NEL 2012 NON CI SARA' LA FINE DEL MONDO IN SENSO APOCALITTICO,MA UN CAMBIAMENTO A LIVELLO POLITICO ED ECONOMICO/FINANZIARIO. SPERIAMO CHE QUESTA CRISI SISTEMICA ,CI FACCIA FINALMENTE APRIRE GLI OCCHI SUL "PROGRESSO MATERIALE:BEN-AVERE""ECONOMIA DI MERCATO" FIN QUI RAGGIUNTO E SPERARE IN UN ALTRETTANTO "PROGRESSO SPIRITUALE:BEN-ESSERE"ECONOMIA DEL DONO,IN MODO DA EQUILIBRARE IL TUTTO PER COMPLETARE L'ESSERE UMANO:"FELICITA' NELLA SUA COMPLETEZZA".
STUPIDA RAZZA
mercoledì 1 dicembre 2021
«Troppe tasse, così non resistiamo»
Ha scelto un tempio della cucina di
territorio, non di
quelli da show televisivo per festeggiare
con la brigata i suoi
70 anni. Si è rintanato a Velletri
da Benito al Bosco. Ha replicato
due sere fa a casa sua, Casa Vissani, lì sulle rive del lago di Baschi
dove tutto è cominciato, dove tutto si è compiuto. C’erano gli amici
più stretti, non la politica che pure lo ha adulato e aiutato, ma dalla
quale si è sentito tradito fino al
punto di vestire i panni del capopopolo durante le chiusure causa
virus cinese. Ce ne ha e ne ha
avute per tutti: dalle donne, ai
vegani, passando per il fisco e il
governo fino a dire alle famiglie
che la devono smettere di coccolare i figli. Potesse, metterebbe le
lancette dell’orologio anni indietro: non ha rimpianti, ma si trova
a disagio nel tempo presente.
Gianfranco Vissani, un cognome ereditato dalle suore che battezzarono così il nonno raccolto
dalla ruota degli orfani, una vita
spesa dietro i fornelli e davanti
alle telecamere, un carattere ingombrante come il suo fisico: un
metro e novanta per 130 chili (a
seconda dei periodi di dieta). Nato il 22 novembre 1951 a Civitella
del Lago dove l’Umbria è quasi
Maremma e il Medioevo una scatola di pietra da abitare, ha cominciato a lavorare a 15 anni, nel
1966. Scarpe rosse e talento sopraffino, Vissani è stato il primo
cuoco star. Ha esordito in televisione - da Linea verde alla P ro va
del cuoco per citare due dei suoi
maggiori successi - interpretando sé stesso, è rimasto invischiato
nel personaggio salvo tornare a
rivendicare libertà di pensiero, di
azione gastronomica e di brutto
carattere. Dovremmo chiamarlo
«quasi» dottore: l’Università di
Camerino gli conferì ad honorem
uno speciale diploma. Ha firmato
molti best seller gastronomici.
Ha giurato di dire a La Verità tutt a
la verità.
Settanta sono tanti o sono pochi, Gianfranco?
«Gianfranco si sente un pischello, sto benissimo e ho tanta
energia. Vissani imprenditore si
sente fiaccato dalle tasse, dalle
chiusure incomprensibili, dalle
troppe difficoltà che incontriamo ogni giorno. Domani, dopo un
anno e mezzo di chiusure, scadono le cartelle della rottamazione
e altri balzelli per decine di migliaia di euro. Hanno deciso di
farci chiudere. A Draghi ho fatto
un appello per dire che così uccidono la ristorazione. Si troveranno con un deserto di fallimenti. E
se ci fanno altre chiusure è davvero la fine. Io sto a Baschi, mica a
Roma o a Milano. Abbiamo ridotto i tavoli a 8 anche perché si fa
fatica a trovare il personale giusto e se non lavoriamo a pieno
regime con i costi non ce la si
fa».
Un Vissani ancora alla testa
della protesta?
