STUPIDA RAZZA

lunedì 31 gennaio 2022

Dalla Tap al Gnl, Bruxelles tenta di tagliare la dipendenza da Mosca


Da molti anni l’Europa coltiva un sogno: affrancarsi dal giogo energetico della Russia. Eppure nel corso del tempo, nonostante gli appelli e le buone intenzioni, la dipendenza europea da Mosca, invece di ridursi, è cresciuta. Nel 2021 il gas russo ha così rappresentato il 39% dei consumi complessivi dell’Unione Europea (pari a 402 miliardi di metri cubi). Oggi, davanti a una potenziale invasione russa in Ucraina, Bruxelles guarda con apprensione a tutte le potenziali alternative. Sa che presto potrebbe abbattersi la tempesta perfetta. L’operazione in Ucraina, e le conseguenti sanzioni contro Mosca, potrebbero generare delle rappresaglie commerciali. Come se non bastasse il contesto attuale ha il sapore di una beffa; la più grave crisi geopolitica alle porte del Vecchio Continente da diversi anni arriva proprio quando i prezzi del gas venduti in Europa sono quasi quintuplicati in otto mesi, toccando un record a fine dicembre. Finora Gazprom è stato un partner affidabile. E comunque per un’economia come quella russa, con un Pil decisamente inferiore a quello tedesco, privarsi di parte dell’export di gas verso gli storici clienti provocherebbe gravi danni economici, oltreché che di immagine. Ma davanti a una crisi di questa portata, e alle durissime sanzioni minacciate da Washington, chi può garantire che Mosca non reagirà con l’arma del gas? Peraltro proprio dai vecchi gasdotti ucraini transita un terzo del metano diretto in Europa. Bruxelles deve ora fare i conti con un’amara constatazione. La sua politica energetica è stata miope. Ognuno è andato per la sua strada. Il gasdotto Tap, che collega i giacimenti azeri del Caspio, ha una capacità di soli 10miliardi di metri cubi l’anno. Poteva essere raddoppiato da tempo. Ora si tenta ogni strada. Così il 4 febbraio la commissaria Ue per l’Energia Kadri Simson si recherà a Baku per la riunione del Consiglio consultivo del corridoio del gas meridionale. Al centro dell’agenda l’aumento delle forniture attraverso il Tap e le possibili opzioni per l’estensione del Corridoio meridionale del gas verso nuovi mercati energetici. Gli altri progetti infrastrutturali, tra cui l’ambizioso gasdotto sottomarino EastMed (che dovrebbe collegare i grandi giacimenti di gas israeliani e quelli ciprioti alle coste greche) sono ancora da approvare. «Tutte o quasi le scelte politiche europee in questo campo sono state indirizzate verso la transizione energetica. Ci si è concentrati sull’ambiente e sono stati trascurati altri due aspetti fondamentali: la sicurezza e la competitività dei prezzi», spiega Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia. In questa tempesta perfetta, le major energetiche occidentali , complice il crollo dei prezzi petroliferi dall’estate del 2014, hanno fatto la loro parte disinvestendo nei giacimenti di idrocarburi (spesso gas e greggio si trovano insieme), soprattutto in Medio Oriente ma in parte anche in Nord Africa. «Gli investimenti in campo energetico hanno costi enormi e tempi di rientro molto lunghi, continua Tabarelli -. I giacimenti di gas e petrolio vanno poi “coltivati”, ovvero seguiti con la dovuta manutenzione, affinché non si deteriorino prima del tempo. Il crollo della redditività (dal giugno del 2014 al gennaio del 2016 il prezzo del greggio è scivolato da 114 a 28 dollari al barile) e la quasi contestuale svolta dalla Conferenza di Parigi, a fine 2015, hanno spinto diverse compagnie, anche di Stato, a investire molto di meno negli idrocarburi». In questa Europa che è andata in ordine sparso, c’è tuttavia chi sta pagando più di altri il problema dei prezzi del gas e dell’esposizione energetica. «L’Europa è l’area nel mondo che soffre di più il problema