STUPIDA RAZZA

venerdì 17 giugno 2022

La Bce sbaglia ricetta Alza i tassi ma ignora il nodo materie prime

 

 Il 12 marzo del 2020 gli italiani vivevano il primo vero choc da pandemia. In milioni chiusi in casa, obbligati al lockdown e circondati dal suono delle sirene d’ambulanza. Quello stesso giorno Christine Lagarde, numero uno della Bce, annunciava le prime contromisure (un pacchetto da circa 120 miliardi) per tentare di evitare il collasso dell’economia sotto i colpi del Covid. Al termine della conferenza stampa ebbe a precisare che «non è compito della Bce ridurre gli spread». Ne nacque un battibecco politico durato pochi giorni. Poi tutto è tornato sotto silenzio. I continui lockdown hanno in parte contribuito a raffreddare la domanda e a tenere a bada l’inflazione che già all’epoca dava i primi cenni di risalita. Non a caso, nel 2021, al termine dei lockdown diffusi in quasi tutto il Vecchio continente e in Asia, il mostro ha iniziato la sua corsa, ben prima dell’avvio della guerra in Ucraina. Siamo così arrivati al 9 giugno. Nella consueta riunione della Bce si è consumato ciò che era atteso da tempo. Da luglio saliranno i tassi di 25 punti base. Poi a settembre di altri 50 punti, se necessario. Il solo annuncio ha prodotto subito l’effetto psicologico. Il cosiddetto «lavoro sporco» di restrizione monetaria. In questo modo si procede contro la spirale prezzi-salari da un lato e contro lo stress offerta-domanda dall’a l tro. Il rischio per l’Italia è quello di perdere un compratore decisivo che per anni si è comportato, senza esserlo, da garante di ultima istanza. Messi assieme tutti gli elementi, si comprende a distanza di oltre due anni che cosa intendesse la Laga rd e sul tema degli spread nel 2020. La Bce dovrebbe continuare a far capire al mercato che non vuole una frammentazione degli spread, facendo sapere che gli acquisti da reinvestimento potranno avvenire per classe di giurisdizione o classe di attivi. Per capirsi, potrebbero andare a scadenza i Bund o i Bonos, ma la Bce si metterebbe ad acquistare Btp. In caso di intervento drastico, cioè di acquisto esclusivo di Btp, l’Italia rischierebbe però di subire un vero e proprio salvataggio monetario con tutto ciò che ne deriva. Compreso il rischio di riportarci alla mente la Troika. Per fortuna è intervenuta ieri pomeriggio Is a bel S ch n a b el , membro del comitato Bce, per mettere una toppa alla solita La ga rd e. «Sebbene l’allocazione flessibile dei reinvestimenti del Pepp sia un modo per affrontare la frammentazione, il nostro impegno è più forte di qualsiasi strumento specifico. Il nostro impegno nei confronti dell’euro è il nostro strumento anti frammentazione. Questo impegno non ha limiti». Bene così. Purtroppo non basterà. A gettare altre nubi sulle nostre teste c’è anche la scelta della Bce di andare in scia alla Fed e, in ogni caso, di pensare che la politica monetaria sia la sola in grado di affrontare il fantasma dell’inflazione. La Fed potrebbe intervenire con un taglio fino ai 100 punti base sui tassi, puntando a una sorta di recessione. Un po’ come con i lockdown, si butta giù il mercato con l’idea di raffreddare l’intera catena dei consumi. Se la situazione dovesse però degenerare si aprirebbero ulteriori scenari. Uno per l’Italia e l’a l tro per l’intera Europa. Nel primo caso la politica filo Ue tornerà a tirar fuori dal cassetto la proposta del Mes. Con tutti i rischi che ne conseguono. Nel secondo caso, ci troveremo a scontrarci con la realtà della deglobalizzazione. Il tema monetario è infatti solo una delle due gambe della soluzione. L’altra è il controllo della filiera della produzione e dell’approvvigionamento delle materie prime. In questo momento, però, ad avere in mano le chiavi delle autostrade del gas, delle miniere di terre rare e dei campi di grano sono Russia, Cina e, in minor parte, gli Usa. L’Europa non è autosufficiente. Non ha forme di sovranità produttiva: una situazione esplosiva. Se i politici europei pensano che basti alzare i tassi (via Bce) e creare recessione per raffreddare l’inflazione, si sbagliano. L’Asia e la Russia hanno capito l’i m po rtan za dell’arma che maneggiano. Useranno i rubinetti della supply chain per azzerare gli effetti della nostra politica monetaria. Ci troveremo in recessione con prezzi alti e, a momenti, alle stelle. Nemmeno gli Usa potranno aiutarci perché saranno l’a l tra guancia della morsa. Saranno impegnati a combattere contro l’Asia e a imporre la propria filiera. È, dunque, impopolare da scrivere. Ma se non vogliamo restare appesi a decisioni altrui e impotenti nel gestire la nostra economia dovremo capire che servirà altra guerra. Purtroppo dovremo usare le armi per prendere il controllo delle materie prime. Almeno là dove l’Europa era un tempo presente. Non è una nuova forma di colonialismo. Si tratta solo di creare rapporti diretti e univoci con la Libia e i Paesi del Sahel. Siamo di fronte a una guerra economica. Non si può andare in guerra con le bandierine arcobaleno, con l’aut o elettrica o i pannelli solari. Si va per mettere in sicurezza ciò che serve per la continuità. Che sia il gas, l’ac c i a io, il litio, il grano, il frumento e il neon. La base della nostra economia. È finita l’era della Bce dei tempi di Mario Draghi. All’epoca si affrontava soltanto una guerra finanziaria. Se Bruxelles e la Laga rd e pensano di usare i vecchi schemi del passato possiamo metterci il cuore in pace. L’unico motto possibile dell’Ue sarà «ambiente e povertà». Forse inquineremo poco, ma non conteremo nu l l a .

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