La nostra tra-
dizione filosofi-
ca è inaugurata
d a l l a s t r a n a
coppia S o c rate -
P l ato n e. Riflet-
tiamo su tutti i modi in cui i
due sono diversi eppure cu-
riosamente legati. S o c rate
non scrisse mai nulla men-
tre P l ato n e non solo scrisse
molto ma è uno dei più
grandi scrittori di tutti i
tempi, maestro nell’uso del
linguaggio e nella costruzio-
ne non solo di argomenta-
zioni e ragionamenti ma an-
che di personaggi, ambien-
ti, scene, storie. S o c rate d i-
chiarava di non sapere nulla
e di non avere nulla da inse-
gnare mentre P l ato n e ave va
una teoria su ogni ramo del-
lo scibile: sullo Stato, sulla
psiche individuale, sull’e du-
cazione, sulla bellezza, sul
piacere, sulla giustizia, sul
cosmo, sull’essere. Le sue
teorie, però, scelse di met-
terle in bocca a un perso-
naggio di nome Socrate,
presente in tutti i suoi dialo-
ghi meno uno e quasi sem-
pre come protagonista: co-
me colui che conduce la di-
scussione e presenta i punti
più cogenti e convincenti.
Quindi gli studiosi si sono
posti il problema: quando il
personaggio Socrate parla
in un dialogo di P l ato n e, chi
sta parlando? È P l ato n e che
racconta episodi della vita
di S o c rate, o è S o c rate a
essere usato come portavo-
ce delle idee di P l ato n e? La
risposta che si dà di solito è:
dipende. Nei primi dialoghi,
un P l ato n e ancora giovane
testimonia l’opera di S o c ra-
te ; in quelli successivi, un
P l ato n e maturo usa la figura
di S o c rate per dire la sua.
Molto ragionevole, ma con-
tinuo a trovare interessante
e suggestivo che il problema
e s i s ta .
Veniamo al loro modo di
fare filosofia. So c rate a f-
frontava persone di autorità
(politica, sociale, militare,
culturale, religiosa) e le in-
terrogava. Non su temi qual-
siasi, ma sull’ambito della
loro presunta competenza,
sul fondamento della loro
autorità (faceva, insomma,
quel che dovrebbe fare un
buon giornalista). Chiedeva
ai generali del coraggio, ai
governanti dell’arte di bene
amministrare uno Stato, ai
poeti del senso della poesia,
ai religiosi della pietà reli-
giosa. Quando rispondeva-
no, contestava le loro rispo-
ste e le dimostrava insoste-
nibili, finché gli interlocuto-
ri si annoiavano o si irritava-
no e o si allontanavano o
cominciavano a insultarlo.
In questo modo, So crate
metteva in luce l’i n fo n d a-
tezza dell’autorità, ma qui si
fermava: siccome asseriva
di non sapere nulla, non ri-
spondeva neanche lui alle
domande che aveva posto. E
una critica puramente ne-
gativa può essere sterile.
In un discorso tenuto in
Parlamento nel novembre
1947, Winston Churchill
disse che la democrazia è la
peggior forma di governo,
eccetto per tutte le altre che
sono state tentate di tanto in
tanto. Adattando la sua fra-
se al nostro discorso, po-
tremmo dire che, quando
pure si fossero provati gli
errori, le debolezze, gli abu-
si di un sistema vigente, se
non si propone un’a l te r n at i-
va che offra speranze di mi-
glioramento, il pubblico
scrollerà le spalle e penserà:
«Di meglio non c’è. Questo
abbiamo e ce lo teniamo».
Ed è qui che l’opera di
Platone si rivela preziosa.
Lui era disgustato della poli-
tica e della cultura di Atene:
disgustato di una città che
aveva condannato a morte
un uomo come S o c rate. Ma
non si limitò a criticarne il
sistema politico: si mise
d’impegno ed elaborò, nei
dettagli, un sistema politico
diverso che poteva risolvere
quelle magagne. Quando la
sua alternativa fu sul tavolo,
il pubblico ebbe l’o p p o rtu-
nità di porsi la domanda più
sovversiva: «Perché no?
Perché non potremmo fare
così? Non staremmo meglio
se lo facessimo?». Il lavoro
di P l ato n e è dunque com-
plementare a quello di S o-
c rate, ed è bene che P l ato n e
metta le sue teorie in bocca
a S o c rate, perché sono le
cose (il tipo di cose) che
S o c rate avrebbe dovuto dire
per dare forza alla sua criti-
ca, per muovere da un atteg-
giamento negativo a uno po-
s i t ivo.
