STUPIDA RAZZA

sabato 26 febbraio 2022

Simone Weil, l’intellettuale afflitta dalla vocazione all’annientamento

 

Cercherò di parlare di Si-
mone Weil facendo astrazio-
ne dall immenso alone di
commenti, discussioni e leg-
gende che circondano oggi la
sua figura. Dimenticherò an-
che momen taneamente la
sua opera, per risuscitare
questo essere sconosciuto e,
per così dire, «caduto dal cie-
lo», che per un momen to
condivise la mia esistenza.
[...]
Il mio amico di sempre, pa-
dre Pe r r i n, mi aveva chiesto
di accoglierla a casa mia per
iniziarla alla vita agricola.
Non mi sono oggi molto chia-
ri i motivi che mi hanno fatto
rispondere di sì. Il primo era
forse il desiderio di non rifiu-
tare niente a un amico. Biso-
gna anche dire, poiché la be-
nevolenza allo stato puro è
rara, che mi trovavo ancora
in quelletà della vita in cui si
è avidi di nuove conoscenze.
Nelle poche lettere che allora
Simone Weil mi indirizzò per
precisarmi le esigenze della
sua momentanea vocazione
di «garzona di fattoria», tra-
sparivano già i due grandi,
contraddittori impulsi la cui
tensione suscitò in lei lespe-
rienza più patetica della mi-
seria umana e della croce e le
impedì allo stesso tempo di
pervenire alla suprema sere-
nità: da una parte un bisogno
di cancellazione assoluta,
u napertura senza limiti alla
realtà, anche nelle sue forme
più dure, e, dallaltra, una
terribile volontà propria nel
cuore stesso della privazio-
ne, il desi derio inflessibile
che questa privazione fosse
opera sua e si realizzasse at-
traverso le vie che lei aveva
tracciato, la tentazione divo-
rante di verificare tutto dal di
dentro, di tutto provare - nei
due sensi del termine - in sé
stessa e fuori di sé stessa.
[...]
Dopo un breve scambio di
corrispondenza, vidi arriva-
re Simone Weil (le avevo pro-
posto di trascorrere qualche
settimana a casa mia per ini-
ziarsi ai diversi lavori agrico-
li, in attesa di divenire davve-
ro garzona di fattoria presso
un grosso proprietario dei
dintorni). Come narrare que-
sto primo colloquio? Non vo-
glio parlare del suo aspetto
fisico (non era brutta, come
si è detto, ma prematura-
mente ingobbita e invecchia-
ta a causa dell ascetismo e
della malattia, e solo i suoi
ammirevoli occhi restavano
a galla in quel naufragio della
bellezza), né del suo abbiglia-
mento bizzarro e del suo in-
verosimile bagaglio (ignora-
va magnificamente non sol-
tanto i canoni delle l ega n za ,
ma perfino le elementari abi-
tudini che permettono di
passare inosservati); dirò so-
lo che quel contatto iniziale
suscitò in me sentimenti
molto differenti, forse del -
lantipatia, ma almeno al-
trettanto penosi. Ebbi lim-
pressione di trovarmi di
fronte a un essere radical-
mente estraneo a ogni mio
modo di sentire e di pensare,
a tutto ciò che per me rappre-
senta il senso e il sapore della
v i ta .
Fu, in una parola, la rivela-
zione dei miei antipodi: mi
trovavo spaesato davanti a
una terra nuova e a stelle sco-
nosciute. Ignoravo ancora
che, se non fossimo guidati
dagli stessi astri, le nostre
anime si congiungerebbero
nello stesso cielo. La mia sola
impressione positiva fu un
sentimento di rispetto in -
condizionato per un essere
di cui, attraverso tutte le no-
stre divergenze intellettuali
e affettive, presagivo oscura-
mente la grandezza unica.
Questo sentimento di «vene-
razione» si accrebbe ulte-
riormente quando, dopo
averla lasciata qualche istan-
te per ricevere un visitatore,
la ritrovai davanti alla casa,
seduta su un tronco, immer-
sa nella contemplazione del-
la valle del Rodano. Vidi allo-
ra il suo sguardo emergere a
poco a poco dalla visione per
ritornare alla vista; linte n s i-
tà, la purezza di quello sguar-
do erano tali che si sentiva
che contemplava abissi inte-
riori, contemporaneamente
allo splendido orizzonte che
si apriva ai suoi piedi, e che la
bellezza della sua anima cor-
rispondeva alla delicata mae-
stà del paesaggio.
