusti analoghi, certi bagagli educativi, uno specifico impiego, più, ovviamente, le rispettive posizioni razziali e di genere. La vulnerabilità è differenziale, il che emerge soprattutto in tempi di pandemia: taluni gruppi, “ra z z i a l i z zat i” e “ge n d e r i z zat i”, sono colpiti in modo più grave di altri». È in questo senso che i big data possono peggiore le condizioni economiche e sociali dei più svanta g g i ati ? «I cosiddetti big data sono un insieme di procedure per gestire vasti dataset, allo scopo di comprendere delle tendenze e formulare delle previsioni. Possono essere usati responsabilmente, per propositi meritevoli, inclusa la sanità. Ma possono essere anche usati in maniera sbagliata, o in modi tali da elaborare false assunzioni sulla loro affidabilità, neutralità o necessità » . Insomma, i dati non risolvono tutti i problemi. «Il “soluzionismo tecnologico” è ampiamente accettato in quanto credenza culturale, allorché si assume che “per quella cosa esiste una app”, o che qualche nuovo sistema o dispositivo risolve qualche problema degli esseri umani. E questo aspetto dell’im m a gi n a rio sociale è molto pericoloso…». In cosa consiste quella che lei, nel suo libro, definisce «giustizia dei dati»? «La sorveglianza serve a rendere le persone visibili, poi a rappresentarle in modi specifici; così, alla fine, le persone vengono trattate sulla base di queste rappresentazioni. La giustizia dei dati richiede che queste caratteristiche di base della sorveglianza siano messe in questione, fintantoché sono implicate in alcuni danni provocati a livello sociale». Ad esempio? «Iniquità e discriminazioni negative. Non abbiamo bisogno solo di leggi e regolamenti sulla protezione dei dati, ma anche di lavorare per un mondo in cui i dati siano per tutti e in cui essi siano raccolti e utilizzati per il bene comune». Come ci si arriva? «La società civile d ev ’essere coinvolta a ogni livello, con i dati. E le persone devono abituarsi a comprendere il ruolo cruciale che i dati giocano nelle loro decisioni, scelte e opportunità quotidiane. Abbiamo fatto affidamento troppo a lungo sui cosiddetti e s p e rt i » . Questa non è materia per esperti, insomma? «È qualcosa che andrebbe discusso nelle famiglie, nei gruppi di comunità, nei luoghi di lavoro, nelle chiese e in altri contesti religiosi!». Cosa pensa del green pass, che in Italia è stato adoperato in modo pervasivo e che, ad ora, è stato sospeso ma non cancellato? «È un tipico esempio di molte delle questioni di cui abbiamo appena parlato. Il green pass tende a produrre delle società a più livelli e a perpetuare vulnerabilità e svantaggi già esistenti, di cui soffrono i soliti noti. La sua creazione, in sostanza, è comprensibile, ma sventurata. E, in ultima istanza, non è neppure necessaria».

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