STUPIDA RAZZA

domenica 27 febbraio 2022

Gli esperti avevano avvisato la Nato

L’allargamento a Est di Europa e Nato è stato uno dei combustibili dell’i n ce n dio divampato in Ucraina: dal miope espansionismo economico di Angela Merkel, al caos nei Balcani ereditato da Federica Mogherini. Sullo sfondo, i moniti inascoltati dei politologi realisti: portare l’Alleanza atlantica fino ai confini russi avrebbe provocato una tragedia.Eravamo stati avvisati. Ce lo avevano detto i più brillanti studiosi di politica internazionale: portargli la Nato sulla soglia di casa avrebbe spinto Vla - dimir Putin a scatenare la guerra. Nella percezione del Cremlino, per esigenze difensive, più che per ambizioni imperialiste: l’Orso, già indebolito dallo sgretolamento dell’Urss, pretendeva una cintura di sicurezza attorno ai propri confini. Stringerlo a tenaglia significava indurlo a reagire con una zampata. Già nel 1997, il teorico del contenimento, George Kennan, fu esplicito: allargare a Est la Nato «sarebbe il più tragico errore della politica americana» nell’era postsovietica. Il diplomatico, che invero, nel 1949, criticò l’idea stessa di istituire l’Alleanza atlantica, sapeva che l’espansione verso Oriente avrebbe «infiammato le tendenze nazionalistiche, anti occidentali e militariste nell’opinione pubblica russa», danneggiando il processo di democratizzazione nella Federazione e restaurando «l’at - mosfera della guerra fredda». Una profezia inascoltata: nonostante, dopo la caduta del Muro di Berlino, Michail Gorbac iov avesse incassato l’assi - curazione verbale che la Nato non si sarebbe «spostata a Est di un millimetro», l’ammini - strazione Clinton, negli anni Novanta, diede nuovo impulso all’ampliamento del sodalizio militare. All’epoca, persino il presidente del Consiglio italiano, Romano Prodi, lucidamente invocava un approccio cauto: l’accrescimento dell’A lleanza non doveva suscitare più tensioni di quante ne avrebbe potute eliminare. Niente da fare: anzitutto ci fu la ratifica dell’ingresso di Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia; poi, arrivarono Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Slovenia. Finché, nel 2008, Washington iniziò a premere per l’am - missione di Georgia e Ucraina. L’accelerazione di Tblisi, con tanto di riannessione di Abcasia e Ossezia del Sud, innescò la prima reazione armata di Mosca. Un incidente che avrebbe dovuto far suonare, a Occidente, un campanello d’allarme. Invece, Stati Uniti ed Europa hanno continuato a perseguire l’imprudente strategia anche con Kiev. Nel 2014, all’indomani degli eventi di piazza Maidan e della destituzione del governo filorusso, fioccarono gli interventi critici della scuola realista. John Mearsheimer, ad esempio, vergò un saggio dal titolo eloquente: Perché la crisi ucraina è colpa dell’O c c id e n te. A suo parere, Putin sa rebbe passato alle vie di fatto, occupando la Crimea, per tre motivi: primo, perché la Nato si stava trasferendo «nel giardino della Russia»; secondo, perché l’Ue si stava espandendo e, terzo, perché essa aveva sostenuto «il movimento pro democrazia», a partire dalla Rivoluzione arancione del 2004. «Quando i russi guardano all’ingegneria sociale occidentale in Ucraina», scriveva Mear - s h ei m e r, «temono che il loro Paese possa essere il prossimo sulla lista. E tali paure difficilmente risultano infondate». Alla faccia del Puti n auto c rate psicotico: «L’Ucraina svolge la funzione di Stato cuscinetto, che è di enorme importanza strategica per la Russia. Nessun leader russo sarebbe rimasto immobile, mentre l’Oc - cidente dava una mano a installare un governo determinato a integrare l’Ucraina» con Usa ed Europa. E intravedendo la prospettiva che la Federazione, tenuta sotto tiro da missili e truppe, fosse tagliata fuori dagli sbocchi sui mari caldi. Il punto, osservò M ea rsh eim e r, era che «Washington può non gradire la posizione di Mosca, ma dovrebbe comprendere la logica che c’è dietro». Ecco: «comprendere». L’alterna - tiva è la spirale degli slogan psicologisti e moraleggianti: Pu - ti n pazzo, dittatore, male assoluto. Sarà vero, ma ciò non esenta dal bisogno di ricorrere all’analisi razionale. Otto anni fa, anche Henr y K i s s i n ge r, sul Washington Post , intervenne nel dibattito sulla crisi ucraina, aperto dall’editoriale bellicista di Zbig niew Brzez i n s k i , consigliere per la sicurezza nazionale durante la presidenza di Jimmy Carter. Con molto equilibrio, il veterano della diplomazia americana tirava le orecchie sia all’in - quilino del Cremlino («Dovrebbe capire che, quali che siano le sue rimostranze, una politica di imposizioni militari produrrebbe un’altra guerra fredda»), sia agli Usa e all’Eu - ropa, che non potevano ignorare il legame storico e strategico di Kiev con la Russia. Kis - s i n ge r, meno radicalmente di M ea rs h ei me r, sosteneva che l’Ucraina, pur non condannata al ruolo di Stato cuscinetto, potesse essere, sì, lasciata libera di aderire all’Ue, ma non alla N at o. Negli ultimi giorni, su Forei - gn Policy, è intervenuto pure Stephen Walt, che era stato chiarissimo già nel 2015: allargare la Nato ai Paesi dell’ex blocco sovietico è «un obiettivo pericoloso e non necessario». Il politologo ha contestato le perniciose ideologiche illusioni della diplomazia liberal, rimarcandone l’i n c apac i tà di convincere Mosca delle «benevole intenzioni della Nato». La Russia non ci ha mai creduto - e non per una perversa malizia dello zar. «I russi si guardano indietro», spiega alla Ve - rità Germano Dottori, docente di studi strategici alla Luiss. «Ricordano che, negli anni Venti del Novecento, i loro soldati si addestravano con l’eser - cito di Weimar. Poi, con i tedeschi, nel 1939, si spartirono la Polonia. Eppure, il 22 giugno del 1941, Adolf Hitler attac c ò l’Unione sovietica. Le intenzioni cambiano nel tempo». E il Cremlino non solo non vuole offrire un vantaggio strutturale agli avversari, ma ha pure paura dell’«esportazione del modello delle rivoluzioni colorate». Eugenio Di Rienzo, autore, nel 2015, per Rubbettino, di un volume sul Conflitto russoucraino: geopolitica del nuovo dis(ordine) mondiale, sostiene addirittura che «Puti n , in una qualche misura, sia stato costretto a questo conflitto. Gli era stato assicurato che non fosse nell’agenda l’entrata dell’Ucraina nella Nato. Lui, però, pretendeva una garanzia scritta, pensando a quello che era successo a G o r bac iov e paventando che l’impegno dichiarato si riducesse a un protocollo diplomatico». Il messaggio degli esperti, da anni, è inequivocabile: piaccia o meno il regime di Puti n , portare l’Alleanza atlantica alle frontiere dello zar è un azzardo. La Russia considera tale intento una minaccia esistenziale. Quel monito è stato ignorato. Il prezzo della temeraria sfida, oggi, è il sangue.


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