NEL 2012 NON CI SARA' LA FINE DEL MONDO IN SENSO APOCALITTICO,MA UN CAMBIAMENTO A LIVELLO POLITICO ED ECONOMICO/FINANZIARIO. SPERIAMO CHE QUESTA CRISI SISTEMICA ,CI FACCIA FINALMENTE APRIRE GLI OCCHI SUL "PROGRESSO MATERIALE:BEN-AVERE""ECONOMIA DI MERCATO" FIN QUI RAGGIUNTO E SPERARE IN UN ALTRETTANTO "PROGRESSO SPIRITUALE:BEN-ESSERE"ECONOMIA DEL DONO,IN MODO DA EQUILIBRARE IL TUTTO PER COMPLETARE L'ESSERE UMANO:"FELICITA' NELLA SUA COMPLETEZZA".
STUPIDA RAZZA
lunedì 31 gennaio 2022
Dalla Tap al Gnl, Bruxelles tenta di tagliare la dipendenza da Mosca
Da molti anni l’Europa coltiva un sogno: affrancarsi dal giogo energetico della Russia. Eppure nel corso del tempo, nonostante gli appelli e le buone intenzioni, la dipendenza europea da Mosca, invece di ridursi, è cresciuta. Nel 2021 il gas russo ha così rappresentato il 39% dei consumi complessivi dell’Unione Europea (pari a 402 miliardi di metri cubi). Oggi, davanti a una potenziale invasione russa in Ucraina, Bruxelles guarda con apprensione a tutte le potenziali alternative. Sa che presto potrebbe abbattersi la tempesta perfetta. L’operazione in Ucraina, e le conseguenti sanzioni contro Mosca, potrebbero generare delle rappresaglie commerciali. Come se non bastasse il contesto attuale ha il sapore di una beffa; la più grave crisi geopolitica alle porte del Vecchio Continente da diversi anni arriva proprio quando i prezzi del gas venduti in Europa sono quasi quintuplicati in otto mesi, toccando un record a fine dicembre. Finora Gazprom è stato un partner affidabile. E comunque per un’economia come quella russa, con un Pil decisamente inferiore a quello tedesco, privarsi di parte dell’export di gas verso gli storici clienti provocherebbe gravi danni economici, oltreché che di immagine. Ma davanti a una crisi di questa portata, e alle durissime sanzioni minacciate da Washington, chi può garantire che Mosca non reagirà con l’arma del gas? Peraltro proprio dai vecchi gasdotti ucraini transita un terzo del metano diretto in Europa. Bruxelles deve ora fare i conti con un’amara constatazione. La sua politica energetica è stata miope. Ognuno è andato per la sua strada. Il gasdotto Tap, che collega i giacimenti azeri del Caspio, ha una capacità di soli 10miliardi di metri cubi l’anno. Poteva essere raddoppiato da tempo. Ora si tenta ogni strada. Così il 4 febbraio la commissaria Ue per l’Energia Kadri Simson si recherà a Baku per la riunione del Consiglio consultivo del corridoio del gas meridionale. Al centro dell’agenda l’aumento delle forniture attraverso il Tap e le possibili opzioni per l’estensione del Corridoio meridionale del gas verso nuovi mercati energetici. Gli altri progetti infrastrutturali, tra cui l’ambizioso gasdotto sottomarino EastMed (che dovrebbe collegare i grandi giacimenti di gas israeliani e quelli ciprioti alle coste greche) sono ancora da approvare. «Tutte o quasi le scelte politiche europee in questo campo sono state indirizzate verso la transizione energetica. Ci si è concentrati sull’ambiente e sono stati trascurati altri due aspetti fondamentali: la sicurezza e la competitività dei prezzi», spiega Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia. In questa tempesta perfetta, le major energetiche occidentali , complice il crollo dei prezzi petroliferi dall’estate del 2014, hanno fatto la loro parte disinvestendo nei giacimenti di idrocarburi (spesso gas e greggio si trovano insieme), soprattutto in Medio Oriente ma in parte anche in Nord Africa. «Gli investimenti in campo energetico hanno costi enormi e tempi di rientro molto lunghi, continua Tabarelli -. I giacimenti di gas e petrolio vanno poi “coltivati”, ovvero seguiti con la dovuta manutenzione, affinché non si deteriorino prima del tempo. Il crollo della redditività (dal giugno del 2014 al gennaio del 2016 il prezzo del greggio è scivolato da 114 a 28 dollari al barile) e la quasi contestuale svolta dalla Conferenza di Parigi, a fine 2015, hanno spinto diverse compagnie, anche di Stato, a investire molto di meno negli idrocarburi». In questa Europa che è andata in ordine sparso, c’è tuttavia chi sta pagando più di altri il problema dei prezzi del gas e dell’esposizione energetica. «L’Europa è l’area nel mondo che soffre di più il problema dei prezzi alti. E l’Italia è il Paese europeo che ne risente più di tutti», spiega al Sole 24 Ore Claudio Spinaci, presidente di Unem (Unione Energie per la Mobilità), l’ex Unione petrolifera italiana. D’altronde l’Italia è forse il Paese più vulnerabile. Importa il 90% dell'energia che consuma. «Il mix energetico europeo, ma soprattutto, italiano va maggiormente diversificato – aggiunge Spinaci -. La transazione energetica deve essere sostenibile. È bene ricordare che il 40% delle fonti energetiche italiane proviene dal gas naturale». Una proporzione troppo alta. Non è così in Francia, in Germania, o in Spagna. Se poi si considera che la Russia copre il 40% dell’import italiano di gas, la vulnerabilità italiana emerge ancor di più. Fare nuovamente affidamento sulla tormentata Libia, di questi tempi, potrebbe rivelarsi incauto. Cosa fare, dunque? La soluzione immediata, pur non sufficiente, sarebbe intensificare gli acquisti di gas naturale liquefatto (Lng). I rigassificatori europei sono ampiamento sotto-utilizzati. Potrebbero ricevere circa 230 miliardi di metri cubi di gas l’anno. Il problema è piuttosto un altro. Dove acquistare così tanto Lng, e in così poco tempo? Il Qatar è il primo esportatore mondiale. Le sue navi stanno girando il mondo. Come peraltro quelle di altri produttori. Ma la concorrenza è serrata. I Paesi asiatici già assorbono i tre quarti import globale di Lng. La domanda in America Latina è quasi raddoppiata nel 2021. «Dobbiamo sfruttare al massimo gli acquisti di Lng in giro per il mondo – continua Spinaci - . Ma non sarà facile. Il processo cinese di decarbonizzazione ha fatto esplodere i loro consumi di gas». In ogni guerra, o crisi, c’è chi perde e chi ci guadagna. Tra questi ultimi ci sono gli Stati Uniti. La esportazioni americane di Lng in Europa stanno crescendo sensibilmente. Ma non è affatto energia verde. «Si tratta del gas americano estratto con la tecnica del fracking (shale gas). Il prezzo, compreso, il trasporto ed i costi di liquefazione si aggira sui 23 euro megawatt/ora. Pensate che il gas in Europa costa oltre 90 euro megawatt. Se fosse fatto partire il Nord Stream 2, è già tutto pronto, i prezzi scenderebbero presto». Ma del gasdotto con la Russia voluto da Angela Merkel Washington non vuole proprio sentir parlare. Ma in caso di stop delle forniture russe cosa accadrebbe? Tutti ricordano i fatti del 2006 e del 2009. Allora le controversie sui prezzi portarono a interruzioni delle forniture russe. Nel 2009 avvenne in pieno inverno e durò quasi due settimane. La Slovacchia e alcuni Paesi balcanici dovettero razionare il gas, chiudere fabbriche e tagliare le forniture elettriche. Oggi l’Europa è più preparata. La capacità di stoccaggio è più ampia, come ha evidenziato l’analista Julian Lee, di Bloomberg. Le misure a favore della concorrenza (come il divieto di “clausole sulla destinazione” che vietano la rivendita del gas) hanno indebolito la “presa” di Gazprom. «Complici i buoni livelli degli stoccaggi, soprattutto in Italia, per qualche giorno possiamo resistere, anche qualche settimana. – conclude Tabarelli - Ma se il conflitto durasse mesi, la situazione diverrebbe insostenibile». «La Francia ha comunque il nucleare, la Germania dispone del carbone. L’Italia è più vulnerabile. Il costo energetico sulle nostre aziende sta diventando insostenibile. La concorrenza straniera rischia di travolgerle», conclude il presidente di Unem. Insomma, se Mosca interrompesse i flussi, come sottolinea l’Economist, l’Europa potrebbe resistere meglio di quanto crediamo. Sarebbe un colpo al portafoglio più che una mancanza concreta di energia. Il problema è che il portafoglio di alcuni Paesi sarebbe decisamente più svuotato. Con tutte le conseguenze del caso.