Intorno al 1516, l’auto re
inglese Thomas More, che
fu ministro di Enrico VIII e
fu poi da lui condannato a
morte, scrisse un libro inti-
tolato Uto p ia . «Utopia» è pa-
rola di origine greca che si-
gnifica «in nessun luogo»
(ma risuona anche con «luo-
go felice»): nel libro, M o re
descriveva dettagliatamen-
te il sistema di governo di
u n’isola di fantasia, di nome
appunto Utopia, e si trattava
di un sistema più ragionevo-
le e umano di tutti quelli
esistenti. L’isola non era in
nessun posto, ma poteva
fungere da stimolo per i let-
tori a pensare a riforme dei
loro sistemi. Estendendo
l’uso di questa parola all’i n-
tera tradizione di pensiero,
possiamo dire che lo Stato
ideale disegnato da P l ato n e
era, ed è tuttora, un’uto pi a ,
e che le utopie sono state da
allora onnipresenti; mi è ca-
ro ricordare quella proposta
da un grande della filosofia
i ta l i a n a , Tommaso Campa-
n el l a , nella Città del Sole. E,
usando questa parola, posso
riformulare la tesi espressa
sopra dicendo: il pensiero
critico ha bisogno di utopia,
per sostanziare le sue obie-
z io n i .
Alcuni lettori hanno de-
dotto da quel che scrivo che
io sia un marxista. Non è
vero; non lo sono mai stato,
neanche in tempi non so-
spetti, quando nelle princi-
pali librerie la metà dei vo-
lumi disponibili faceva rife-
rimento a Mar x. Non lo so-
no, perché considero pecca-
to originale del marxismo il
s u o r i f i u t o d e l l ’ u t o p i a :
quando Mar x comincia a
scrivere, nella prima metà
dell’Ottocento, c’è intorno a
lui un fermento di teorie e
pratiche utopiche, che in-
tendono correggere le mise-
rie e gli orrori della rivolu-
zione industriale. Ma Mar x
guarda a questo socialismo
utopico con sufficienza e
con scherno, considerando
il proprio socialismo scien-
tifico: in possesso delle leggi
necessarie della storia e
quindi in grado di preveder-
ne gli inevitabili sviluppi.
La storia è andata ben
diversamente da come pre-
ve d eva Mar x, e ciò ha fatto sì
che la sua moda sia ampia-
mente passata. Ma non è di
previsioni che voglio (e vole-
vo) parlare: è invece del fatto
che, rifiutando l’uto pi a ,
Mar x è tornato indietro, da
Platone verso S o c rate, da
un pensiero positivo e pro-
positivo a uno puramente
negativo (e infatti la sua cri-
tica del capitalismo è anco-
ra oggi la migliore sul mer-
cato, salvo poi lasciarci sen-
za strumenti per superar-
lo). Così facendo, per un se-
colo e mezzo ha ingabbiato
m o v i m e n t i p r o g r e s s i s t i
(operaisti, femministi, eco-
logisti...) nati con le migliori
intenzioni e intuizioni in
uno schema di pensiero es-
senzialmente conservatore,
contribuendo non poco a
i s te r i r i rl i .
A partire dai primi anni
Novanta, in testi come O lt re
la tolleranza, Manifesto per
un mondo senza lavoro e
Parole che contano, ho co-
struito una mia utopia, e
intorno a essa ho raccolto
altri testi, in una sorta di
enciclopedia filosofica. Non
l’ho fatto, e non lo faccio, per
arrivare a un nuovo pensie-
ro unico. La mia aspirazio-
ne, il mio desiderio sono
sempre stati che la mia fos-
se una di 10, 100, 1.000 uto-
pie: che lavorando insieme,
rubandoci un po’ di idee e
contaminando le idee del-
l’uno e dell’altro, si arrivas-
se a elaborare un’ipote si
credibile di un futuro più
umano e più degno.
Non è successo. Genera-
zioni di politici e intellet-
tuali sedotti dal marxismo,
convinti di avere la soluzio-
ne in tasca, hanno da tempo
smesso di pensare, il che
vuol dire: pensare il possibi-
le, pensare l’alternativa. Co-
sì, quando la realtà oggi ha
presentato il conto, un con-
to di tirannia e oppressione,
molti non hanno saputo fa-
re di meglio che accodarsi
(era questo il modo in cui la
storia sarebbe necessaria-
mente andata?) e altri sono
rimasti afasici. Non so se sia
ormai troppo tardi, se sia
già scoccata la mezzanotte,
ma so che se c’è una speran-
za la dobbiamo cercare in
un ritorno a quell’uto pia
che la sinistra ha colpevol-
mente dimenticato.
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