STUPIDA RAZZA

giovedì 25 novembre 2021

Gli «architetti» dell’ordine sanitario erigono macerie

 

Apprendo che in Alto Adige, dove già la primavera scorsa si sperimentava un «Corona pass» in anteprima nazionale, si imporranno regole molto più severe alle famiglie che scelgono di formare i propri figli secondo i principi dell’i struz io ne «parentale». Cittadino anc h’io dell’era che giura di non muover dito senza i conforti delle «evidenze», ho cercato nella ragguardevole letteratura scientifica sul tema a quali gravi tare culturali, affettive e sociali andrebbero incontro i piccoli h o m esc h o o le r. Ma non ho trovato nulla del genere, anzi. In compenso ho letto negli stessi giorni una raffica di titoli-fotocopia sulle scuole «clandestine» in cui troverebbero rifugio «soprattutto famiglie no mask» e che starebbero proliferando in tutto il Paese, con in testa l’ex provincia asburgica. Quanti sono i giovani «clandestini» in questione? A occhio e croce, meno degli articoli in cui se ne parla. Nella provincia autonoma dove il fenomeno è più diffuso si tratterebbe di 544 (cinquecentoquarantaquattro) bambini: lo 0,7% della popolazione scolastica. Eppure per la deputata bolzanina e totiana M ich a el a Biancofiore si tratta invece di un «boom» a cui «stiamo assistendo inermi», un proliferare di azioni «che minano la cultura, la coesione sociale, l’ordine pubblico (sic ) e la salute». Su che basi lancia queste accuse, quali le fonti, le testimonianze? Non lo dice. L’«involuzione culturale» degli scolari «sottratti alla socializzazione» è «evidente» a lei, e tanto ci basti. In un’altra era geologica del nostro sentire avremmo apprezzato l’ironia di multare chi definisce «clandestine» le persone che si introducono illegalmente nel nostro Paese e di accettare che lo si dica invece di chi esercita un’att iv i tà prevista dalla legge, nel rispetto della legge. Ma oggi sembra normale. Sarebbe legale anche occupare le piazze per manifestare il proprio dissenso, ma da quando lo fanno anche i «no green pass» sono diventate «sempre più tossiche per la nostra democrazia», ha spiegato un senatore «orgogliosamente antifascis ta » . Sviluppi come questi preoccupano, ma non sorprendono. Li avevano già previsti i «complottisti» che, come ha osservato non troppo scherzosamente qualcuno, ultimamente sembrano azzeccarle tutte. Dopo quasi 80 anni di relativa democrazia è difficile digerire oggi l’i p ote s i di un governo così accanito verso i propri cittadini, eppure non è raro che accada, è stato ad esempio il caso di molte dominazioni straniere. Il mondo di oggi, i cui tanti governi eseguono a una voce i dettati di pochi padroni sovranazionali, potrebbe integrare il caso particolare di un colonialismo globale senza colonizzatore locale. O più che particolare, potrebbe anche trattarsi dell’ul - tima epifania di una norma che serpeggia fin dagli albori della modernità, la cui prima matrice politica non è la Con - vention nationale, il teatrino rivoluzionario dove destra e sinistra si bisticciavano sui seggi mentre marciavano uniti contro i martiri della Vandea. Quell’antesignano delle nostre democrazie non fu invece che la dialettizzazione cosmetica di un progenitore più schietto, del dispotismo illuminato dei philosophes che al popolo può tutt’al più concedere l’inchino del paternalismo volterriano: «Tout pour le peuple, rien par le peuple». In tempi di crisi questa contraddizione genetica riemerge come una malattia mai sopita, perché incurabile. Anni fa denunciavo le avvisaglie di una sua ricaduta nel diffondersi del concetto di «populismo» che, liquidata ogni parafrasi, storpiava la sovranità scritta nella nostra Carta in un dispregiativo da cui distanziarsi. La retorica delle «riforme» ha dato corpo a questa accezione intendendo l’i nte r ve nto politico come una frustrazione necessaria del mandato, un farsi vanto delle «scelte impopolari» e del cavare «lacrime e sangue» dalla gente, di costringerla, rieducarla e punirla. Di questa genitura, ciò a cui stiamo assistendo è l’indiscu - tibile trionfo. Eppure, per essere un trionfo è ben triste. Dove sono le fanfare e i tripudi di ogni degno regime? Dove suonano le trombe della propaganda, chi magnifica le sorti progressive, proprio ora che bussano a ll ’uscio? Mentre l’ar m ata globale avanza schiacciando ogni ostacolo, si fa più fitto il buio di un crepuscolo paralizzante. Si vive ogni giorno sotto il tallone di qualche nuova minaccia e le uniche vittorie che riusciamo a cantare è che... poteva andar peggio. I territori conquistati non li si guarda nemmeno, contano solo i fazzoletti di terra non ancora aggiogati. Il bicchiere è sempre mezzo vuoto, mancasse solo una goccia, sicché non è mai tempo di festa: più si vince e più si