Ricerca di gas e petrolio, spunta la prima mappa sui divieti di trivellazione
Le mappature sono ancora approssimative, ma secondo i pessimisti più irriducibili il piano regolatore dei giacimenti bloccherà riserve come i giacimenti Argo e Cassiopea (10-12 miliardi di metri cubi di metano), gli investimenti di Energean sul giacimento Vega e i progetti per raddoppiare l’estrazione dai giacimenti di gas nelle rocce profonde sotto l’Adriatico oppure nel sottosuolo delle pianure dell’Alta Italia. Con più realismo, il piano regolatore dei giacimenti è comunque uno strumento di pianificazione che consente alla politica industriale e ambientale, ma anche alle compagnie petrolifere, di programmare investimenti a lungo termine.Prima di tutto, con un avviso alla cautela, ecco l’ipotesi espressa dai pessimisti più irriducibili: viste le prime mappature ancora approssimative, il piano regolatore dei giacimenti bloccherà perfino riserve come i giacimenti Argo e Cassiopea (10-12 miliardi di metri cubi di metano), come gli investimenti di Energean sul giacimento Vega, come i progetti per raddoppiare l’estrazione dai giacimenti di gas che impregnano le rocce profonde sotto il fondale dell’Adriatico oppure nel sottosuolo delle pianure dell’Alta Italia. Se i pessimisti temono che vadano dissipati 2 miliardi di euro di investimenti, i realisti osservano che il Pitesai, il piano regolatore dei giacimenti, sarà comunque uno strumento di pianificazione che consente alla politica industriale e ambientale — ma anche alle compagnie petrolifere — di programmare a lungo termine gli investimenti; e soprattutto nella sua formulazione finale consente flessibilità. Il piano regolatore Pitesai è la sigla di Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee e venne proposto dal Governo Conte-1 come strumento per dare una forma istituzionale all’obiettivo di bloccare “le trivelle”. Per esempio, divieto di attività minerarie in zone sopra le quali avrebbero potuto volare aeromobili militari. Dimenticato per anni, di ritardo in ritardo si è riempito di valori più sostanziali e il 16 dicembre la Conferenza unificata Stato-Regioni ha approvato il piano, ora in attesa di essere pubblicato. E la versione finale del piano regolatore dei giacimenti dice una cosa cara al Governo. Il verbale dice che la fotografia dei giacimenti di tre anni fa è invecchiata in modo rapidissimo davanti alla crisi energetica, e il Pitesai non si cristallizzerà su un passato ormai remoto e inapplicabile. Dopo tanti “visto” e “considerato” tipici di ogni documento ufficiale, il verbale conclusivo del 16 dicembre afferma che servirà un quadro attuativo in relazione alle criticità emerse. Traduzione dal ministerialese: il piano è la teoria però poi serviranno correzioni per consentire bollette più leggere per le famiglie e le imprese. Giacimenti in pericolo Le cartine ancora provvisorie che circolano fanno vedere una rimappatura delle zone nelle quali verrebbero vietate le nuove attività petrolifere; sarebbe concesso di rimanere ai giacimenti già attivi, da sfruttare senza però nuovi impegni di investimento e senza potenziamenti. Ci sono anche giacimenti fermi da anni per incertezze normative. Le concessioni sono delineate in modo colorato con la loro forma geometrica.In mare, l’area vietata dalla versione originaria del Pitesai è quella delle acque territoriali, cioè fino a 12 miglia nautiche dalla linea di costa (22,2 chilometri), estesa però anche alla distanza di 12 miglia dal perimetro delle aree protette attuali o da istituire, cioè non ancora esistenti ma previste per il futuro. In questo modo i vincoli potrebbero estendersi fino a ricomprendere i giacimenti Argo e Cassiopea dell’Eni, già autorizzati e quindi con gli investimenti già in corso per almeno 700 milioni di euro. Sbloccare le infrastrutture I ministri dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, e della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, vogliono raddoppiare rapidamente la stanca produzione italiana di gas. Senza investimenti per riaggiornare macchinari e pozzi, i grandi giacimenti che fino a una ventina d’anni fa producevano una ventina di miliardi di metri cubi si stanno disseccando e nel 2021 si estrarranno meno di 3,5 miliardi di metri cubi di metano. Dato di novembre, l’ultimo disponibile: 3,05 miliardi di metri cubi nazionali (-19,1%) contro 65,6 di importazione (+8,9%). Secondo le compagnie, per raggiungere l’obiettivo del Governo serve altro oltre a un aggiornamento del Pitesai o a un aumento degli investimenti. Servono autorizzazioni lampo per i giacimenti ma anche per i collegamenti alla rete di gasdotti. E vanno coinvolte subito le comunità locali e le loro istituzioni, ricordano all’Assorisorse che chiede una cassetta degli attrezzi piena di strumenti. Sconti per famiglie e imprese L’obiettivo dell’aumento dell’estrazione è stipulare accordi di fornitura per il gas aggiuntivo di origine nazionale, il quale sostituirebbe una pari quantità di metano importato da Paesi remoti a prezzi feroci e con un peggiore impatto ambientale e climatico.Si pensa per esempio a un prezzo concordato per le famiglie a reddito molto basso, le quali oggi hanno il “bonus sociale” che riduce le bollette, e per i consumatori industriali di alcune categorie, come l’artigianato e le piccole e medie imprese esposte alla concorrenza sui costi (i produttori emiliani di ceramica o le fornaci vetrarie di Murano, per esempio) o gli energìvori ad altissima intensità di domanda (siderurgia, fonderie, cartiere, vetrerie, cementifici, chimica e così via). Lo Stato potrebbe delineare il quadro nel quale poi saranno le parti a stringere gli accordi. Le compagnie petrolifere sono un pugno — Eni, Shell, Gas Plus, Energean e in misura minore Total — però manca ancora l’attrezzatura normativa e contrattuale per i consumatori, dai colossi dell’industria fino alle famiglie meno abbienti. Le soluzioni da affiancare possono essere molte, in modo che possano adeguarsi alle diverse esigenze sociali e industriali, come (sono solo alcuni degli strumenti dell’orchestra) take or pay con una fideiussione che permetta di finanziare il progetto minerario, gruppi d’acquisto e comunità energetiche, partecipazione nei progetti minerari, contratti a prezzo fisso, acquisti concordati dell’Acquirente Unico.
Cessione crediti, scatta la stretta Allarme di banche e costruttori
La norma del decreto Sostegni ter che prevede il divieto di cessione multipla dei crediti fiscali legati ai bonus edilizi è stata pubblicata senza alcuna modifica lasciando di sasso imprese, banche e grandi aziende pubbliche e private attive nel settore. Tutti si aspettavano correttivi – e qualche modo segnali in questo senso erano stati fatti trapelare – per l’effetto devastante che quel blocco improvviso può avere sull'intero comparto. Ieri le reazioni non si sono fatte attendere. Una risposta immediata su un provvedimento ancora non convertito in legge è abbastanza inusuale per la paludata Associazione bancaria, che ieri mattina si è mossa per prima. Il direttore generale Giovanni Sabatini ha espresso «rammarico per il mancato accoglimento delle istanze provenienti dai mondi delle imprese e delle banche affinché la misura dell’anticipazione del superbonus possa continuare ad esplicitare i suoi effetti positivi sull’economia, nel pieno rispetto della legalità. I forti vincoli introdotti dal decreto Sostegni ter, anche con effetti sostanzialmente retroattivi, creano incertezza anche sui contratti già stipulati. Il contrasto alla illegalità ha un presidio fondamentale nelle banche che devono operare sempre nel rispetto di stringenti normative, ne sono la prova le decine di migliaia di segnalazioni annue di operazioni sospette». L’allusione all’incertezza dei contratti già stipulati evidenzia il fatto che non basta prevedere un periodo transitorio per rivendere quanto già acquistato (peraltro è stato concesso un periodo ridicolo di 10 giorni, rigettando ogni richiesta di prolungare quella finestra). La norma rischia di mettere in discussione le operazioni già fatte aprendo contenziosi. E ancora: il riferimento agli “effetti retroattivi” evidenzia i forti dubbi sulla legittimità costituzionale di una legge che va a modificare rapporti e impegni contrattuali già assunti. Anche l’associazione degli imprenditori edili non ha potuto nascondero lo stupore. «Spiace vedere che all’interno di un decreto che si chiama “sostegni” è stato inserito un provvedimento che di sostegno non ha proprio nulla sia per le imprese che per i cittadini - ha commentato Gabriele Buia, presidente dell’Ance -. Nonostante le proteste di gran parte del mondo economico e le proposte sul tavolo di soluzioni alternative che noi per primi abbiamo suggerito, il governo ha deciso di non ascoltare nessuno, mettendo così di fatto un’ipoteca sui cantieri del Superbonus». Buia ha definito la norma incomprensibile. « Facciamo appello al Parlamento perché corregga al più presto questa stortura», ha detto. Anche dal Parlamento si sono levate le protesta. «Siamo stupiti e delusi dal governo che ha pubblicato il decreto Sostegni ter con la norma che stoppa la cessione del credito – ha dichiarato Marina Nardi, presidente della commissione Attività produttive della Camera –Purtroppo stavolta l’esecutivo Draghi si dimostra sordo alle richieste che non sono solo della commissione che presiedo ma di tante famiglie e di tante imprese italiane».
Con lo stop alle moratorie aumenta il rischio di una tempesta perfetta
Quello che non hanno potuto i lockdown e gli strascichi della pandemia rischiano di innescarlo le scelte del governo. In una fase in cui le elezioni al Quirinale sembrano catalizzare l’attenzione dei politici, lasciando forse troppe responsabilità nelle decisioni su questioni molto delicate ai tecnici. Il risultato è una tempesta perfetta che potrebbe presto scaricarsi su un paese che sta a fatica riprendendosi dalla crisi e ancora se ne porta dietro le ferite. La norma che blocca le cessioni multiple dei crediti fiscali dei bonus edilizi arriva proprio quando è entrata a pieno regime la macchina dei lavori e le imprese di sono riempite la pancia di quei “titoli” allo scopo di rivenderli. Un mercato da 15 miliardi di valore, con relative cartolarizzazioni, sul quale ora si vuole tirare il freno a mano. Il default di migliaia di imprese edili è dietro l’angolo: i pagamenti dei fornitori sono fermi da settimane, i cantieri bloccati e vuoti da giorni. Entro un mese si smetterà di pagare gli stipendi e le imprese più fragili cominceranno a saltare. E tutto ciò accadrà quando? Proprio mentre cominceranno a scadere i primi solleciti di pagamento per le rate dei prestiti appena uscite dalla moratoria ma per le quali le aziende non sono in grado di pagare. Circa 36 miliardi in tutto fotografati nelle settimane scorse dalla Banca d’Italia: si stima che almeno un buon 10% si trasformerà in insolvenze. Una bella palla di neve da 4 miliardi che comincerà a rotolare diventando prima Npl e poi garanzie da escutere per lo Stato, perchè garantite in media tra il 33% e l’80 per cento. Se tutto va bene 2 miliardi secchi di nuovo debito per le casse pubbliche.Nessuno si è dato da fare per prorogare quelle moratorie prima che scadessero il 31 dicembre (erano tutti occupati a dividersi i soldi della legge di Bilancio). Se lo si fa ora, scattano le regole Eba che impongono la riclassificazione a credito deteriorato. In verità con il decreto Sostegni Ter almeno sono state le moratorie per i terremotati del Centro Italia. Proroga per quale ieri l’Abi ha espresso soddisfazione. E poi ci sono le altre rate: quelli dei circa 230 miliardi di prestiti garantiti sempre dallo Stato, soprattutto quelli sopra i 30 mila che hanno un taglio medio di 200 mila euro. A fine marzo scade il preammortamento dei prestiti; alla rata di soli interessi va aggiunto il capitale. Si calcola che una rata media rischia di passare da un semestre all’altro da 4 mila a 14 mila euro. Ci saranno molte imprese che faranno fatica a stare dietro ai pagamenti. Peraltro, tornando alla paralisi che ora rischia il settore dell’edilizia appare complicato che le imprese in crisi di liquidità possano fare ricorso ai prestiti garantiti (indebitandosi ulteriormente): la legge prevede che vada dimostrato il danno dovuto alla pandemia per accedervi. La causale “cambio in corsa delle regole del gioco” non è contemplata. All’origine della tagliola di legge ci sarebbero sacrosante esigenze di prevenzione del riciclaggio. Una considerazione: escludere le banche dalla cessione multiple, quando esse sono il principale attore delle segnalazioni sospette è assurdo. Per gli altri operatori, soprattutto grandi aziende a partecipazione pubblica e utility, si può estendere lo stesso obbligo. Già il decreto antifrode impone loro molti adempimenti. Quale migliore occasione per poi rivendicare un primato, visto che l’Italia si candida a ospitare la sede della nuova Autorità europea per l’Antiriciclaggio.