«Non è una protesta, è il conto di come stiamo messi. Il gas
è triplicato, l’energia ce la facciamo da soli perché siamo attenti
all’ambiente, ma i costi lievitano
continuamente e le difficoltà aumentano. Mi chiedo se è chiaro a
tutti che i contadini non ce la
fanno, gli allevatori non ce la fanno, i nostri fornitori stentano. E
c’è la faccenda del personale: in
parte il reddito di cittadinanza e
in parte però anche le famiglie
che questi figli li coccolano non ci
fanno trovare ragazzi e ragazze
che hanno desiderio di imparare
un mestiere, di costruirsi la vita
con il lavoro. Ai miei tempi non
era così».
C o m’e ra?
«Si studiava, si faceva
fatica, s’imparava il mestiere senza chiedere
quando si smette e quanto
si guadagna».
Gianfranco Vissani è
stato facilitato, aveva tutto in famiglia?
«Facilitato? Partiamo
da mio nonno: un trovatello nato a Pitigliano in
Maremma che si è fermato a Baschi perché non
aveva i soldi per farsi traghettare sul Tevere verso
Roma. Arriviamo a Mario,
il mio babbo che insieme a
mia mamma Eleonora
(Castellani) s’ingegnano a
continuare il mestiere del nonno:
fare da mangiare a chi passa per
strada. Nacque “Da Mario” che
diventò la Taverna del Lago e infine “Il Padrino”. Era uscito il film e
Mario si voleva lanciare nella notorietà per gli stranieri. In fin dei
conti era un po’ un Robin Hood:
pigliava dai ricchi (il conto) per
dare ai poveri, i contadini da cui
comprava. Quand’ero piccolo
non mi potevo sedere sul divano o
a tavola perché ovunque in casa
c’erano le sfoglie di pasta tirate
dalla mamma che le copriva col
Così mi decisi a rinnovare il menù
della nostra trattoria e cominciai
a fare il pesce. Mi alzavo alle 4 per
andare al mercato a Roma. E davo
scandalo ai miei perché se avanzava qualcosa lo buttavo via. Non
ce la facevo: per una vita mi avevano dato da mangiare gli avanzi,
i miei clienti dovevano avere tutto
freschissimo. Fu un’e sp los ion e.
Un signore di Todi, il Mencacci,
mi disse: “Parla coi giornali”. Da lì
arrivarono le guide. D’Amato con
l’Es p resso, poi Raspelli. D’A m ato
mi mise a pari di Pinchiorri perché non poteva essere così giovane il primo ristorante d’Italia. Raspelli arrivò a darmi 19,6/20 un
primato assoluto e per trent’anni
sono stato il migliore ristorante d’Italia per l’Es p resso. E poi anche le due
stelle Michelin. Per me
parla la mia storia: da ragazzetto nel 1969 lavorando con l’Italcementi e
prendevo 177.000 lire, era
uno sproposito, ma avevano capito che li valevo».
Ora di stelle ne è rimasta una sola. Deluso?
«Rispondo con Emile
Peynaud, il re del vino
mondiale, che scrive: la
qualità dei vini la fanno i
degustatori, ma la qualità
dei degustatori chi la fa?
Ci sarebbe molto da dire
sui giudizi delle guide oggi come
sugli influencer: vengono, mangiano, non sanno nulla, fanno le
foto e riducono il piatto a pornografia. È il segno del decadimento. Gualtiero Marchesi rifiutò le
stelle: sbagliò i tempi, ma aveva
ra g io n e » .
E com’è nata la storia del cuoco
di D’Ale m a?
«Sono stato il cuoco della prima e della seconda Repubblica,
sulla terza non mi pronuncio. Da
me sono venuti tutti. Una volta si
è affacciato Enrico Berlinguer
lenzuolo. Io ho cominciato così.
Vedendo i miei. Sono andato a
Spoleto all’alberghiero e lì ho incontrato il professor Dornetto,
quello di tecnica che mi disse che
ero bravo. Avevo voglia di fare,
così dopo il diploma sono partito
in giro per l’Italia a imparare».
