STUPIDA RAZZA

mercoledì 26 gennaio 2022

La corsa al quirinale e il fattore d (debito)



T enete presente questo numero: 2,9 trilioni di euro. È il valore assoluto del nostro attuale debito pubblico, corrispondente al 158,5 per cento del Pil nazionale. Un'enormità. E adesso andiamo all'elezione del presidente della Repubblica per il prossimo settennato (2022-2029). Nonostante i tanti nomi fatti, chi potrà garantire, secondo voi, che quel debito rimanga sostenibile? Naturalmente, il presidente della Repubblica non governa, ma può impedire che il governo sgoverni. Sono poche le personalità con l'autorevolezza necessaria per vigilare affinché il governo si impegni a far crescere il Paese così da riassorbire quel debito. Non solamente sono poche, ma quelle personalità sono esterne alla politica (ai partiti). Come mai? Per alcuni politici, ciò è dovuto all'influenza esercitata da centri di potere antidemocratico. Per esponenti della sinistra, quei centri di potere hanno sovvertito il precedente governo Conte, creando le condizioni per il governo del “banchiere Draghi”.P er un ex premier di quell'area politica, Draghi è il rappresentante di «un capitalismo finanziario» che, diffidando dei partiti, lavora per sostituirli (nel governo del Paese) con i chief executive officers di banche e imprese. Per esponenti della destra, quei centri di potere agirono, dieci anni fa, per sovvertire il governo Berlusconi, creando così le condizioni per il governo del «tecnocrate Monti». Nella Prima Repubblica si parlava del “fattore K” (Kommunizm) che impediva alla sinistra di andare al governo. Ora si parla del “fattore D” (Draghi) che impedisce alla politica, non solo di sinistra, di governare il Paese. Le teorie del complotto, ricordava Isaiah Berlin, non spiegano nulla. Nel nostro caso, non spiegano come mai, dagli anni Novanta del secolo scorso, abbiamo avuto ben cinque premier non-membri del Parlamento, quattro dei quali (Ciampi, Dini, Monti e Draghi) economisti e banchieri indicati dal presidente della Repubblica. Il fatto è che, negli anni Novanta, si avviò il processo di integrazione monetaria che condusse all'adozione e circolazione dell'euro all'inizio del decennio successivo. La nomina di banchieri ed economisti per guidare i vari governi italiani è dovuta alle difficoltà dei partiti (non solamente perché indeboliti dalle inchieste giudiziarie di Mani Pulite) ad acquisire la capacità di governo adeguata al nuovo contesto europeo. La capacità di governo si esercita all'interno della Costituzione materiale, e non solo formale, di un Paese. Per Michael Wilkinson, la Costituzione materiale è fatta di aspetti formali (il sistema istituzionale, le procedure decisionali), di strutture sociali (l'organizzazione degli interessi, il funzionamento del mercato) e di predisposizioni culturali (le culture politiche, la visione dell'interesse nazionale). Buona parte della politica e dell'opinione pubblica italiane ha continuato a non comprendere che la Costituzione materiale, ereditata dalla Prima Repubblica, era divenuta incompatibile con la nostra partecipazione all'Eurozona. Infatti, la logica di funzionamento di quest'ultima richiede governi stabili e non instabili, organizzazioni di interesse responsabili e non corporative, mercati aperti e non protetti, oltre ché con un'idea condivisa di interesse nazionale. Eppure, poco o nulla è stato fatto per ridurre l'incompatibilità. Certamente, non sono mancati tentativi per riformare componenti di quella Costituzione (si pensi, da ultimo, al referendum costituzionale promosso dal governo Renzi nel dicembre 2016), ma quei tentativi sono generalmente falliti. La predisposizione conservativa della politica e di molti elettori ha resistito come una colla che non si scolla. Il risultato, per dirla con Adam Tooze, è che, in termini reali, «nel 2019 il Pil italiano era del 4% al di sopra del Pil del 2000, mentre in Francia era cresciuto del 16% e in Germania del 25%». Naturalmente, la crisi finanziaria del 2008-2011 ha accentuato l'incompatibilità, così come l'arrivo della pandemia l'ha resa più acuta. Se nel 1987 l'Italia poteva vantarsi di avere superato il Regno Unito come Pil nominale, nei decenni successivi essa è sistematicamente declinata (in termini comparativi e storici). Dalla fine del primo decennio degli anni Duemila, il nostro Paese continua a camminare sull'orlo di un vulcano, con un debito pubblico che cresce, una produttività che decresce e un sistema istituzionale disinteressato al governo. La governance dell'Eurozona non ci ha certamente aiutato, ma non risiede lì la causa unica dei nostri problemi. La politica italiana non è riuscita a promuovere le riforme (interne) richieste dalla nostra partecipazione all'Eurozona, né si è dotata dell'autorevolezza e competenza necessarie per promuovere le riforme (esterne) di quella stessa governance. I fondi di Next Generation EU potrebbero aiutarci a interrompere il ciclo, avviando la crescita che renderà sostenibile il nostro debito. Ma ciò richiede una politica che riformi il Paese (e un Paese che sia disposto a riformarsi). La “D” che ostacola il governo dei partiti non deriva da Draghi ma da Debito. Insomma, l'elezione del presidente della Repubblica ripropone la debolezza della nostra politica. Dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso, essa non è riuscita ad adeguare la propria funzione rappresentativa alle responsabilità decisionali richieste dall'integrazione monetaria. Ecco perché, oggi, si è costretti a ricorrere alla nonpolitica per garantire, anche dal Quirinale, la sostenibilità di quei 2,9 trilioni di euro. Ma non può essere sempre così. Senza una buona politica, infatti, non c'è una buona democrazia.

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