Al via stress test sui rischi climatici
La Banca centrale europea SSM ha lanciato ieri il primo stress test di vigilanza sul rischio climatico. Si tratta di un esercizio conoscitivo, senza promossi nè bocciati, che ha lo scopo di consentire alle banche e ai supervisori di valutare il grado di preparazione del sistema bancario agli shock economici e finanziari provocati dal rischio climatico. L'esercizio, che identifica vulnerabilità, migliori pratiche e rischi, parte in marzo e si chiude in giugno. I risultati aggregati saranno pubblicati in luglio.
Deutsche quadruplica l’utile «L’Italia contribuirà molto»
Strategia europea per l’agricoltura, rischio tagli alle produzioni italiane
Riduzione del 50% dei pesticidi, riduzione del 20% dei fertilizzanti e almeno il 25% dei terreni coltivati a biologico entro il 2030. Questo ha chiesto l’Unione europea ai suoi contadini attraverso la strategia Farm to Fork. Ma quale sarà l’impatto sui raccolti europei di questi tre obiettivi insieme? Per l’Italia, il prezzo da pagare potrebbe essere alto: la produzione di pomodori e quella di mele calerà del 20%, quella di uva da vino addirittura del 24%, mentre per l’olio d’oliva si potrebbe profilare un catastrofico crollo del 40%. Non andrà meglio agli altri grandi Paesi europei: in Francia, per esempio, la vendemmia subirà perdite del 28%. La Germania produrrà il 26% di luppolo in meno per fare la birra e il 15% in meno di grano. La Spagna dovrà rinunciare al 20% delle sue olive e al 30% dei suoi agrumi. Mentre la Polonia, ormai tra i principali produttori europei di mele, dovrà dire addio alla metà del suo raccolto. Numeri pesantissimi. A metterli nero su bianco, dopo un anno di ricerche, è la prestigiosa università olandese di Wageningen, nell’ambito di uno studio commissionato da CropLife Europe e cofinanziato dal Copa-Cogeca. La prima raccoglie le principali industrie europee dell’agrochimica, ed è lecito pensare che siano di parte, ma il secondo è l’organismo che riunisce le più grandi associazioni degli agricoltori della Ue, e qui è più difficile sostenere che siano tutte indistintamente dalla parte dei pesticidi. «La verità è che questo è già il quarto studio sul tema, dopo quello dell’Usda americana, dell’Università tedesca di Kiel e del Centro di ricerca della Commissione europea» ricorda Alessandro Dalpiaz, direttore di Assomela: il suo, secondo il report, sarà tra i settori più colpiti. «In ciascuno di questi studi le percentuali sono diverse - prosegue - ma quello che le accomuna è il segno meno di fronte alle previsioni sulla produzione. È necessario che la politica si fermi e faccia un supplemento di riflessione. Nessuno vuole fermare il processo verso la sostenibilità, ma appare quanto mai necessario adeguarlo nei metodi e negli strumenti, per mitigarne l’impatto. Se non si adattano i processi, invece del Green deal, avremo solo un Green dream». Un grande sogno, insomma, la cui realizzazione sarà impossibile. Il Copa-Cogeca è pronto a consegnare il nuovo studio nelle mani dei funzionari della Commissione europea. In gioco c’è il futuro del reddito degli agricoltori del continente, già oggi duramente provati dal caro-materie prime e dalla fiammata dei costi dell’energia. Ma c’è anche il futuro dei consumatori: «Il calo quantitativo delle produzioni ci allarma - spiega Davide Vernocchi, coordinatore ortfrutta di Alleanza cooperative - ma a preoccuparci è anche il calo qualitativo dei prodotti, visto che avremo a disposizione meno ritrovati per prendercene cura. Il consumatore sarà disposto a pagare la stessa cifra di oggi, o forse anche qualcosa di più, per un chilo di mele con le macchie nere sulla buccia? O preferirà acquistare quelle cilene, che non dovendo sottostare ai vincoli del Farm tu Fork saranno più belle e meno care?». Secondo lo studio dell’università di Wageningen, con una produzione di uva e olive così ridotta l’Italia andrà anche incontro a un aumento del prezzo del vino e dell’olio di oltre il 20%. Il che aprirebbe la porta a produzioni extra-europee meno controllate. Non possiamo invece riconvertirci in fretta a ritrovati più green, in modo da evitare la debacle nei campi d’Europa? «Sono vent’anni che lavoriamo a ritrovati non chimici e molto è già stato fatto - dice Vernocchi - il problema però è che ci vuole altro tempo e altra tecnologia. Il miglioramento genetico, in particolare, potrebbe essere la nuova frontiera, ma ancora la legge europea non ne permette l’utilizzo».
Bosch in affanno, 700 esuberi a Bari
La Bosch formalizza la crisi che sta vivendo lo stabilimento di Bari, il più grande tra le officine in Italia, dovuto all’accelerazione sulle auto elettriche e annuncia 700 esuberi in 5 anni su un organico di 1.700 persone. La decisione arriva al termine dell’incontro tra sindacati e direzione aziendale, convocato oggi dalla Regione Puglia. Insorgono i sindacati che respingono al mittente al comunicazione e già da tempo preoccupati dalle performance del gruppo che ha posizionato l’'80% della produzione del sito barese sulle motorizzazioni diesel che andranno a scomparire . «La situazione è perfino più grave perchè è a rischio la sopravvivenza stessa della fabbrica. Le missioni produttive non diesel infatti saranno in grado di dare lavoro a non più di 450 persone, mettendo oggettivamente a repentaglio l'esistenza stessa dello stabilimento», denunciano Gianluca Ficco, segretario nazionale Uilm, e Riccardo Falcetta, segretario della Uilm di Bari lasciando l’incontro”. Per la Fim: altri 500 esuberi potrebbero arrivare infatti entro il 2035.