Tappe fondamentali?
«Roma da Checco il Carrettiere, poi il Majestic a Firenze, il
Miramonti a Cortina, ho aperto
anche il ristorante dell’albergo di
Visso e ho pianto quando l’ho visto distrutto dal terremoto. Allo
Zio d’America a Roma diventai
capo cuoco e avevo poco più di
ve nt’anni: ne avevo 19 sotto di
me».
Perché poi tutto è successo a
B a s ch i ?
«Tornavo da Venezia e avevo
telefonato se mi potevano venire
a prendere alla stazione a Perugia. Mio padre sentenziò che aveva finito i soldi. Io ero tornato per
partire per Londra, ma mamma
si mise a piangere e allora dissi:
“Resto per un po’”. Qui si ballava e
c’era una ragazza, una certa Tosca di Firenze che veniva tutte le
domeniche, voleva che ci fidanzassimo, ma io ero imbranato. E
pensavo di fare qualcosa di mio.con 35 altri politici e c’erano gli
agenti al seguito. Mi venivano a
frugare nei frigoriferi e li ho sbattuti fuori dalla cucina. Berlinguer
mi fece i complimenti e tornava
con la famiglia. Un mio grande
amico è stato Gerardo Bianco e
sono stato legato a Gianni De Michelis, mi piaceva come uomo di
cultura, come stile. Posso dire
che negli anni della massima frizione sono stato in grado di far
fare pace a socialisti e comunisti.
Con Massimo D’Alema è nata
u n’amicizia perché lui venne a
mangiare e alzandosi mi disse:
pensavo che qui piovesse, ma ha
grandinato! Ci mettemmo a parlare e compresi che era un uomo
sincero, appassionato di cucina e
di agricoltura e ci fu intesa. Lui
mi fece conoscere Gianni Letta:
riuscivo a mettere a tavola i politici anche di diversi schieramenti
facendo stemperare le loro ruggini con i miei piatti. Questa è la
magia della cucina».
Vissani e le polemiche con i
vegani, con le donne che non tengono i ritmi della cucina?
«Non sopporto i luoghi comuni, non sopporto che non si possa
dire ciò che si pensa. La cucina è
cultura e identità e io difendo la
mia cultura e la mia identità con
la mia cucina».
Oggi il dominus di Casa Vissani
però è Luca, il figlio che dà del lei
a Gianfranco: perché?
«Luca è fatto così: tende alla
perfezione. È lui che gestisce Casa Vissani, è bravissimo nelle
scelte, sa dialogare con i nuovi
media e mi dà la libertà di tornare
a creare in cucina. È un uomo che
ha rispetto di tutti, da quando si è
sposato con Veronica è ancora
più attaccato ai valori della famiglia. Del resto la mia brigata è una
famiglia. C’è Mori, il mio souschef, che sta con me da più di
tre nt’anni e conosce tutto dei
miei piatti. Una brigata come
questa non la improvvisi, ecco
perché mi sono tanto arrabbiato
per le chiusure. Questi sono patrimoni che rischi di disperdere » .
In ultimo: che futuro c’è per la
cuc i n a?
«Se va avanti così, poco: ci sono
questi cuochetti che fanno le star
e non sanno andare più in là di
una tavola calda. Ci sono questi
ragazzotti che servono in sala
convinti che si possa staccare a
una certa ora. Non c’è cultura del
territorio, della tradizione. Io
credo di avere fatto una cucina
molto innovativa, ma sono sempre tornato alle origini perché è
dal nostro patrimonio territoriale che devi pigliare il meglio. Ma
devi conoscerlo: devi faticare ed
essere umile. Poi devi avere le
condizioni per lavorare bene:
non questo green pass che devi
controllare, non questi che ti
bloccano tutto. Siamo arrivati a
stare aperti solo dal giovedì alla
domenica e dovremo alzare i
prezzi perché diversamente non
ce la si fa con i costi, ma è un
peccato. Chiudere un ristorante
che fa alta cucina è come chiudere un museo».
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