STUPIDA RAZZA

domenica 30 gennaio 2022

Quando la Fed stringe la cinghia Wall Street sale

 

L’inflazione, quindi, arrivava più dall’offerta (aumenti dei prezzi delle materie prime) che dalla domanda.

E L'ECONOMIA STA ANDNADO BENE.......? (🤔🤣🤔🤣)

La Fed non cambia linea e traccia un percorso di strette monetarie. Quel che è ormai certo è che si parte «a breve». La durata del programma invece verrà scandita dagli eventi, dai dati macro, in particolare da inflazione ed occupazione, i due sorvegliati speciali dalla banca centrale statunitense. Tassi più alti fanno rima con rendimenti obbligazionari più attraenti. Questo vuol dire che i mercati azionari sono destinati a soffrire la competizione dei bond? Il passato, che certo non può essere mai considerato anticipatore del futuro, offre comunque importanti spunti di riflessione. Soprattutto se consideriamo che, contrariamente a quanto si possa immaginare, nei 12 cicli di rialzo dei tassi impostati dalla Federal Reserve dagli anni ’50, in 11 casi su 12 (quindi il 91%) l’S&P 500 ha registrato un rialzo annuo del 9%. Il dato più elevato risale al 1958-1959 quando l’indice azionario realizzò una performance annua del 24,5%. Molto bene anche il responso del periodo 1987-1989 (+16,2%). Nell’ultima tornata di strette - quando dal 2015 al 2018 la Fed ha alzato per nove volte il costo del denaro portandolo dallo 0,5% al 2,5% - il più grande paniere azionario statunitense è salito ogni anno al ritmo dell’8,4%. L’unico precedente in rosso risale al 1972- 1974, quando la Borsa si avvitò con un calo annuo dell’8,6%. I dati quindi ci raccontano che Wall Street, al contrario delle apparenze, è abituata a convivere piuttosto bene con le fasi in cui la Fed stringe la cinghia. Come mai? Innanzi tutto perché il nemico numero uno degli investitori non sono i tassi ma l’incertezza. Quindi la volatilità e le correzioni azionare solitamente arrivano prima che il sentiero venga tracciato con chiarezza. Lo dimostra questo turbolento inizio d’anno. Prima del meeting terminato ieri - con il governatore Jerome Powell che difatti anticipato il piano che intenderà seguire nei prossimi mesi, con la fine del tapering a marzo e rialzo dei tassi a breve - i mercati sono arrivati molto nervosi e pieni di dubbi tanto sul fronte tassi (quanti aumenti e quando?) quanto sul fronte della riduzione del bilancio, arrivato alla cifra monstre di 9mila miliardi di dollari e simbolo inequivocabile dell’espansione monetaria senza freni degli ultimi anni. Un nervosismo che ha portato il Nasdaq ad arrivare a perdere nel momento di volatilità più acuto fino al 18% e l’S&P 500 quasi al 10%. Quando il quadro è fosco, in preda all’incertezza e all’ansia, gli investitori vanno spesso a scontare gli scenari peggiori possibili. Per non essere poi colti alla sprovvista. C’è poi un altro motivo, meno psicologico e più di natura fondamentale. Non va dimenticato che quando una banca centrale alza il costo del denaro, nella maggior parte delle casi lo fa per evitare che l’effervescenza dell’economia generi un livello di inflazione troppo elevato. Il dato di fondo è però molto buono: un’economia in salute. Fin troppa. Ciò vuol dire che le aziende quotate in Borsa stanno generando utili e ricavi in crescita e di conseguenza le quotazioni tendono ad apprezzarsi. Questo vuol dire che anche al nuovo giro che la Fed sta per avviare andrà tutto bene? Nessuno ha la sfera di cristallo per dirlo. Tuttavia bisogna fare molta attenzione. La lezione che ci dà il passato è, infatti, che nell’unico caso in cui Wall Street è andata giù durante le fasi di rialzo dei tassi risale al 1972-1974. Un periodo molto delicato per il mondo occidentale che dovette affrontare una brusca carenza di petrolio e il conseguente aumento spropositato dei prezzi dell’energia. L’inflazione, quindi, arrivava più dall’offerta (aumenti dei prezzi delle materie prime) che dalla domanda. E questo è un punto che accomuna quella difficile fase storica con i tempi attuali. Perché dietro quel 7% di inflazione generata a dicembre negli Usa una fetta importante è legata ai prezzi dell’energia. E dietro quel 5,5% di inflazione “core” (depurata da alimentari ed energetici) c’è comunque il rincaro di tante altre materie prime i cui valori nell’ultimo anno si sono impennati per i vari colli di bottiglia alla catena di produzione. Quindi anche adesso ci troviamo ad affrontare un’inflazione che nasce da problemi legati all’offerta. Quelli più difficili da affrontare per un mercato azionario. C’è però una grande differenza rispetto 1972- 1974: allora non c’era quell’abbondante liquidità che circola oggi nelle sale finanziarie. In questo contesto i mercati avranno quindi il loro bel da fare nei prossimi mesi. 



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