Una proposta utile (ma migliorabile) per le regole fiscali Ue
È raro che due leader politici di primaria importanza che esprimono in un documento pubblico la loro visione su un tema politico altrettanto importante aggiungano un allegato in cui spiegano, con tanto di numeri ed equazioni matematiche, il contenuto preciso del loro pensiero. Eppure questo è proprio quello che il presidente del Consiglio Mario Draghi e il presidente francese Emmanuel Macron hanno fatto qualche settimana fa, allegando una nota tecnica al loro articolo di stampa sul tema delle future regole fiscali dell’eurozona. Se anche non vi fosse altro, andrebbe comunque riconosciuto ai due presidenti il merito di un’inusuale chiarezza. Ma c’è parecchio d’altro. L’allegato, stilato da eminenti economisti collegati ai due governi, fa giustizia di una corrente di pensiero – mai ben articolata, ma che aleggia ricorrentemente – secondo cui, nell’era delle pandemie e dei tassi di interesse negativi, i debiti pubblici nell’eurozona non sono più una variabile da tenere sotto controllo. Il fatto stesso di presentare proposte su come riformare le regole significa che i due presidenti credono che delle regole, seppure migliori di quelle del passato, debbano rimanere. Un segnale opportuno in un momento in cui l’aumento dell’inflazione, dei tassi e degli spread ricordano a tutti i rischi prospettici che corrono i Paesi ad alto debito. L’allegato in questione articola la distinzione fra «debito buono» e «debito cattivo» già proposta da Draghi qualche mese fa. Propone di trasferire dalla Bce a un’agenzia europea l’equivalente del debito che gli Stati hanno accumulato nel biennio 2020-21. L’agenzia si finanzierebbe emettendo propri titoli. Gli Stati sopporterebbero l’onere del servizio di questi titoli attraverso un contributo, che sarebbe inferiore all’interesse che essi pagano sul mercato in ragione del fatto che l’agenzia godrebbe del merito di credito dell’Europa. Questo per quanto riguarda il passato. Per il futuro, si distinguerebbero nei bilanci degli Stati le spese che danno luogo a debito nell’interesse delle future generazioni, soggetto a un vincolo di rientro prolungato nel tempo, dalle altre, soggette a un vincolo più stringente. Operativamente, la stabilità del debito verrebbe garantita fissando un tetto alla spesa pubblica al netto degli interessi. La proposta trascura interamente i problemi dell’applicazione; cioè di cosa fare quando gli Stati si rifiutano di rispettare gli accordi. Eppure è proprio lì che nascono i maggiori problemi, come nel 2003 quando la Germania, sotto la presidenza italiana del Consiglio europeo, decise di non rispettare il patto da essa stessa voluto. Quando sorgono ostacoli, la risposta della tecnocrazia (la Commissione europea) è di rendere la regola più sofisticata, aggiungendo nuovi elementi; dopo quell’episodio venne introdotta la correzione dei bilanci per il ciclo economico che tanti problemi ha poi creato. Si passa in questo modo da una regola forse “stupida”, ma che tutti capiscono a una complicata che alla fine nessuno vuole; il ciclo si compie con la richiesta generale di tornare a regole semplici. Non è colpa degli autori, ma è prevedibile che problemi del genere si ripeterebbero anche con questa proposta. Limitandosi all’impianto generale, il piano suscita diversi interrogativi. Il trasferimento dei titoli di Stato all’agenzia non favorirebbe gli Stati indebitati come l’Italia, dovendo essi pagare contributi su un debito che oggi non costa niente (sui titoli in portafoglio della banca centrale gli interessi pagati ritornano agli Stati). È lecito esprimere poi forti riserve sull’idea centrale della riforma, la regola sulla spesa pubblica. Non contenendo alcuna indicazione sulle tasse, essa incoraggerebbe gli Stati ad alleggerire il carico fiscale sui contribuenti, scaricando le conseguenze del proprio debito sugli altri. Escludendo dal calcolo anche la spesa per interessi, la regola non offre alcuna difesa da crisi di fiducia sulla sostenibilità del debito. Un aumento della spesa per interessi, per esempio quando lo spread aumenta, non richiederebbe alcuna contromisura da parte del Paese stesso, il che alimenterebbe la sfiducia. In definitiva, se le future regole di bilancio dovranno incoraggiare finanze pubbliche sostenibili, la sorveglianza non potrà limitarsi a certe componenti della spesa, seppure importanti. Dovrà essere molto più generale, pur con le distinzioni riguardanti la “qualità” del debito di cui sopra. Andrà ricercato un compromesso fra rigore e realismo, tenendo conto che ci sono diverse sensibilità. Andrà tenuto conto, più di quanto faccia la proposta in questione, del punto da cui si parte – le regole attuali e la loro radice nel consenso post-Maastricht, che fu alla base della nascita dell’euro. L’accordo su una modifica radicale che non tenga conto dei precedenti è più difficile da ottenere. Ai due presidenti e ai loro economisti il merito di avere dato un calcio d’inizio, non perfetto forse, ma comunque utile. La partita sarà lunga.
Investimenti cinesi nel mondo, ora Pechino accelera sull’Europa
Il sentiment anti-Cina che serpeggia in Europa non ha impedito, anche durante la pandemìa, lo shopping da parte delle aziende di Pechino: nel 2021, infatti, le operazioni nel vecchio continente di M&A sono aumentate del 5% a 8,4 miliardi di dollari, mentre quelle in Nord America crollavano del 37% a 4,7 miliardi. L’ottavo report di Baker McKenzie e Rhodium Group sugli investimenti cinesi nel mondo rivela che l’anno scorso l’attività totale di fusioni e acquisizioni è scesa a 23,7 miliardi di dollari, in netto calo anche rispetto all’anno precedente. Ma i cinesi hanno diversificato gli approdi, puntando soprattutto all’aspetto qualitativo e così il Go global si è concentrato sull’Unione Europea, nonostante la barriera innalzata da molti Paesi contro le acquisizioni in settori chiave, come la tecnologia e le infrastrutture. Pechino, nel frattempo, ha imboccato la strada dell’autarchia che ispira il nuovo piano quinquennale, e all’estero ha puntato su settori meno sensibili come prodotti di consumo e l’intrattenimento che hanno totalizzato quasi la metà delle operazioni realizzate. Ricordiamo però che nel 2021 è stata completata l’operazione Porto del Pireo in Grecia, la mossa della China three Gorges in Spagna sulle energie rinnovabili, ma anche quella sul litio (Bacanora acquisita da Jiangxi Gangfeng) e Philips per la parte elettrodomestici senza trascurare che almeno due società del settore medico farmaceutico sono passate in mano cinese. In Asia le M&A hanno raggiunto i 5,4 miliardi di dollari, in America Latina - un ambiente ancora molto favorevole alle aziende di Pechino - ben 3 miliardi di dollari, contro il totale di Oceania e Africa pari a circa 1,5 miliardi. La mappa, in definitiva, è stata modificata anche dagli effetti del Covid-19. «Il trend in calo, però, va avanti almeno dal 2018 - dice Marco Marazzi, responsabile della sede di Milano di Baker McKenzie -. I motivi sono vari. Per l’Italia, poi, che registra solo poche decine di milioni di euro, le cifre impallidiscono rispetto ai capitali investiti in Germania Olanda o Regno Unito. Questo nonostante i tanti casi di successo di aziende italiane di proprietà cinese. Eppure, specie in un momento in cui il Governo italiano sembra favorire investimenti “greenfield” le aziende cinesi sono forse le uniche con la forza finanziaria e la visione di lungo periodo per farli davvero». Al contrario, per gli investimenti esteri in Cina il 2021 è stato un anno d’oro, hanno raggiunto la soglia magica del trilione di yuan, ma il settore investimenti esteri del Mofcom invita alla prudenza, il 2022 non sarà rose e fiori. E si capisce. Le autorità statunitensi hanno appena presentato un disegno di legge corposo, ben 2.912 pagine, che si occupa anche di rafforzare la competitività degli Stati Uniti con la Cina. E c’è da soppesare gli effetti collaterali della sentenza-regalo con la quale la WTO, a distanza di un decennio dall’inizio della controversia, consente alla Cina di imporre agli Stati Uniti dazi compensativi per 645 milioni di dollari su 22 prodotti cinesi, dai pannelli solari al filo di acciaio, relativi a presunte sovvenzioni databili tra il 2008 e il 2012, durante la presidenza di Barack Obama.
«Pronte sanzioni anche al settore energetico»
È stata ancora una giornata di tensioni quella di ieri nel confronto tra la Russia e la Nato sul fronte ucraino. In un contesto politico sempre molto incerto, il vicepresidente della Commissione europea Valdis Dombrovskis ha spiegato che il pacchetto di misure sanzionatorie, su cui i Ventisette stanno lavorando insieme agli alleati occidentali e da applicare nel caso di una invasione russa dell’Ucraina, prevede anche sanzioni nel delicatissimo settore energetico. «È chiaro che l’Unione europea e la comunità internazionale devono mostrare solidarietà nei confronti dell’Ucraina dinanzi alla minaccia russa. Stiamo preparando un pacchetto sostanzioso di sanzioni. Ci sarà un impatto per l’economia europea (...) In un certo senso, i Paesi membri sono pronti a tollerare un possibile effetto negativo sul reddito perché la pace è in pericolo in Europa», ha detto ieri il 50enne ex premier lettone a un gruppo di giornali europei, tra cui Il Sole 24 Ore. «Le sanzioni in preparazione riguarderanno anche il settore energetico, ma non sono nella posizione di discutere in dettaglio le possibili sanzioni», ha aggiunto l’uomo politico. Di più il vicepresidente non ha voluto dire. Dal gas russo dipendono sia l’economia russa che molti Paesi europei. In questi anni, il governo russo ha ridotto la sua dipendenza finanziaria dall’estero. L’Italia invece dipende tuttora da Mosca per il 40% del proprio import di gas naturale, così come la Germania con il progetto Nord Stream 2. A proposito: la recente riunione tra alcune imprese italiane e il presidente russo Vladimir Putin ha provocato una alzata di sopracciglia a Bruxelles, tenuto conto del momento (si veda Il Sole 24 Ore di ieri). «Stiamo lavorando piuttosto bene nel mettere a punto le sanzioni economiche; vi è una ampia unità d'intenti tra i paesi membri, compresa l’Italia – ha commentato il nostro interlocutore -. Tutti i governi si rendono conto che c’è la necessità di difendere la pace sul continente europeo e di dissuadere l’aggressore dal compiere ulteriori passi». Interpellato sui rischi di rappresaglia da parte russa nel caso di nuove sanzioni, l'ex primo ministro lettone ha risposto: «Non posso entrare nei dettagli (…) Stiamo valutando diversi scenari e possibili alternative alle fonti di approvvigionamento (...) in modo da mitigare i rischi. Il lavoro è ancora in corso». La Commissione ha proposto di recente la possibilità che i paesi creino congiuntamente riserve strategiche di gas per rispondere ai balzi di prezzo e alle manipolazioni dei produttori. Il timore qui a Bruxelles è che l’unità tra i Paesi europei sull’opportunità di sanzionare Mosca possa venire meno all’ultimo momento. L’Ungheria in particolare che ha buoni rapporti con la Russia e cattivi rapporti con l’Ucraina ha minacciato di ritirarsi da una eventuale intesa. In una intervista questa settimana al giornale Magyar Nemzet, il ministro degli Esteri Peter Szijjarto ha spiegato: «Non vogliamo avere nulla a che fare con un conflitto nella regione». Mentre i vertici della Commissione europea si recheranno a Kiev la settimana prossima, per ufficializzare nuovi sostegni comunitari all’Ucraina con aiuti finanziari pari a 1,2 miliardi di euro, la conversazione di ieri con il vicepresidente Dombrovskis è stata anche l’occasione per discutere dell’annosa riforma del Patto di Stabilità. La consultazione pubblica decisa dalla Commissione europea è appena terminata; tocca ora a Bruxelles fare proposte. Dopo recenti elezioni nazionali, tra cui in Germania e in Olanda, «ho incontrato la maggior parte dei nuovi ministri delle Finanze – ha detto l’uomo politico –. Non ho visto grossi cambiamenti di atteggiamento rispetto alle precedenti posizioni nazionali e al pensiero radicato nei rispettivi paesi. Il sentimento è costruttivo, c’è la volontà di trovare un compromesso sia tra i vecchi che i nuovi ministri. È possibile un esito significativo che assicuri una riduzione credibile del debito e che permetta i finanziamenti necessari nell’ambiente e nel digitale».
