La Scienza deve trionfare, dicono i più. In questi giorni si firmano addirittura grottesche petizioni su Change.org «a favore della scienza», come se essa fosse un movimento politico. Del resto c’è stato persino un partito che qualche tempo fa diffuse alcuni manifesti con uno slogan surreale: «Vota la scienza, scegli il Pd». La Scienza è divenuta, nell’o pin io ne dominante, una sorta di monolite, una sorta di centrale di controllo che impartisce ordini e snocciola dogmi. Tutte le restrizioni alla libertà personale sono state disposte proprio basandosi su questi presunti diktat scientifici. Sembra che i più abbiano ripreso a inginocchiarsi di fronte agli altari della dea Ragione celebrata dagli illuministi più fanatici, alcuni dei quali finirono poi - inevitabilmente - a bagnarsi nel sangue sparso dal Terrore. Che la ragione sia un attributo fondamentale degli esseri umani è fuori di dubbio. Persino l’apparentemente eterna diatriba tra ragione e fede è stata risolta, decenni fa, da Jo - seph Ratzinger, il quale ha mirabilmente mostrato come anche attraverso la ratio si possa arrivare a credere. Il punto, semmai, è l’abuso che si fa - oggi in particolare - della ragione e di tutto ciò che da essa deriva, in primis la scienza. Non si è affermata soltanto l’idea secondo cui tutto sia calcolabile e misurabile, ma - appunto - anche la convinzione secondo cui tale misurazione debba essere per forza esatta, e immodificabile. Abbiamo eliminato quella che Eric Voegelinindicava come «la possibilità di fare domande», dunque abbiamo sradicato il dubbio, la ricerca, e la disponibilità alla discussione, i quali pure sono determinanti affinché la ragione possa operare. A far sorgere qualche crepa nelle statuette votive della dea Ragione, grazie al cielo, contribuisce un balsamico libretto appena pubblicato dall’edito - re Cantagalli intitolato Il lavoro della ragione, ben curato da Giuseppe Fidelibus. L’autore è Charles Péguy (1873-1914), letterato, filosofo e polemista dinamitardo francese che non sarà mai abbastanza letto e studiato. Tra le sue tante doti c’è quella di essere stato uno dei maggiori critici della modernità. È stato probabilmente il primo a intuire il carattere «liquido» della nostra epoca. Nella modernità, diceva Pé - g uy, tutto si piega, tutto è malleabile. In sostanza, l’uo mo può (o pensa di potere) plasmare tutto: la materia che lo circonda, l’universo e persino sé stesso. In questo senso il «mondo liquido» contemporaneo si oppone a quello solido, definito e fatto di limiti e confini che caratterizza le epoche trad i z io n a l i . «Durante i secoli», scriveva, «l ’umanità, tutte le umanità, tutte le particolari umanità, insieme o separatamente, tutta l’intera umanità totale ha lavorato una materia che non solo resisteva, ma che comandava, che esigeva rispetto […]. Ai giorni nostri un’umanità moderna è libera. È libera di lavorare una materia moderna relativamente facile, intercambiabile, prostituzionale, che può servire a tutto e a tutti, una materia puttana». Già: l’uma - nità pensa di poter dominare, ricreare il mondo tramite la ragione. Ma il rischio più grande è che della ragione si finisca per abusare. Ecco allora che Pé guy tenta di metterci in guardia, provando a piantare qualche paletto. Le sue frasi, in questi giorni di follia, risultano balsamiche. «Voler assicurare il trionfo della ragione con i mezzi dell’autorità significherebbe tradire la ragione, far sragionare la ragione», attacca il francese, cogliendo esattamente ciò che - purtroppo per noi - sta accadendo sotto i nostri occhi. «Voler stabilire un governo della ragione significherebbe venire meno alla ragione», prosegue il nostro «incontemporaneo» (così lo ha definito Alain Finkielkraut in un mirabile saggio pubblicato anni fa da Lindau). Citiamo ancora: «La ragione ignora totalmente l’obbedien - za passiva. Voler assicurare la vittoria della ragione mediante la disciplina, che costituisce la forza principale degli eserciti, significherebbe tradire la ragione. Significherebbe far sragionare la ragione insegnarla con i mezzi e i modi militari. La ragione non chiede, non accetta l’obbedienza». Pé - guy scriveva queste righe nel 1901, e parlando di «mezzi autoritari» pensava al socialismo: fu profetico, al solito. Ma sembra proprio che oggi si voglia giungere alla stessa meta, al l’imposizione della «ragione» (o presunta tale) con una sorta di dispotismo. Di questi tempi si vuole colpire o «comprimere la libertà» di coloro che, evidentemente, «non ragionano». E chi tenta di dissentire viene silenziato, a partire dagli intellettuali. Eppure, ammoniva Pé guy, «la giustizia, la ragione e la buona amministrazione del lavoro esigono che gli intellettuali non siano né governanti né governati. Esigono che essi siano modestamente liberi, come tutti gli a l tr i » . La modernità che tutto plasma e si crede onnipotente, finisce per renderci meno umani e, soprattutto, meno liberi. Succedeva ieri, accade anche oggi. Per questo occorre rileggere le parole di Pé guy ancora e ancora, e unirsi al suo inno alla libertà di pensiero: «Vogliamo salvare ciò che ha di umano l’umanità presente. Soprattutto, evitiamo di infliggere all’uma - nità presente l’offesa più grave, che è quella di volerla amm ae s tra re » .
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