Qualche giorno fa, dalle colonne del Sole 24 Ore , Sergio Fabbrini, parlando del Piano nazionale di ripresa e resilienza, ha certificato quanto già noto da tempo agli osservatori più attenti. Scrive Fa b b r i n i che il Next generation Eu (Ngeu) è teso a «istituzionalizzare un vero e proprio vincolo interno ai Paesi beneficiari» e che esso «è un programma di trasformazione (ambientale, digitale e sociale) dei Paesi beneficiari, non già di mero sostegno a questi ultimi». Il Pnrr che ne è la realizzazione concreta implica «la creazione di un framework regolativo così strutturato da condizionare i governi nazionali per i prossimi sei anni». In effetti, il decreto del ministro dell’Economia e delle finanze, Daniele Franco, del 6 agosto 2021 elenca più di 500 obiettivi legati al Pnrr, tra qualitativi e quantitativi, che dovranno essere raggiunti dai governi in carica pro tempore da qui al 2026. Tutto ciò con verifiche semestrali, il cui mancato superamento sospende l’eroga - zione dei benefici. Che il Ngeu non potesse essere considerato un semplice ristoro all’economia post Covid era abbastanza evidente, visto il ritardo con cui si è attivato (il prefinanziamento da 25 miliardi è stato versato a un anno e mezzo dai primi lockdown) e l’impatto assai modesto sul Pil, stimato dalla stessa Commissione europea in pochi punti percentuali diluiti su più anni. È un bene che anche sul maggiore quotidiano economico del Paese si prenda atto in modo esplicito che il Ngeu è una gigantesca partita di giro finanziaria che ha due precisi obiettivi: costringere i Paesi membri ad attuare le riforme imposte dall’Unione europea e indurre un sostanziale cambiamento nelle filiere industriali nazionali. Mettere da parte la fede nelle virtù taumaturgiche dell’Eu - ropa non può che giovare alla concretezza di un dibattito importante per il Paese. Il Ngeu rappresenta infatti un salto di qualità rispetto alla dottrina classica del vincolo esterno, concetto teorizzato da Guido Carlinel suo libro del 1993 Ci n q ua n t’anni di vita ital ia n a a proposito del Trattato di Maastricht. Considerando l’Italia un caso disperato, C a rl i pensava che fosse necessario legare il nostro Paese a qualche struttura sovranazionale che vincolasse l’Italia a parametri di bilancio stringenti, a politiche economiche rigorose e a un intervento puramente tecnico-regolatorio dello Stato. In questa visione, l’Unione europea con la sua moneta unica e le sue regole è il salvifico argine alla dissennatezza italiana. Si tratta di una visione dell’Italietta provinciale, furbetta e corrotta, in cui trova agio tutto il lessico moralistico e retrivo del discorso pubblico degli ultimi trent’anni: casta, cricca, familismo amorale, poltrona, clientelismo, bamboccioni, spending review, sino all’immortale assioma popolare «se so’ magnati tutto». Un apparato ideologico rilanciato per decenni dai media e dagli stessi politici, che ha avuto l’effetto di indebolire la democrazia, favorire l’aliena - zione di molte prerogative statali all’Unione europea e generare movimenti acchiappavoti in nome della lotta alla casta. Ora che abbiamo regalato a Bruxelles ampi spazi di autodeterminazione e che abbiamo visto i fustigatori di costumi divenire a loro volta casta, siamo alle prese con ciò che resta del confuso trentennio post Maastricht. Resta, appunto, il vincolo esterno, più forte che mai e che da monetario, fiscale e istituzionale, si è allargato sino a diventare industriale. Come abbiamo già scritto, il green deal lanciato in gran pompa dalla Commissione europea di Ursula Von Der L eye n è il tentativo di realizzare un nuovo terreno di competizione economica in cui l’Eu - ropa a trazione tedesca possa primeggiare. La creazione di un salto tecnologico quale è la transizione ecologica (auto elettrica in primis) impone una selezione all’interno dell’industria. Frans Timmerm an s , Commissario europeo per il clima, ha parlato espressamente di una vera e propria «rivoluzione industriale». Negli ultimi giorni, dopo mesi di inspiegabile letargo, si registra una convergenza tra sindacati e aziende della filiera automotive (oltre 2.200 aziende per quasi 50 miliardi di fatturato e oltre 160.000 lavoratori) preoccupati per la mancanza nella legge di bilancio di sostegni al settore dell’auto, già in profonda crisi. Si registrano prese di posizione allarmate anche del presidente di Confindustria, Carlo Bon om i. La transizione verso l’auto elettrica rischia di trasformarsi per l’Italia in una catastrofe occupazionale, l’e nnesima del nostro Paese. Secondo alcune analisi, in Italia circa 80.000 posti di lavoro nel settore sono a rischio scomparsa. Le nuove tecnologie e le nuove tecniche costruttive rendono obsolete ampie parti della componentistica auto tradizionale e al contempo ne riducono di molto la complessità. Basti pensare che in u n’auto elettrica i componenti necessari sono un settimo di quelli di un’auto con motore a combustione interna. La filiera automotive italiana è fortemente integrata con il settore auto tedesco, che sta puntando decisamente sui veicoli elettrici con centinaia di miliardi di investimenti e obiettivi ambiziosi; dunque il rischio è più che concreto. Da poco le maggiori case automobilistiche tedesche hanno costituito un consorzio (Catena X) per la creazione di una piattaforma digitale di scambio dati tra gli operatori della filiera. Restare fuori dal consorzio significa perdere l’accesso al mercato mondiale, quindi le imprese italiane devono rincorrere e adeguarsi. L’Europa, il mercato, i tedeschi, non aspettano. A fronte di questo shock in arrivo, il Governo sembra reagire con poca v e r v e. Né il Pnrr né la legge di Bilancio prevedono forme di sostegno al settore ed è a fronte di questo disinteresse che le associazioni di categoria e i sindacati lamentano la «totale assenza nella legge di Bilancio di misure per tare la transizione ecologica ed energetica» che «condanna l’industria e i lavoratori dell’automotive ad una crisi d ra m m at ic a » . Rispondendo ad una interrogazione parlamentare, qualche giorno fa il ministro Gian - carlo Giorgettiha detto che intende proporre modifiche al Fit for 55 per tenere conto delle specificità italiane in questo settore. Ma per ora non si va al di là di generiche dichiarazioni di intenti. Il vincolo esterno industriale europeo, imposto attraverso il green deal e il Ngeu, comincia ad operare. Ecco perché è importante prendere atto della realtà e dismettere le posizioni di ingenuo europeismo, che fanno pensare a un celebre pezzo di Giorgio Gaber, qui parafrasato: Qualcuno era europeista perché glielo avevano detto, qualcuno era europeista perché non gli avevano detto tutt o.
NEL 2012 NON CI SARA' LA FINE DEL MONDO IN SENSO APOCALITTICO,MA UN CAMBIAMENTO A LIVELLO POLITICO ED ECONOMICO/FINANZIARIO. SPERIAMO CHE QUESTA CRISI SISTEMICA ,CI FACCIA FINALMENTE APRIRE GLI OCCHI SUL "PROGRESSO MATERIALE:BEN-AVERE""ECONOMIA DI MERCATO" FIN QUI RAGGIUNTO E SPERARE IN UN ALTRETTANTO "PROGRESSO SPIRITUALE:BEN-ESSERE"ECONOMIA DEL DONO,IN MODO DA EQUILIBRARE IL TUTTO PER COMPLETARE L'ESSERE UMANO:"FELICITA' NELLA SUA COMPLETEZZA".
STUPIDA RAZZA
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