Gas, l’Europa rischia anche con lo scudo della Casa Bianca
Stati Uniti e Russia si stanno preparando per una guerra del gas. Una guerra senza esclusione di colpi, con strategie che prendono in considerazione persino l’ipotesi di un azzeramento delle forniture da Mosca, col rischio di lasciare sul terreno come prima vittima l’Europa. Entrambe le potenze sono consapevoli della grave crisi energetica che stiamo sopportando e del fatto che Gazprom soddisfa oltre un terzo del nostro fabbisogno di gas. Eppure non escludono la possibilità di una chiusura totale dei rubinetti, che sia dovuta a gravi danni alle infrastrutture in caso di operazioni militari, alle sanzioni draconiane minacciate da Washington in caso di invasione dell’Ucraina o a un estremo atto di ritorsione inflitto dal Cremlino: sviluppo improbabile, salvo una vocazione da kamikaze, visto che alla Russia l’export di gas – quasi tutto diretto in Europa – nel 2021 ha fruttato 61,8 miliardi di dollari (si sale a 240,7 miliardi, metà delle esportazioni totali, con petrolio e derivati). Eppure, benché forse solo per dar sfoggio di potenza, Mosca ha parcheggiato un enorme rigassificatore galleggiante – la nave Marshal Vasilevskiy – davanti a Kaliningrad, exclave russa racchiusa tra Polonia e Lituania, che rischierebbe di non poter rifornire con un blocco dei gasdotti verso l’Europa. L’ex città prussiana di Königsberg, che ha dato i natali a Kant, ospita anche la flotta russa del Baltico, potenziata di recente. Missili e metaniere insomma. Ma anche gasdotti. Perché al largo di Kaliningrad passano i tubi del Nord Stream 2, designato dagli Usa come bersaglio prioritario di sanzioni. Il presidente Joe Biden sta cercando di portare dalla sua parte anche l’Unione europea e in particolare la Germania. E quasi certamente approfitterà della prima visita alla Casa Bianca del neo cancelliere tedesco Olaf Sholz, messa in agenda il 7 febbraio. Ma lo stop a Nord Stream 2 sarebbe il male minore per l’Europa. Washington sta delineando scenari ben più drastici, compresa un’interruzione totale dei flussi di gas russo, da cui è convinta – a dispetto delle valutazioni di qualunque analista – di poterci schermare. C’è un piano al quale il dipartimento di Stato Usa lavora da settimane e che ormai non è più un segreto: è stata la stessa Casa Bianca a confermare le voci, mettendo a disposizione due «alti funzionari dell’amministrazione» coperti da anonimato per chiarire che cosa bolle in pentola. In sintesi Washington sta cercando «Paesi e società in giro per il mondo» disposti a darci più gas per sopravvivere a un ulteriore calo, se non addirittura azzeramento, delle forniture russe. Una delle prime porte a cui ha bussato, per «capire la capacità e la volontà di aumentare temporaneamente la produzione di gas e allocare questi volumi a clienti europei», è quella del Qatar, colosso del Gnl, che però oggi vende per tre quarti in Asia e quasi tutto su base contrattuale. L’emiro Tamim bin Hamad al-Thani vedrà comunque Biden alla Casa Bianca lunedì e forse qualcosa riuscirà a offrire. Quello che sembra sfuggire è l’enormità della sfida di sostituire il gas russo. Solo con il Gnl è impossibile, avverte Nikos Tsafos, del Center for Strategic and International Studies (Csis) di Washington: «La Russia l’anno scorso ha inviato in Europa circa 180 miliardi di metri cubi di gas, mentre al loro picco le importazioni di Gnl hanno raggiunto 120 miliardi». A gennaio potremmo vedere un nuovo record mensile e in futuro forse batterlo, ma la capacità di rigassificazione non è infinita anche se in teoria ci permetterebbe di coprire il 40% della domanda (in tutto vale 237 miliardi di metri cubi, che oggi utilizziamo al 75%). Inoltre i terminal per il Gnl non sono distribuiti in modo uniforme, ricorda Tsafos: il 30% è in Spagna, un quinto in Gran Bretagna. «Il gas va spostato in giro e non sarà facile». Ma i problemi non sono finiti. La ricerca di fornitori alternativi alla Russia è su scala globale, precisano i funzionari Usa, «da Nord Africa e Medio Oriente ad Asia e Stati Uniti». Però serve gas che «se necessario» arrivi in Europa «in una o due settimane»: tempi stretti, che mettono fuori gioco un big come l’Australia, ma forse anche gli stessi Usa, a meno di impiegare metaniere già in viaggio. Comunque sia, gran parte dei carichi – di qualunque origine – ha già un padrone, magari in Asia, che potrebbe non prestarsi a rinunciare alla consegna per aiutarci. Gli Usa dicono che basta mettere insieme «piccoli volumi da una moltitudine di fonti», magari cambiando i piani di produzione. Ma quasi tutti gli impianti di liquefazione, salvo difficoltà tecniche, stanno già lavorando ai massimi per godere dei prezzi record. Lo stesso vale per le forniture via gasdotto: solo l’Algeria forse potrebbe aprire di più i rubinetti, ma i transiti dal Marocco andrebbero riattivati. La Norvegia non riuscirebbe ad accelerare molto, tanto meno Libia e Azerbaijan. Resta l’Olanda, se il Governo (come ha già detto di voler fare) darà il permesso di aumentare le estrazioni nel mega giacimento di Groningen, comunque condannato a chiudere.
Neanche il super Pil aiuta: Wall Street ancora in affanno
Venture capital, da Pnrr e Mise 2,5 miliardi al Fondo della Cdp
Per il titolare del Mise, con la riserva per i progetti sulla riconversione delle filiere produttive e con il “Green transition fund”, «si accompagnano le imprese verso la vittoria della sfida con la transizione ecologica, che se non affrontata con lungimiranza lascerà sul suo percorso morti e feriti in termini di aziende chiuse e persone senza lavoro».
Arrivano al traguardo in contemporanea una serie di decreti che immettono nuove risorse nel Fondo nazionale innovazione gestito da Cdp Venture, la Sgr di Cassa depositi e prestiti. Si tratta complessivamente, tra risorse statali e fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), di un’iniezione di 2,55 miliardi per il venture capital italiano. Ulteriori 600 milioni dovranno essere obbligatoriamente versati dalla stessa Cdp e altri investitori terzi. Il primo dei quattro decreti alla firma del ministro dello Sviluppo economico (Mise), Giancarlo Giorgetti, riguarda i 2 miliardi che lo scorso ottobre, con un emendamento parlamentare al Dl infrastrutture, furono dirottati dal “Patrimonio destinato” della Cdp al Fondo nazionale innovazione. Il Mise investirà 2 miliardi in un Fondo gestito da Cdp Venture che investirà in modalità di fondo di fondi o di fondo di co-investimento diretto nel capitale di rischio o nel debito di Pmi. Il decreto attuativo prescrive che una quota pari ad almeno 300 milioni venga destinata agli investimenti per la riconversione e la transizione, in chiave ambientale, delle filiere produttive nazionali. Cassa depositi e prestiti e altri investitori professionali dovranno versare risorse aggiuntive per almeno il 30% dell’ammontare del fondo, quindi 600 milioni, in caso contrario scatterà una liberatoria per il Mise sulla quota parte residua degli impegni sottoscritti. Una volta pubblicato il decreto, la Sgr trasmette «tempestivamente» al ministero il regolamento di gestione del Fondo e, entro 30 giorni ulteriori, dalla trasmissione, il Mise comunica la sua approvazione. Un secondo decreto interviene sulle modalità di funzionamento del Fondo di sostegno al venture capital attivato presso il Mise già dal 2019, anche per alimentare il Fondo nazionale innovazione. In particolare, si introduce la possibilità di investire anche in fondi per il venture debt; viene estesa la politica di investimento in favore di gestori esteri, ferma la previsione di investire unicamente in imprese target con sede operativa o programmi di sviluppo in Italia; si apre all’intervento nelle imprese spinoff di grandi imprese. Il terzo e quarto decreto Mise si riferiscono a linee di investimento previste dal Pnrr. In un caso si tratta di 300 milioni dell’investimento “Finanziamento a start-up” della missione 4-Istruzione e ricerca. Le risorse saranno impiegate per un Fondo “Digital transition fund”, che sarà istituito e gestito da Cdp Venture per operazioni volte a favorire in particolare le filiere intelligenza artificiale, cloud,assistenza sanitaria, Industria 4.0, cybersicurezza, fintech e blockchain. Il fondo prevederà tre linee di intervento: investimenti diretti e indiretti applicando le metodologie tipiche del venture capital, target non solo focalizzato alla creazione di startup ma anche a supporto di scale-up, corporate venture per il lancio di start up in partnership con Pmi. Il decreto che istituisce il “Green transition fund”, di 250 milioni, riguarda invece un investimento previsto dalla missione 2-Transizione ecologica del Pnrr. Anche questo fondo sarà gestito da Cdp Venture. Dovrà concentrarsi su operazioni nei settori energie rinnovabili, economia circolare, mobilità, efficienza energetica, gestione dei rifiuti e stoccaggio dell’energia. Saranno ammissibili le operazioni con investimento compreso tra 1 milione e 15 milioni, per investimenti diretti, e tra 5 milioni e 20 milioni per quelli indiretti. Il periodo di investimento non deve superare 5 anni, seguiti da ulteriori 5 di gestione del portafoglio. Per entrambi i fondi, “Digital transition fund” e “Green transition fund”, dovrà essere assicurata la quota minima di 40% per operazioni al Sud e il rispetto della clausola europea Dnsh (do no significant harm), cioè l’obbligo di non arrecare danni all’ambiente. I provvedimenti si sono concretizzati, dice Giorgetti, «dopo un lungo confronto che sviluppa la sinergia tra Mise e Cdp per portare risultati in termini di crescita delle startup e delle Pmi innovative». Per il titolare del Mise, con la riserva per i progetti sulla riconversione delle filiere produttive e con il “Green transition fund”, «si accompagnano le imprese verso la vittoria della sfida con la transizione ecologica, che se non affrontata con lungimiranza lascerà sul suo percorso morti e feriti in termini di aziende chiuse e persone senza lavoro».