teme il nemico, più lo si schiaccia e più se ne esalta con rabbia il pericolo. Qualcuno ha evocato i toni lugubri della distopia orwelliana, il cui onnipotente Partito investiva ogni energia per terrorizzare, sorvegliare e confondere la popolazione, ne reprimeva anche i pensieri e la addestrava ogni giorno a odiare un nemico. Se quel modello di dominazione in malo, che punta cioè tutto sulla paura dei peggiori e del peggio e che, non volendo offrire alcunché, può perciò solo togliere o minacciare di togliere, se quel modello vive oggi nello stile e nelle intenzioni, occorre però chiedersi quanto sia esso sostenibile nella realtà non letteraria e dove possa parare, se a un punto di riposo o rottura. Leggendo gli eventi, appare infatti chiaro che al crescere della violenza crescano di continuo le resistenze, e che queste chiamino di continuo violenza, sicché è difficile credere nell’assesta - mento più o meno pacifico di un nuovo sistema. I primi dubbi sulla solidità dell’«ipotesi 1984» risalgono alla pubblicazione del libro. In una famosa lettera indirizzata al collega più giovane, A l d ou s Huxley riconosceva sì nel «sadismo» dei reggenti di Oceania la «logica conclusione» di una rivoluzione che partendo da Robespierre e Babeuf «mi - ra alla sovversione totale della psicologia e della fisiologia dell’individuo», ma si diceva scettico sul fatto che «la politica dello stivale-che-calpestail-volto possa andare avanti all’infinito». Per Hu x l ey, non si poteva aggirare il problema del «consent of the ruled», il consenso dei dominati che, spiegava in un’intervista televisiva del 1958, sarà piuttosto assicurato dalle nuove tecniche di propaganda suggerite dalla pubblicità commerciale con cui «bypassare il lato razionale dell’uomo e appellarsi direttamente alle sue forze inconsce» in modo non direttamente violento. Per rendere i sudditi «felici sotto il nuovo regime [o almeno] in situazioni in cui non dovrebbero esserlo» sarà fondamentale, prevedeva, l’apporto dei nuovi ritrovati tecnici: da un lato degli «apparecchi tecnologici che tutti desiderano utilizzare [e che] possono accelerare questo processo di sottrazione della libertà e di imposizione del controllo», dall’al tro della «rivoluzione farmacologica in corso... potenti sostanze in grado di alterare la mente quasi senza effetti fisiologici collaterali». In effetti, alcune di queste strategie sono diventate pietre angolari della gestione odierna del consenso, dallo stile tanto martellante e suggestivo quanto povero di ragionamento delle campagne di «sensibilizzazione» alle onnipresenti tecnologie digitali che agiscono sia come anestetico della socialità sia come strumento panottico di sorveglianza globale. Per quanto ci è dato sapere, mancano invece gli indizi di un condizionamento psicochimico in larga scala, benché la medicalizzazione reiterata e universale su cui si insiste oggi con così tanta ossessione renderebbe per la prima volta praticabile un siffatto intervento, almeno in potenza. È significativo che nel romanzo distopico di Hu - x l ey, Brave new world, la scure della repressione si abbatta sui dissidenti solo dopo aver tentato di impedire la distribuzione del «soma», la droga di Stato con cui il governo mondiale manteneva soggiogati e «felici» i cittadini. Secondo alcuni commentatori la prospettiva huxleriana non sostituisce quella del collega, ma la integra, il bastone della repressione avrebbe cioè il ruolo di spingere sempre più persone verso la carota del condizionamento. Sennonché oggi accade l’i nve r s o: la carota perde appeal e il bastone picchia sempre più duro. Gli scenari possibili sembrano dunque tendere alla crisi più che alla normalizzazione. Ma fino a che punto? Una persecuzione aperta, una recessione, un collasso, una rivoluzione «colorata», una guerra propedeutica alla legge marziale? E quanto l’esa - sperazione delle piazze è un intoppo, quanto piuttosto un coltivato pretesto? Non lo sappiamo. Ma l’idea che all’«ulti - ma rivoluzione» potrebbero non bastare gli strumenti sin qui affinati, e che debba perciò reclamare un reset anche fisico, non era certo estranea ad Hu x l ey, la cui lettera si concludeva con l’ammissione che «nel frattempo, naturalmente, potrebbe scoppiare una guerra biologica e nucleare di vaste dimensioni, nel qual caso avremo incubi di altro genere e difficili da immaginare » . Una conclusione piuttosto sconcertante che sconfessa l’ineluttabilità del processo e suggerisce al contrario che i grandi architetti, i costruttori di un progresso lontano dagli uomini e da Dio riescano solo a seminare il deserto, che il loro edificare sia precisamente e soltanto un distruggere. Alla fine - ma solo alla fine - è una buona notizia.

Nessun commento:

Posta un commento