STUPIDA RAZZA

venerdì 24 giugno 2022

«La nuova generazione del rock fa paura»

 

Mandate a letto i bambini dell’Eurovision che l’alieno è tornato, a cavallo di un mostro a tre teste. Viene da un tempo lontano, senza trap e autotune, nel quale i chitarristi si sfidavano a colpi di assoli e alla musica veniva chiesto di incendiare e non di anestetizzare le coscienze. Anni sprovvisti di Internet, di poco playback e di molte prove in cantina, a perfezionare la tecnica per entrare nell’Olimpo delle sei corde, insieme a Jimi Hendrix e a tutti gli altri, senza passare da un talent show. L’ultimo dei virtuosi è una sorta di guerriero Jedi di 62 anni che non nasconde le sue cicatrici (mano e spalla, negli ultimi mesi, sono passati sotto i ferri del chirurgo). Lo chiamano il Paganini del rock perché concilia delle abilità sbalorditive al gusto della melodia e il suo nome è Steve Vai. Da quando Frank Zappa lo scoprì nel 1979 e se lo portò in squadra, dopo averlo pescato al Berklee di Boston, a 19 anni, non si è più fermato, alternando l’attività in band come Alcatrazz (al posto di Yngwie Malmsteen) e Whitesnake a quella da solista (dieci dischi all’atti - vo e una collezione di Grammy). Fino all’epopea del G3, il supergruppo con Joe Satriani (e uno a scelta tra Eric Johnson, John Petrucci e Robert Fr i p p…) che negli anni Novanta destava più attenzione di un G7 e anche di un G8. Il suo ultimo album, Invio - l ate, contiene nove tracce che non hanno speranza di passare in radio: durano molto più dei canonici tre minuti da tormentone estivo e sono sprovviste di testi e voci, perché a cantare è solo la chitarra di Vai. E a luglio (dall’1 al 5) il suo tour attraverserà l’Italia come una navicella impazzita: Udine, Macerata, Bari, Firenze, con un’ultima fermata al Vittoriale di Gabriele d’A nnunzio, a Gardone Riviera. «Non vedo l’ora», racconta Steve Vai alla Ve rità , «l’Italia è nel mio cuore per i miei genitori e per la cultura che mi hanno fatto respirare da piccolo. Non dimenticherò mai il tour del 1982 con Frank (Zap - pa, ndr)e la data di Palermo. Fu u n’esperienza sconvolgente». Anche perché finì a fumogeni e manganellate. Ma questa è u n’altra storia. Mister Vai, come le è venuto in mente di realizzare una chitarra che ha il nome - Hydra - e le sembianze di una creatura m i tol og ica? «Un giorno di sette anni fa stavo suonando un pezzo molto h e avy e ho sentito l’e s i ge n za di avere uno strumento che potesse fare molte più cose nello stesso momento. Poi ho visto il film Mad Max: Fury Ro ad e in una scena uno dei malvagi suona una chitarra avveniristica sputafuoco, sopra un camion che sfreccia nel deserto durante un inseguimento... Quando hai un’id ea , riesci a visualizzarla e capisci che è quella giusta non devi mai tornare indietro…». Teeth of the Hydra, che apre il nuovo album, è un assaggio delle sue potenzialità? «La sfida, eccitante e spaventosa allo stesso tempo, è stata proprio quella: una volta creato questo strumento in stile steampunk a tre manici (una chitarra 12 corde, con metà tastiera freatless; una da sette al centro e un basso), con l’aggiunta di un’arpa e un gui - tar synth, ho provato a comporre un brano che riuscisse a esaltarlo. Ci sono volute sei settimane di duro lavoro, in pieno lockdown». C’è chi si è dedicato alle pizze e alle torte fatte in casa… «È vero» ( rid e ) . «Attenzione però a pensare che esistano persone speciali, perché non è così. Molti hanno commentato il video del brano scrivendo: “No n riuscirò mai a fare una cosa del gen ere”. Sono esattamente questi i pensieri da scacciare: imprigionano la mente e non permettono alle persone di fare cose straordinarie». Tra pandemia e interventi chirurgici non ha avuto paura, per la salute e per la carrier a? «No, innanzitutto quando il mondo si è fermato ho seguito il flusso della vita, senza lamentarmi per gli impegni saltati. Mi sono dedicato ad altro