STUPIDA RAZZA

lunedì 18 luglio 2022

Dal debito con la Cina al default: Sri Lanka monito per il Pakistan

 

N el luglio del 2019 la World Bank promosse lo Sri Lanka al rango di upper middle income country, un Paese a reddito medio alto. Oggi – a pochi mesi dal default, con l’inflazione al 54% e nel mezzo di una crisi istituzionale senza precedenti – c’è un’altra organizzazione internazionale in missione a Colombo, il World Food Programme. I suoi operatori distribuiscono voucher alle donne incinte che non sono più in grado di comprare cibo. La parabola che in soli 3 anni ha portato questa isola di 22 milioni di abitanti a passare da Asian success story a international basket case, come il neonato Bangladesh per il quale Henry Kissinger coniò la sprezzante definizione nel 1972, merita di essere raccontata anche al di là della sua tragica dimensione umana. Non solo perché è un primo test di cosa implica prendere soldi a prestito da un Paese come la Cina che non aderisce alle regole del Club di Parigi, ma anche perché il vicino Pakistan – 227 milioni di abitanti, 165 testate nucleari e 41 miliardi di dollari di debiti in scadenza nei prossimi 12 mesi in parte proprio con Pechino – sta trattando con l’Fmi per non fare la stessa fine (mercoledì gli sherpa hanno raggiunto un primo accordo preliminare). L’implosione dello Sri Lanka è stata rapida e le premesse sono state create negli anni di potere di Mahinda Rajapaksa, già presidente, oggi ex premier cacciato a furor di popolo e Gotabaya Rajapaksa, già segretario alla Difesa, oggi ex presidente in fuga a Singapore. La stagione politica dei fratelli Rajapaksa è stata contrassegnata da tagli alle tasse ed enormi investimenti a leva, tra cui diversi vanity project finanziati da capitali cinesi nella loro constituency elettorale: il fallimentare Hambantota International Port, ora in appalto per 99 anni a un operatore cinese; il Mattala Rajapaksa International Airport, dove ad aprile e maggio non è atterrato un solo volo di linea; il Mahinda Rajapaksa International Cricket Stadium, in cui non si gioca quasi mai. Una montagna di debiti a cui sarebbe bastato un temporale per franare a valle e che in un triennio è stata travolta da una tempesta perfetta: l’industria turistica che, tra gli attentati della Pasqua del 2019 e la pandemia, è passata da 2,3 milioni di arrivi del 2018 a meno di 195mila del 2021 (quest’anno toccherà fare i conti con il fatto che il 13% dei viaggiatori proveniva da Russia e Ucraina); i prezzi di carburanti e cibo che volano spinti da  rimbalzo post-Covid e guerra; il tracollo della produzione agricola locale causato da una scellerata “svolta bio” e dal divieto di importare fertilizzanti chimici, così da non intaccare le sempre più modeste riserve di valuta estera; la decisione della Banca centrale di fissare un tasso di cambio con il dollaro che ha dirottato sui canali informali le rimesse di denaro dall’estero, crollate ai minimi da 10 anni. Il risultato – spiega Gareth Price, senior research fellow dell’Asia-Pacific programme di Chatham House, un think tank britannico – è che «oggi ci troviamo in un territorio sconosciuto». In questi casi, spiega, «di norma si negozia un pacchetto di aiuti e riforme per fare rimbalzare l’economia, ma quella dello Sri Lanka è bloccata da una miriade di problemi e non puoi farla ripartire se il Paese di fatto si regge sugli aiuti alimentari indiani. Siamo passati da un problema di prezzi a uno di disponibilità dei beni essenziali». Il default dello Sri Lanka di aprile ha evidenziato la rischiosità dei Paesi emergenti alle prese con debiti ingenti, crescita debole, inflazione in rialzo, dollaro forte e capitali “risucchiati” dai rialzi dei tassi nei mercati maturi (48 miliardi di dollari nei primi 6 mesi dell’anno). Secondo Bloomberg, quelli con debito sovrano a rischio sono 19: in ballo ci sono 900 milioni di persone e 237 miliardi di dollari di bond. E quando un Paese “salta” spesso gli investitori fuggono da quelli con problemi simili, accelerandone la caduta. Uno scenario molto preoccupante in un Paese come il Pakistan, dove una valuta sempre più debole, inflazione sopra  il 20% e 87,7 miliardi di dollari di debito rendono il compito del nuovo premier Shahbaz Sharif, succeduto al populista Imran Khan, particolarmente complicato. «Sharif – spiega Price – ha fama di essere un amministratore competente ed è il leader più adatto a chiedere dei sacrifici, ma il suo compito sarà reso ancora più difficile dall’opposizione di Khan e dall’impatto che la guerra in Ucraina e la recente ondata di caldo stanno avendo sul prezzo del grano. Un default di quelli che riducono del 20-30% il reddito procapite in Pakistan sarebbe devastante. Il problema di fondo è che le tasse le pagano in pochi e che le forze armate continuano ad assorbire una quota enorme del budget statale. Per il resto la lezione è la stessa dello Sri Lanka: se eleggi un populista poi devi vivere con le conseguenze». L’altra certezza è che il nuovo governo dovrà fare i conti con i miliardi di prestiti giunti da Pechino per la costruzione di una serie di progetti infrastrutturali che formano una delle ramificazioni della Belt and road initiative cinese. Pechino è il primo creditore bilaterale del Pakistan con 14,5 miliardi di dollari a cui vanno aggiunti quelli contratti con la State administration of foreign exchange cinese e quelli verso tre banche statali anch’esse cinesi. Un fardello appesantito da tassi d’interesse più alti della media e dalla lezione dello Sri Lanka, il cui ambasciatore a Pechino si dice «fiducioso che a un certo punto» i creditori cinesi concederanno nuovi prestiti. A che tassi e in cambio di cosa, non sarà lui a deciderlo.

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