Le imprese rilanciano l’emergenza energia: «Servono contromisure»
Un confronto sul caro energia, «una vera e propria emergenza per i settori manifatturieri italiani». Il mondo delle imprese continua a incalzare il governo, tenendo alto l’allarme sulla bolletta energetica. Proprio per questo il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, ha invitato ieri il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, a partecipare alla riunione del Consiglio generale. Gli imprenditori, come ha sottolineato una nota di Confindustria che ha dato notizia dell'incontro, «si trovano a fronteggiare un drammatico aumento dei costi delle commodity energetiche, con particolare riferimento al prezzo del gas naturale e dell’elettricità». Le previsioni parlano di una bolletta energetica per il 2022 di oltre 37 miliardi, a fronte degli 8 miliardi del 2019. E per il 2023 si prevede sì un calo, ma sempre ad un livello assai elevato, attorno ai 21 miliardi. Per le imprese, quindi, un’emergenza, come ha messo in evidenza la nota. Servono azioni che vadano oltre quelle prese dal Consiglio dei ministri della scorsa settimana. Proprio la «condivisione di possibili azioni» è stato l’obiettivo dell’incontro con Cingolani. Interventi «frutto di una riflessione costruttiva e non ideologica per contrastare il drammatico impatto dei costi dell’energia sul sistema produttivo con potenziali gravi conseguenze sociali ed economiche per il paese». Una «tempesta che rischia di paralizzare definitivamente il sistema industriale italiano, già interessato da molteplici decisioni di chiusura». E che richiede, «come è stato condiviso di nuovo oggi (ieri ndr) un deciso intervento di politica industriale dagli effetti congiunturali e strutturali immediati, oltre ad una progettualità di lungo termine». Sono stati molti gli interventi in Consiglio generale, organismo di Confindustria al quale partecipano circa 200 imprenditori, in rappresentanza del sistema associativo, a riprova della drammaticità della situazione. Un dialogo «articolato e proficuo – ha commentato il ministro Cingolani (collegato on line) – che ha consentito un confronto serio sulla necessità di portare a compimento tutte le sfide del Piano nazionale di ripresa e resilienza». Confindustria nella nota ha ricordato il pacchetto di misure più urgenti per affrontare il caro energia: la cessione della produzione nazionale di gas ai settori industriali per 10 anni con anticipazione dei benefici finanziari per l’anno 2022; l’intervento immediato per la cessione ai settori industriali a rischio chiusura di energia rinnovabile elettrica “consegnata al Gse” per un quantitativo di circa 25TWh e trasferita ad un prezzo di 50euro/Mwh; l’aumento delle aliquote di agevolazione per le componenti parafiscali della bolletta elettrica nei limiti previsti dalla normativa europea (art.39 elettrico ex Com200/214/Ue). Tra le proposte avanzate nei giorni scorsi da Confindustria nel confronto con il governo, prima del Consiglio dei ministri di giovedì, c’è anche la richiesta di aumentare la produzione di gas nel nostro paese, attualmente sotto i 4 miliardi di metri cubi all’anno, a fronte di un consumo nazionale attorno ai 72 miliardi di metri cubi. Un obiettivo che si può cominciare a raggiungere nel medio termine, 12-15 mesi, senza aumentare le perforazioni, ma utilizzando l’infrastruttura esistente.
Gli scali italiani perdono 113 milioni di passeggeri rispetto al pre pandemia
Il traffico negli aeroporti italiani nel 2021 è stato di 80,67 milioni di passeggeri, ampiamente al di sotto del livello del 2019 (-58,2%), l’anno prima della pandemia, benché ci sia un recupero del 52,4% sul 2020. Ci sono «113 milioni di passeggeri persi rispetto al 2019», sottolinea Assaeroporti, che ha pubblicato i dati complessivi dei 41 scali italiani. I passeggeri erano stati 193,1 milioni nel 2019, crollati a 52,9 milioni nel 2020. Pertanto nei due anni della pandemia i passeggeri persi sono 253 milioni. I movimenti aerei (atterraggi e decollli) sono stati circa 950mila, -42,4% sul 2019 (ma +34,7% sul 2020). La contrazione è meno marcata rispetto a quella dei passeggeri, perché le compagnie hanno usato aerei più piccoli. Il traffico merci ha recuperato quasi interamente, un milione di tonnellate, -1,9% rispetto al 2019 (+28,6% sul 2020). Il 70% delle merci è transitato per lo scalo di Malpensa, che è il secondo per passeggeri (9,622 milioni) dietro Fiumicino (11,662 milioni). Se si considerano i sistemi aeroportuali la milanese Sea ha quasi raggiunto Aeroporti di Roma. La somma dei passeggeri di Linate (4,346 milioni) e Malpensa è 13,969 milioni, appena 20mila in meno rispetto ai 13,989 milioni tra Fiumicino e Ciampino (2,362 milioni). La distanza si è accorciata perché i due scali romani hanno perso più traffico rispetto al 2019, -73,2% Fiumicino e -60,4% Ciampino. Fiumicino è stato penalizzato dalle restrizioni per i voli extra-Ue. Il terzo aeroporto per passeggeri è Bergamo, 6,467 milioni (-53,3% rispetto al 2019), quarto Catania con 6,123 milioni (-40,1% sul 2019), quinto Napoli con 4,636 milioni (-57,3%), sesto Palermo con 4,576 milioni (-34,8%). Gli scali delle isole hanno recuperato più traffico. Hanno avuto più passeggeri del 2019 Trapani (+4% a 427.893) e Lampedusa (+2,9% a 284.950). Tra le altre aree quella che ha perso di più rispetto al 2019 è il Nord-Est: Venezia 3,437 milioni (-70,3%), Verona 1,459 milioni (-60%), Treviso 1,221 milioni (-62,5%). Questi dati riguardano l’intero sistema, mentre da alcuni mesi ci sono due associazioni. Dal primo gennaio AdR e il gruppo Save (che comprende Venezia, Verona, Treviso e Brescia) sono uscite da Assaeroporti e hanno costituito Aeroporti 2030. Con 20,11 milioni di passeggeri totali, gli scissionisti valgono un quarto del traffico del 2021. Assaeroporti osserva che il trasporto aereo «ha bisogno di sostegni adeguati per affrontare le sfide della ripartenza e della transizione ecologica e digitale». Più che ai ristori Covid, Assaeroporti, presieduta da Carlo Borgomeo, pensa a un Fondo per la realizzazione degli investimenti green. Per il futuro del settore sarà decisiva la sorte di Ita, che cerca un partner forte per decollare. L’americana Delta, partner di Air France-Klm, ha detto all’Adnkronos: «Delta è in contatto costante con i vertici di Ita Airways e sta monitorando gli sviluppi a seguito della manifestazione di interesse del gruppo Msc e di Lufthansa per acquisire una partecipazione di maggioranza nella compagnia italiana. Delta ha una lunga storia con l’ex Alitalia e ha stretto una partnership con Ita che Delta si impegna a rafforzare».
Boeing, terzo bilancio consecutivo in perdita
I problemi di produzione al Dreamliner B787 sono costati a Boeing una botta di 4,5 miliardi di dollari di oneri prima delle tasse nell’ultimo trimestre del 2021, chiuso in rosso per 4,16 miliardi. Questo accantonamento ha fatto andare in perdita netta per 4,2 miliardi il bilancio consolidato dell’esercizio. Nel 2020 la perdita era stata di -11,87 miliardi. I ricavi totali sono aumentati del 7% a 62,286 miliardi. La perdita operativa è diminuita da 12,77 a 2,9 miliardi. L’indebitamento finanziario netto è diminuito da 62,4 a 58,1 miliardi. È il terzo bilancio consecutivo in perdita per il gigante aerospaziale americano. L’anno scorso Boeing ha incrementato le consegne di jet commerciali da 157 a 340 jet, ma resta dietro Airbus, che ha svoltato Capodanno con 611 consegne. Negli ordini netti Boeing è tornata di poco davanti, con 535 velivoli contro 507. Il recupero del Boeing 737 Max, tornato «in servizio in sicurezza in quasi tutti i mercati del mondo» (non in Cina), è stato annullato dai difetti scoperti nella produzione del velivolo di lungo raggio. Questo ha un impatto negativo anche su Leonardo. L’ex Finmeccanica produce il 14% della fusoliera a Grottaglie. Da giugno le consegne del velivolo sono ferme. Ci sono 110 aerei in magazzino, «l’azienda continua ad eseguire la rilavorazione ed è impegnata in discussioni con la Faa sulle azioni necessarie per riprendere le consegne», ha detto l’a.d., David Calhoun. I problemi non sono risolti. La produzione proseguirà «ad un rateo molto basso (...) fino alla ripresa delle consegne, con un ritorno graduale previsto nel corso del tempo a cinque aerei al mese». La produzione del 737 è aumentata a 26 jet al mese dai 19 di ottobre. Vanno meglio gli affari nella difesa e spazio, l’utile operativo è invariato a 1,544 miliardi, nei servizi l’utile operativo è balzato da 450 milioni a 2,02 miliardi. Alle 21 italiane le azioni Boeing erano in calo del 4,5% a 194,83 dollari. A Borsa chiusa Leonardo ha comunicato che «in merito ai rumors usciti sulla stampa riguardo alla potenziale vendita di una linea di business di Leonardo Drs, Leonardo informa che, come di consueto, valuta costantemente diverse opzioni in un’ottica di creazione di valore per i propri azionisti, tra cui la possibilità di procedere alla valorizzazione di alcune linee di business inclusa la suddetta. Allo stato attuale non è stata adottata alcuna decisione formale al riguardo». Le azioni hanno recuperato l’1,77% a 6,336 euro.
