I n u t i l e n a -
s c o n d e r l o : l a
Cop26, la confe-
renza sul clima
inaugurata ieri a
Glasgow, molto
probabilmente si rivelerà un
fallimento. Non serve essere
delle menti particolarmente
illuminate per prevederlo: le
assenze eccellenti del presi-
dente cinese Xi Jinping e il
suo omologo russo V l ad i m i r
Puti n , leader di due tra i
quattro Paesi maggiori pro-
duttori di emissioni di carbo-
nio, trasformano quello che
sarebbe dovuto essere nelle
intenzioni iniziali il vertice
sul clima più importante do-
po quello di Parigi del 2015 in
un semplice incontro tra ca-
pi di Stato e di governo. Il cui
unico intento sembra oramai
essere quello di salvare le ap-
pa re n ze.
D’altronde, bastava segui-
re i lavori di scrittura del co-
municato finale del G20, te-
nuto a Roma questo week
end per rendersi conto dell’i-
nesorabile debacle della nar-
rativa ambientalista: se in-
fatti nella bozza iniziale di
venerdì si menzionava l’o-
biettivo di interrompere im-
mediatamente la costruzio-
ne di nuovi impianti alimen-
tati a carbone, nella versione
finale di domenica si ripiega-
va su un più generico impe-
gno volontario, senza neppu-
re indicare una data di riferi-
mento. La realpolitik, insom-
ma, ha già ceduto il passo
all’ideologia che di danni già
ne ha fatti parecchi: proprio i
piani zelanti di riduzione
delle emissioni di CO2, con-
tribuendo ai disinvestimenti
in nuova capacità estrattiva
da parte delle major petroli-
fere e minerarie, sono alla
base della crisi energetica
che a inizio ottobre ha inve-
stito Cina, Regno Unito e
Unione Europea e che rischia
di riproporsi il prossimo in-
ve r n o.
A parlare sono i fatti. In
Cina la dismissione delle mi-
niere di carbone in atto dal
2016 accompagnata all’e c-
cessivo affidamento alle fon-
ti rinnovabili, in particolare
idroelettrica, in un anno ca-
ratterizzato dalla siccità, ha
innescato un vero e proprio
power crunch che da agosto
sta mettendo in ginocchio il
comparto manifatturiero,
tanto da spingerlo alle soglie
della recessione nel terzo tri-
mestre con un effetto a va-
langa sul settore industriale
mondiale, se pensiamo al-
l’impennata del 200% del
prezzo di materiali come il magnesio e il silicio. La rea-zione del governo di Pechino
non si è fatta attendere, tanto
che nel giro di poche settima-
ne ha sconfessato gli ambi-
ziosi piani climatici, annun-
ciando la riapertura delle mi-
niere di carbone per un tota-
le di 160 milioni di tonnella-
te. Il risultato si tradurrà in
un impegno a ridurre le CO2
molto più blando di quello
promesso: arrivare alla neu-
tralità climatica nel 2060.
Che è un po’ come dire: «poi
vedremo». Sulla stessa lun-
ghezza d’onda anche la Rus-
sia che però, essendo Paese
produttore di gas e petrolio,
non ha ovviamente fretta nel
ridurre le emissioni di carbo-
nio. Inoltre a Mosca il riscal-
damento climatico rappre-
senta una grande opportuni-
tà sul piano geostrategico
perché contribuisce a scio-
gliere i ghiacci nella regione
artica, rendendo così molto
più semplici sia la navigazio-
ne che l’estrazione di metal-
li. Va anche detto però, a onor
del vero, che chiedere a un
Paese caratterizzato da in-
verno particolarmente fred-
di di riscaldare 140 milioni di
persone con fonti rinnovabili
n o n p u ò r a p p r e s e n t a r e
u n’opzione valida. A cadere
nella crisi energetica a inizio
ottobre è anche l’India, Paese
che dipende per il 66% dal
carbone per la fornitura di
elettricità e che ha assistito
allo spegnimento di 70 delle
135 centrali elettriche del
Paese. Ieri Narendra Modi ha
annunciato che l’obbiett ivo
sono le zero emissioni entro
il... 2070!