Un aspetto più ruvido del
suo carattere emerse non ap-
pena bisognò procedere alla
sua sistemazione in casa.
Trovando la nostra umile ca-
sa troppo confortevole, rifiu-
tò la camera che le offrivo e
volle a ogni costo dormire al-
laperto. Allora mi arrabbiai
e, dopo lunghe discussioni,
finii per cedere. Il giorno se-
guente si giunse a un com-
promesso: i miei suoceri pos-
sedevano allepoca una ca -
setta semidistrutta sulle rive
del Rodano, nella quale la si-
stemammo, non senza qual-
che complicazione per tutti:
altrimenti tutto sarebbe sta-
to tanto più semplice! Potrei
citare cento episodi dello
stesso tipo: lei che, per il suo
piacere o il suo bisogno, non
avrebbe accettato il più pic-
colo sacrificio del prossimo,
sembrava non tener conto
delle complicazioni, e persi-
no delle sofferenze, che in-
troduceva nella vita degli al-
tri non appena si trattava di
realizzare la sua vocazione
allannientamento.
La sua ricerca della sco-
modità nelle piccole cose e
della sventura nelle grandi le
faceva trascurare le conse-
guenze incresciose in termi-
ni di scomodità e di sventura
che potevano ricadere su
quanti le erano accanto. For-
se la sua umiltà pensava pure
che, non essendo degna di
essere amata, non rischiava
di far soffrire molto. Un gior-
no, dopo avermi pregato di
intervenire presso le autori-
tà di Vichy in favore di un
rifugiato spagnolo deportato
in Algeria, mi chiese brusca-
mente di giurarle che non
avrei fatto niente qualora
fosse stata imprigionata a
sua volta. Protestai (i suoi ge-
nitori, il giorno prima, mi
avevano fatto promettere
esattamente il contrario) e,
infine, le dissi: «Invertiamo i
ruoli: vi farebbe piacere che,
essendo voi libera, io fossi in
prigione?». Alzò leggermen-
te la testa e mi rispose con un
lampo smorzato nello sguar-
do: «Non lo sopporterei». Fu-
rono, credo, le parole più af-
fettuose che mi abbia detto.
Ma perché, di fronte alla
stessa possibilità di sofferen-
za - assistere passivamente
alla sventura di una persona
amata - usava, per me e lei,
criteri di valutazione così di-
versi? Ebbi come un gelido
segnale dellegoismo tra -
scendentale delle ro e.
Ho appena pronunciato
una parola severa, e che esige
tante più sfumature in quan-
to è in parte vera. Luo m o
religioso non pensa che a sé
stesso, diceva Nietzsch e. È
giusto in tutti i sensi per quei
devoti di qualità inferiore
che trascurano i loro doveri
più evidenti per seguire una
vocazione chimerica, ed è
ancora giusto, in un certo
senso, per gli eroi e i santi che
non hanno realizzato in essi
la suprema spoliazione. So
bene che non è egoismo ob-
bedire a Dio piuttosto che
agli uomini, e che i grandi
ispirati hanno altro da fare
che preoccuparsi dei graffi e
delle ferite che la loro docili-
tà allo Spirito può provocare
nei poveri esseri che il caso
ha messo loro accanto. So,
altresì, che questo aspetto di-
sagevole del carattere di Si-
mone Weil è tipico di molte
anime eroiche [...]: un Fra n-
cesco dAssisi, una Giova n n a
dA rc o, non esitarono mai a
far soffrire il loro prossimo
vicino per rispondere allap-
pello della loro vocazione
lonta n a .
E tuttavia penso, nel caso
preciso di Simone Weil, che
questa tensione, questa rigi-
dità nellobbedienza alla pro-
pria vocazione costituissero
un segno, non certo di inau-
tenticità, ma di asprezza, di
immaturità della sua vita
spirituale. I frutti migliori re-
stano duri finché sono acer-
bi. Questa nozione di imma-
turità mi sembra particolar-
mente preziosa per chiarire
certi contrasti della condotta
e del pensiero di Simone Weil
e, in primo luogo, lenigma
del suo duplice atteggiamen-
to nei confronti di sé stessa e
del prossimo. Voleva dimen-
ticare sé stessa e si ritrovava
persino in questo oblio; ama-
va il prossimo con tutto il suo
essere, ma la sua abnegazio-
ne troppo spesso passava a
lato dei veri desideri e dei
veri bisogni degli altri.

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