e ho fatto delle scoperte incredibili, lavorando per esempio a una nuova tecnica di bending (pratica chitarristica che permette di modificare l’into - nazione di una nota attraverso il glissando, ndr) incrociati. E così è nata C a n dle p o w e r. Poi, visto che una mano era fuori uso, ho scritto Kn ap p sac k , un brano in cui utilizzo solo la sin i s tra » . Come il concerto per una mano sola che Maurice Ravel scrisse per un pianista mutilato in guerra. Sicuro però che non ha avuto paura? « L’esempio è molto stimol ante…» (rid e) . «Per essere onesti, devo ammettere che c’è stato un momento dopo l’operazione in cui ho pensato: “Forse la mia carriera finisce qu i”. L’idea mi ha fatto arrabbiare, ma non mi ha atterrito. E sa perché?». Me lo dica lei. «Perché non mi considero soltanto un chitarrista. La vita è molto più grande di quello che uno fa. E l’animo umano è I n vio l ate, inviolato e inviolabile. Poi, ovviamente, dopo dieci secondi, u n’altra voce mi ha detto: “Ma che aspetti, coglione? Rimettiti a suonare”. Credo di aver bisogno delle sfide e penso di aver capito come affrontarle». Cosa intende dire? «Davanti a qualunque avversità solo tu puoi decidere la prospettiva con cui starci davanti. E la modalità che scegli influirà sul risultato finale. Se vivi la vita come una vittima, lamentandoti perché fa tutto schifo, alla fine della strada troverai solo spazzatura. Passare dal “non c’è speranza” a “una speranza c’è” è una rivolu z io n e » . Non sono i ragionamenti che ci si aspetterebbe da una ro ck s ta r. «In realtà non sono sempre stato così. La mia vita è cambiata quando sono riuscito a eliminare i pensieri dannosi. A un certo punto ho capito che la qualità della mia vita dipendeva solo da me e dal modo con cui guardavo il mondo. L’altro segreto è godere di ciò che si sta facendo nel presente, senza aspettative. Chi lavora per una soddisfazione futura senza apprezzare l’istante resterà deluso. Per lo stesso motivo, io non scrivo musica per conquistare la “rock nation”, seguo solo le idee che entusiasmano me per primo». Tra tutti i mostri sacri con cui ha suonato, chi le ha insegnato di più? «Ho imparato da tutti i miei compagni di viaggio. Frank Zappa mi ha insegnato una cosa semplice ma radicale: se vuoi fare una cosa nella vita, devi farla e basta. Suonare negli Alcatrazz mi ha fatto capire cosa voglia dire lavorare in una band. David Lee Roth invece mi ha fatto vedere come si comunica con il pubblico. Prima ero abituato a suonare con Zappa, un leader che sul palco attirava tutta l’atte n z io n e…». In passato ha descritto anche l’influsso di Brian May… «Tutto è iniziato ascoltando Jimmy Page, Jimi Hendrix, Jeff Beck… Poi mi sono imbattuto in Brian May e credo che sia unico. Ho assorbito il suo modo di suonare e ora è nel mio Dna: la classe, il tocco, l’abilità con cui costruisce le sue parti di chitarra però non sono replicabili. E poi ha un cuore enorme. Non ho mai visto un musicista così generoso con i più giovani». Secondo lei l’età dell’o ro del rock e della chitarra elettrica è finita? Forse i ragazzi di oggi preferiscono i dj set agli strumenti musicali. «Fidatevi di me: l’età dell’oro della chitarra è più viva che mai. Continuo a scoprire nuovi chitarristi che fanno cose assolutamente incredibili. Forse è una realtà più underground che pop rispetto ai miei tempi, ma chi se ne frega... C’è un’enorme, intensa evoluzione del modo di suonare la chitarra su questo pianeta. E credo di essere qualificato per dire che sta accadendo di nuovo». Sui social network i suoi apprezzamenti a un giovane jazzista siciliano, Matteo Mancuso, non si contano. In Italia il grande pubblico deve ancora s c o p r i rl o… «È uno dei ragazzi a cui mi riferivo. Sta portando avanti l’evoluzione dello strumento sia nel suono, sia nella tecnica. È magnifico». E i Maneskin, le piacciono? «Non li conosco…».



Nessun commento:

Posta un commento