domenica 30 gennaio 2022
Vincoli alle stablecoin: Meta verso l’abbandono del progetto Diem
Rischia di finire nel nulla quella che doveva essere l’architrave di un nuovo sistema economico globale. Meta, la ex Facebook, starebbe infatti cercando una via d’uscita onorevole per il suo progetto di criptovaluta, ormai ridimensionato rispetto ai piani iniziali. Di fronte all’abbandono della gran parte dei partner iniziali e agli ostacoli regolamentari posti dalla Fed anche all’ipotesi di una stablecoin come Diem , Mark Zuckerberg sarebbe ormai sul punto di abbandonare quel progetto che poco più di due anni fa aveva fatto sobbalzare l’intero mondo della finanza globale, una valuta, per di più cripto, emessa da un privato. Stando a quanto rivelato da Bloomberg, la Diem Association, che ha preso il posto della vecchia Libra, starebbe valutando la vendita degli asset sviluppati nel progetto per poter restituire almeno in parte i fondi agli investitori che avevano creduto nel progetto. Tra i partner finanziari di Diem figurano venture capital come Andreessen Horowitz, Union Square Venturess, Ribbit Capital, Blockchain Capital e il fondo Temasek Holdings di Singapore. I soci industriali comprendono Uber, Shopify, Spotify, Iliad, PayU oltre a una serie di partner in ambito cripto. Le trattative sono ancora allo stato iniziale e non ci sono garanzie che si arrivi alla finalizzazione del deal, anche a causa della difficoltà di valorizzare il valore di Diem in termini di proprietà intellettuale e competenze. Il wallet digitale Novi, la base dell’intera architettura, è già disponibile per alcuni utenti di WhatsApp e Facebook negli Stati Uniti, basandosi su Usdp, stablecoin che sembrava dover aprire la strada a Diem. Lo scorso anno aveva lasciato David Marcus, l’ideatore del progetto iniziale di Libra, sotto forma di una stablecoin legata a un paniere di valute (dollaro, euro, yen, sterlina) con l’ambizione di rappresentare l’economia globale. Poi l’attacco frontale di authority e istituzioni globali aveva spinto l’allora Facebook a ridimensionare il progetto a una criptovaluta legata al dollaro. Ma a mettere i bastoni tra le ruote della stablecoin di Diem è stata la Fed che non ha garantito di poter dare il via libera all’emissione di una valuta da parte di Silvergate Bank, la controllata che se ne sarebbe occupata. A preoccupare l’autorità monetaria Usa è il rischio che la creazione di una sorta di dollaro digitale, senza le adeguate coperture di riserve, potesse trasformarsi in una perdita del controllo sulla politica monetaria. L’assenza del via libera regolamentare ha indotto Zuckerberg a tornare sui suoi passi. Il progetto ha comunque avuto l’effetto in questi anni di accelerare i programmi delle valute digitali di Banca centrale in tutto il mondo. La Cina è ormai pronta a lanciare il suo yuan digitale in occasione delle imminenti Olimpiadi invernali.
Così la Cina cerca di lanciare un «modello Shanghai» per la compravendita di dati
È passata sotto silenzio in Italia la notizia che il 25 novembre ha iniziato la propria attività lo Shanghai Data Exchange (Sde), la Borsa di Shanghai per lo scambio dei dati, con l’obiettivo di creare lo “Shanghai Model” per la compravendita di dati. È una Borsa nella quale, appunto, si vendono e si comprano dati. Nella prima giornata di attività 100 società hanno sottoscritto gli accordi con la Sde e sono stati ammessi 20 data product (prodotti per l’analisi e l’utilizzo dei dati per supportare processi aziendali organizzativi o decisionali) relativi a 8 categorie di dati, quali finanza, trasporti e comunicazione. La Borsa dei dati di Shanghai è situata nel Zhangjiang High-Tech Park, a Pudong. Fra i protagonisti, giganti come State Grid Shanghai Municipal Electric Power Company, China Eastern Airlines, Commercial Bank of China, China Mobile e China Telecom. La Sde persegue, tra le altre cose, un obiettivo chiaramente strategico: superare le maggiori difficoltà nel commercio dei dati, fra le quali l’identificazione del soggetto che ha diritto di cederli (anche se non è corretto, secondo il nostro diritto, parlare di “proprietario” dei dati) e l’individuazione del valore e del prezzo dei dati. Anche se ci sono altre Borse per lo scambio di dati in Cina, ma la loro attività non è decollata perché questi problemi non sono stati risolti. Dunque un progetto molto ambizioso: realizzare e diffondere sul mercato globale lo “Shanghai Model”. Un obiettivo strategico importantissimo: quello di sviluppare un modello per il commercio dei dati, leader nel mercato internazionale e di trasformare Pudong in un hub internazionale per lo scambio di dati, stabilendo standard e sistemi di trading, comunicazione e management di dati. Mentre in Europa si discute, non senza pregiudizi ideologici, ma alla luce di un humus costituzionale assai differente in cui l’esigenza tutela dei diritti individuali è notoriamente più sentita, se i dati siano “beni”, in Cina decollano le iniziative commerciali per scambiare dati. Non solo, si elaborano anche modelli giuridici, economici e commerciali per lo scambio di dati. Il “Modello Shanghai” ha l’ambizione di risolvere i problemi che oggi rendono difficile la circolazione, alla luce del sole, dei dati. E dunque problemi certamente di privacy e di tutela dei dati: anche se circolano in forma anonima, cosa vuol dire anonimo in un ambiente interconnesso? Quale livello di anonimato è accettabile? Quanto deve essere costosa la reidentificazione? E ancora, con riguardo ai dati non personali, sempre più importanti per le imprese, come i dati relativi al funzionamento delle macchine, alle rilevazioni dei sensori, all'inquinamento, la domanda che frena la circolazione è: di chi sono? Chi ne può disporre? L’Europa sul punto ha prodotto solo scarne disposizioni nel Regolamento (Ue) 2018/1807 relativo a un quadro applicabile alla libera circolazione dei dati non personali nell’Unione europea. Oggi ad esempio producono dati non personali le networked car, ossia le vetture di nuova generazione che, dotate di sensori e di tecnologie in grado di comunicare con i dispositivi esterni, registrano i dati relativi al traffico e alle strade. Le informazioni ricavabili da questi dati possono avere svariati utilizzi: possono essere utilizzate per evitare il traffico, per migliorare le condizioni delle strade, per organizzare campagne pubblicitarie sulle strade e nelle stazioni di servizio o per programmare le ricostruzioni delle strade. Un altro caso è quello dei dati non personali generati e raccolti dagli impianti produttivi che, dotati di appositi sensori o rilevatori, generano e raccolgono dati personali nello svolgimento delle funzioni alle quali sono preposti. Questi dati racchiudono delle informazioni particolarmente preziose, che consentono di monitorare accuratamente lo stato di funzionamento di un sistema produttivo e, di conseguenza, ad esempio, di valutarne il carico di lavoro o di calcolare la probabilità che intervengano dei malfunzionamenti e quando. Oggi sui dati non personali pesa un’incertezza che ha due dimensioni. In primo luogo l’assenza di un regime giuridico che qualifichi la situazione giuridica che insiste sui dati e ne regoli la fattispecie.In secondo luogo la conseguente indeterminatezza circa il ruolo, i diritti e le facoltà di ognuno dei soggetti coinvolti nella filiera di creazione e trattamento del dato. Infatti, questi soggetti sono molteplici e ognuno di essi è spesso portatore di un proprio interesse. Nel caso delle networked car, si tratterà del proprietario dell’auto, di chi effettivamente utilizza l’auto, di chi l’ha prodotta, di chi ha prodotto i sensori o i macchinari di trasmissione applicati a essa e delle autorità pubbliche competenti rispetto alle strade. Nel caso degli impianti produttivi, invece, saranno l’impresa che svolge l’attività produttiva e chi ha prodotto i sensori o i macchinari che raccolgono i dati. Ognuna di queste parti presenta un collegamento con i dati e può essere titolare di un interesse che li riguardi. Ognuna di queste parti, in particolare, potrebbe avere interesse ad accedere ai dati e analizzarli ovvero a mantenerli riservati. E ancora, in un contesto completamente diverso, si pensi, alle opportunità per la ricerca scientifica. Gli esempi potrebbero essere moltissimi. È fondamentale chiarire e semplificare il regime giuridico della circolazione dei dati che costituiscono la base delle applicazioni di intelligenza artificiale. Il rischio dell’incertezza giuridica in un settore così strategico deve essere eliminato. Certo la Cina ha fatto un ulteriore passo avanti che sarà consolidato dal “Modello Shanghai”. Questo segue la Personal Information Protection Law (Pipl) in vigore dal 1° novembre 2021, la Data Security Law (Dsl), in vigore dal 1° settembre 2021, e la Cybersecurity Law (Csl) in vigore dal 1° giugno 2021. Queste norme sono supportate da un’ampia e articolata regolazione amministrativa. E, non a caso, lo stesso giorno di apertura della Borsa dei dati di Shanghai è stata emanata la Shanghai data regulation che attua Pipl, Csl e Dsl. Dunque, in Cina la strategia politica si accompagna a quella giuridica e nasce il “Modello Shanghai”. Se l’Europa non si riflette in questo modello deve elaborarne rapidamente un altro, che consenta, ad esempio, di valorizzare i dati (anche non personali) utilizzando il paradigma della licenza e non quello della proprietà, che definisca uno standard di pseudonimizzazione condiviso, che permetta ai soggetti a cui i dati si riferiscono (gli interessati) di trarre anch’essi un vantaggio dalla valorizzazione dei propri dati. Certo, un modello che necessariamente deve bilanciare i valori costituzionali europei con le esigenze di circolazione dei dati, ma pur sempre un modello chiaro e praticabile.