Ma anche nel Vecchio Con-
tinente in realtà i danni com-
messi dall’adozione sfrenata di politiche green non sono
da meno, se pensiamo al rag-
giungimento del prezzo del
gas che ha toccato il mese
scorso picchi di 150 euro/me-
gawattora anche a causa del-
la bassa generazione di ener-
gia dalle fonti eoliche e nu-
cleare in Germania e nel Re-
gno Unito (la Francia ringra-
zia). Ma l’Ue, come sappia-
mo, ha fatto del verde una ragione esistenziale del pro-
prio modello economico. Più
interessante è invece la posi-
zione degli Usa, che da un
lato sostengono le politiche
climatiche ma dall’altro im-
plorano l’Opec di alzare la
produzione di petrolio per
abbassare i prezzi della ben-
zina che, veleggiando sui li-
velli record, rischiano di ri-
servare qualche sorpresa
sgradita a B id e n alle prossi-
me elezioni di mid-term.
La domanda che viene
spontanea dunque è: se i 4
maggiori produttori di CO2
del pianeta abiurano o so-
stengono solo a parole i piani
di contenimento delle emis-
sioni di carbonio come si può
considerare seria l’i m pa l c a -
tura complessiva dei piani
climatici? In primo luogo va
evidenziato come il fallimen-
to del multilateralismo sul
fronte della riduzione delle
CO2 non mette una pietra
tombale sulle politiche cli-
matiche tout court ma sul
principio di privare una fa-
scia cospicua della popola-
zione mondiale di fonti stabi-
li e affidabili di approvvigio-
namento energetico. Pensa-
re di perseguire politiche an-
ti inquinamento agendo sul-
la restrizione dell’offerta è
infatti rivelata una strategia
fallimentare in quanto oltre
ad alimentare la corsa al rial-
zo dei beni energetici favo-
rendo la speculazione finan-
ziaria, trasferisce la produ-
zione di energie fossili nei
Paesi non allineati, aumen-
tandone il potere contrattua-
le (come sta dimostrando il
braccio di ferro tra Russia ed
Europa su gas).
In secondo luogo va detto
come la questione climatica
offra un pretesto per intra-
prendere nuove forme di
guerre commerciali. La ri-
prova è giunta con l’ac c o rd o
tra Washington e Bruxelles
annunciato al termine del
G20 al fine di eliminare i dazi
su acciaio e alluminio. L’ac -
cordo serviva come il pane
agli Usa che proprio per ra-
gioni elettorali necessitano
di raffreddare il prezzo degli
acciai giunto a 2.000 dollari
la tonnellata per i laminati a
caldo. L’intenzione di B id e n è
infatti quella di provocare lo
sgonfiamento dei prezzi nel
mercato Usa favorendo l’im-
port dall’Ue dove i prezzi so-
no più bassi di circa 700 dol-
lari la tonnellata. Il provvedi-
mento ha grandi sostenitori
anche in Europa tra cui le
acciaierie attratte dai livelli
di prezzi nel mercato ameri-
cano. Tuttavia, il diavolo è nei
dettagli. L’aver infatti inseri-
to l’accordo commerciale al-
l’interno dell’ampio dossier
sul clima di fatto allontana
l’ipotesi che Bruxelles possa
a sua volta riformare il siste-
ma delle quote all’import che
impedisce oggi all’ac c i aio
asiatico e turco di entrare in
Europa, alimentando la gra-
ve carenza che contraddi-
stingue il mercato. Si tratta
di un cambio di paradigma di
cui il governo italiano deve
essere consapevole al fine di
farsi portatore a Bruxelles di
una revisione strutturale del
sistema delle quote che da un
lato soddisfi i requisiti del
nuovo «corso climatico», ma
dall’altro scongiuri quelle
strozzature sul lato dell’of-
ferta che rischiano di mette-
re sotto ulteriore stress il
comparto manifatturiero
italiano, a cui potrebbe non
rimanere altra scelta se non
quella di trasferirsi in paesi
extra Ue.
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