dei prezzi alti. E l’Italia è il Paese europeo che ne risente più di tutti», spiega al Sole 24 Ore Claudio Spinaci, presidente di Unem (Unione Energie per la Mobilità), l’ex Unione petrolifera italiana. D’altronde l’Italia è forse il Paese più vulnerabile. Importa il 90% dell'energia che consuma. «Il mix energetico europeo, ma soprattutto, italiano va maggiormente diversificato – aggiunge Spinaci -. La transazione energetica deve essere sostenibile. È bene ricordare che il 40% delle fonti energetiche italiane proviene dal gas naturale». Una proporzione troppo alta. Non è così in Francia, in Germania, o in Spagna. Se poi si considera che la Russia copre il 40% dell’import italiano di gas, la vulnerabilità italiana emerge ancor di più. Fare nuovamente affidamento sulla tormentata Libia, di questi tempi, potrebbe rivelarsi incauto. Cosa fare, dunque? La soluzione immediata, pur non sufficiente, sarebbe intensificare gli acquisti di gas naturale liquefatto (Lng). I rigassificatori europei sono ampiamento sotto-utilizzati. Potrebbero ricevere circa 230 miliardi di metri cubi di gas l’anno. Il problema è piuttosto un altro. Dove acquistare così tanto Lng, e in così poco tempo? Il Qatar è il primo esportatore mondiale. Le sue navi stanno girando il mondo. Come peraltro quelle di altri produttori. Ma la concorrenza è serrata. I Paesi asiatici già assorbono i tre quarti import globale di Lng. La domanda in America Latina è quasi raddoppiata nel 2021. «Dobbiamo sfruttare al massimo gli acquisti di Lng in giro per il mondo – continua Spinaci - . Ma non sarà facile. Il processo cinese di decarbonizzazione ha fatto esplodere i loro consumi di gas». In ogni guerra, o crisi, c’è chi perde e chi ci guadagna. Tra questi ultimi ci sono gli Stati Uniti. La esportazioni americane di Lng in Europa stanno crescendo sensibilmente. Ma non è affatto energia verde. «Si tratta del gas americano estratto con la tecnica del fracking (shale gas). Il prezzo, compreso, il trasporto ed i costi di liquefazione si aggira sui 23 euro megawatt/ora. Pensate che il gas in Europa costa oltre 90 euro megawatt. Se fosse fatto partire il Nord Stream 2, è già tutto pronto, i prezzi scenderebbero presto». Ma del gasdotto con la Russia voluto da Angela Merkel Washington non vuole proprio sentir parlare. Ma in caso di stop delle forniture russe cosa accadrebbe? Tutti ricordano i fatti del 2006 e del 2009. Allora le controversie sui prezzi portarono a interruzioni delle forniture russe. Nel 2009 avvenne in pieno inverno e durò quasi due settimane. La Slovacchia e alcuni Paesi balcanici dovettero razionare il gas, chiudere fabbriche e tagliare le forniture elettriche. Oggi l’Europa è più preparata. La capacità di stoccaggio è più ampia, come ha evidenziato l’analista Julian Lee, di Bloomberg. Le misure a favore della concorrenza (come il divieto di “clausole sulla destinazione” che vietano la rivendita del gas) hanno indebolito la “presa” di Gazprom. «Complici i buoni livelli degli stoccaggi, soprattutto in Italia, per qualche giorno possiamo resistere, anche qualche settimana. – conclude Tabarelli - Ma se il conflitto durasse mesi, la situazione diverrebbe insostenibile». «La Francia ha comunque il nucleare, la Germania dispone del carbone. L’Italia è più vulnerabile. Il costo energetico sulle nostre aziende sta diventando insostenibile. La concorrenza straniera rischia di travolgerle», conclude il presidente di Unem. Insomma, se Mosca interrompesse i flussi, come sottolinea l’Economist, l’Europa potrebbe resistere meglio di quanto crediamo. Sarebbe un colpo al portafoglio più che una mancanza concreta di energia. Il problema è che il portafoglio di alcuni Paesi sarebbe decisamente più svuotato. Con tutte le conseguenze del caso.

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