La Ue lancia la Carta dei diritti digitali a tutela degli utenti
Nel tentativo ancora una volta di regolamentare lo spazio digitale e proporre uno standard anche a livello internazionale, la Commissione europea ha presentato ieri una proposta di Dichiarazione sui diritti e i principi in campo digitale. L’iniziativa, che segue di pochi mesi due progetti di direttiva nello stesso settore, giunge in un contesto di grave incertezza, segnato da truffe finanziarie sulla rete, sorveglianza indebita, attacchi cibernetici e surrettizia disinformazione. «Vogliamo tecnologie sicure che siano utili ai cittadini e che rispettino i nostri diritti e valori – ha spiegato in una conferenza stampa qui a Bruxelles la commissaria alla Concorrenza Margrethe Vestager –. E questo include Internet. Vogliamo dare a tutti la possibilità di partecipare attivamente in una società in piena rivoluzione digitale. La dichiarazione ci offre un chiaro punto di riferimento quanto ai diritti e ai principi che governano l’ambiente online». Riassumendo, il testo stabilisce che il mondo digitale deve avere al suo centro la persona; che la tecnologia deve «unire e non dividere»; che l’ambiente online deve essere «equo»; e che le persone devono essere protette dai «contenuti illegali e dannosi». I cittadini devono avere il controllo dei propri dati in un contesto digitale che deve garantire sicurezza ai più giovani come ai più anziani. I dispositivi digitali devono infine «favorire la sostenibilità ambientale». La dichiarazione di otto pagine deve ora essere fatta propria dal Consiglio e dal Parlamento. Come detto, giunge dopo che la Commissione ha presentato due progetti di direttiva. Il primo regolamenta l’attività delle piattaforme internet secondo le regole della concorrenza. Il secondo precisa obblighi e impegni di chi offre servizi sulla Rete. La presidenza francese dell’Unione europea intende trovare un accordo tra Parlamento e Consiglio entro la fine del semestre. Sempre nella conferenza stampa di ieri, il commissario all’industria Thierry Breton ha detto che il testo proposto da Bruxelles ha «natura dichiarativa», e ha ricordato con l’occasione che i più giovani ormai passano oltre sei ore al giorno dinanzi a uno schermo. «La Dichiarazione dei diritti e dei principi digitali stabilisce una volta per tutte che ciò che è illegale offline dovrebbe essere illegale anche online. Abbiamo l’obiettivo di promuovere questi principi come standard a livello mondiale». Quest’ultimo punto è interessante. Sappiamo che Internet è uno straordinario strumento di libertà, ma sappiamo altresì che è relativamente poco regolamentata. In alcuni paesi il mercato è dominato dai giganti oligopolisti; in altri la mano dello Stato è onnipresente; in altri ancora Internet è addirittura un’arma nelle mani del governo. In questo contesto, la dichiarazione europea vuole diventare un modello nel mondo, come ha spiegato il commissario Breton. Commenta Ezio Perillo, ex giudice della Corte europea di Giustizia: «Una dichiarazione di questo tipo vincola in una certa misura politicamente e in parte anche amministrativamente le tre istituzioni – Commissione, Consiglio e Parlamento - che un giorno la firmeranno. Non vincola direttamente gli Stati membri». Ciò detto, l’obiettivo della Commissione europea è anche di offrire grazie a questa dichiarazione linee-guida al settore pubblico così come al mondo privato. Interpellato sul ruolo controverso di Pegasus, il commissario Breton ha criticato fermamente l’uso del programma informatico israeliano per spiare illegalmente i telefoni cellulari, ma non ha voluto prendere posizione sulla ritrosia di alcuni governi europei – la Polonia o l’Ungheria - nell’indagare formalmente casi di questo tipo. Più in generale la commissaria Vestager ha fatto notare l’importanza di trovare sempre un equilibrio tra l’obiettivo della privacy e la necessità di un ambiente digitale che sia sicuro per tutti.
pnrr, La fotografia (senza sconti) del suo cammino
S appiamo tutti che, come regola generale, l’operazione più difficile è sempre quella di passare dalle parole ai fatti. Sicuramente questo vale anche nel caso del Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza. L’occasione per l’Italia è davvero straordinaria: oltre 220 miliardi di euro per investimenti che possono cambiare la faccia del Paese, fondi resi disponibili dall’Unione europea a condizione che vengano fatte quelle riforme di cui si parla da almeno 30 anni ma che per il momento sono rimaste pure esercitazioni verbali.S appiamo tutti che, come regola generale, l’operazione più difficile è sempre quella di passare dalle parole ai fatti. Sicuramente vale anche nel caso del Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza. L’occasione per l’Italia è davvero straordinaria: oltre 191 miliardi di euro per investimenti che possono cambiare la faccia del Paese, fondi resi disponibili dall’Unione europea a condizione che vengano fatte quelle riforme di cui si parla da almeno 30 anni ma che per il momento sono rimaste pure esercitazioni verbali. Argomenti da convegni e dibattiti televisivi. Il governo Draghi ha il merito di avere presentato a Bruxelles un Pnrr credibile e averne ottenuto l’approvazione, portando a casa in agosto un prefinanziamento di quasi 25 miliardi che ha permesso di compensare parte dei danni provocati dalla pandemia. In più sono stati accesi i motori per assicurarne la realizzazione sia per quanto riguarda i progetti sia per le riforme. Ma occorre essere consapevoli che finora è stata fatta una piccola parte di strada, peraltro quella più facile del percorso. Adesso occorre lavorare per realizzare progetti e riforme. Consapevoli che la parte restante dei fondi arriverà secondo il meccanismo dell’avanzamento dei lavori. Il governo italiano dovrà documentare in sede europea lo stato dell’arte delle iniziative prese e i quattrini arriveranno solo se la tabella di marcia prevista verrà rispettata. Il che significa la moltiplicazione delle difficoltà e degli ostacoli. Insomma, la strada da seguire per l’applicazione del Pnrr diventa un sentiero, stretto e tutto in salita. Soprattutto per un Paese come l’Italia, che ha una tradizione di fondi europei non spesi proprio per l'incapacità di realizzare i progetti necessari. Ecco perché il gruppo Sole 24 Ore ha deciso, nel quadro delle iniziative messe in cantiere per il Festival dell'economia di Trento, di lanciare un Osservatorio sull’applicazione del Pnrr. Abbiamo cominciato da metà del dicembre scorso pubblicando una serie di articoli e d'inchieste che danno conto delle iniziative del governo, dei risultati raggiunti, delle difficoltà da superare. E continueremo a farlo con grande impegno, senza fare sconti a nessuno, perché il Pnrr ha le carte in regola per essere una occasione eccezionale di cambiamento del Paese ma, al contrario, potrebbe risultare una grande occasione mancata. Da oggi i risultati del nostro lavoro verranno raccolti in una iniziativa digitale: http://s24ore.it/osservatoriopnrr Così sarà disponibile in tempo reale la fotografia di quanto sta accadendo nel Paese sul fronte Pnrr. È il nostro piccolo, ma crediamo significativo, contributo per evitare che i ritardi finiscano per essere sottovalutati, gli errori passati sotto silenzio, le omissioni dimenticate. Il sito permetterà di avere un quadro aggiornato in tempo reale, che verrà presentato e discusso a Trento, in occasione del Festival dell’economia, dal 2 al 5 giugno prossimi.
Numeri, progetti, documenti: l’Osservatorio Pnrr è online
È online da oggi l’Osservatorio del Sole 24 Ore sull’attuazione del Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza. Un contenitore digitale dove trovare ogni giorno il lavoro di verifica della redazione del Sole 24 Ore sul piano. Una sorta di Rating 24 quotidiano, sul rispetto delle scadenze, su eventuali accelerazioni e ritardi, che abbiamo messo in cantiere nel quadro delle iniziative avviate per il Festival dell’economia di Trento. Analisi, articoli, norme e documenti . E infografiche di controllo dell’andamento del piano con il classico strumento dei semafori. E poi video per raccontare norme, numeri e andamento dell’attuazione del piano. Proprio il Festival dell’economia, che si svolgerà a Trento dal 2 al 5 giugno prossimi, sarà momento di verifica dello stato di attuazione del Pnrr. Per dare ai nostri lettori la possibilità di seguire da vicino, ogni giorno, l’andamento e le criticità che si verificano nelle sei missioni del piano: digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo; rivoluzione verde e transizione ecologica; infrastrutture per una mobilità sostenibile; istruzione e ricerca; inclusione e coesione; salute. Il solo dispositivo europeo di ripresa e resilienza garantisce risorse per 191,5 miliardi di euro, da impiegare nel periodo 2021-2026. E 68,9 miliardi sono sovvenzioni a fondo perduto. L’Italia intende inoltre utilizzare la propria capacità di finanziamento tramite i prestiti stimati in 122,6 miliardi. Insomma un piano che ha l’ambizione di consentire al sistema economico italiano, travolto dalle misure restrittive messe in campo per arginare il Covid 19, di consolidare la ripresa, specie nel momento in cui l’aumento dei prezzi delle bollette di luce e gas e la nuova ondata di contagi potrebbero rallentare la crescita del pil. Di qui l’esigenza di mantenere l’attenzione puntata sul Piano nazionale di ripresa e resilienza. L’Italia ha richiesto il massimo delle risorse disponibili. Dopo aver centrato nei tempi previsti i 51 traguardi e obiettivi indicati dal Piano nazionale di ripresa e resilienza per il 2021, nel 2022 andranno centrati 100 obiettivi, di cui 45 nei primi sei mesi, così da ottenere per l’intero anno uno stanziamento complessivo di 40 miliardi. L’Osservatorio è uno strumento concreto, di lavoro, una lente costantemente puntata su ciò che è stato fatto e, ancora di più, su ciò che ancora andrà fatto. Il punto di vista è quello che si sviluppa attraverso cinque sezioni . È il racconto di un viaggio, iniziato il 30 aprile dello scorso anno, con la presentazione da parte dell’Italia del Pnrr alla Commissione europea, e destinato a continuare fino al 2026.