STUPIDA RAZZA

martedì 5 luglio 2022

«Ci aspetta un ottobre nero: prezzi folli per mangiare male»

 

A citare Milton Friedman - consigliere di Margaret Thatcher e di Ronald Regan - in Italia si rischia di finire in una delle liste di proscrizione stilate per tenere a bada i dissenzienti. Atlantisti va bene, ma non esageriamo. Eppure il premio Nobel ci aveva visto lungo: «L’inflazione è sempre e comunque un fenomeno monetario: è prodotto solo da un aumento più rapido della quantità di moneta che della produzione». Eh già. Per anni tassi bassi e wh a - tever it takes, poi uno si sveglia e scopre che costa tutto un botto di più. «Siamo solo all’inizio, a ottobre sarà durissima, le imprese non ce la fanno più: devono per forza scaricare i maggiori costi». Il rischio è di pagare carissimo o di mangiare malissimo. Non è alternativa allettante. L’allarme viene da un manager solitamente molto misurato: Luigi Scordamaglia, calabrese di nascita, perugino di laurea, modenese per anni di «militanza» nell’a g roa - limentare. È stato anche presidente di Federalimentare, ma gli mancava qualcosa: l’origine dei prodotti. L’ha trovata in Filiera Italia, di cui è consigliere delegato, la prima vera alleanza tra campi e industria creata dall’incontro tra Coldiretti e le aziende d’e c c e l l e n za agroalimentare. Fa la spola tra Roma e Bruxelles perché si addensano nubi nere. «Sono appena tornato», dice Scordamaglia, «ed è stato un viaggio positivo. Con un folto gruppo di eurodeputati italiani abbiamo incontrato, come Coldiretti e Filiera Italia, il commissario all’agricoltura Janusz Wojciechowski per spiegargli il nostro inedito modello di filiera e chiedere misure che rafforzino la produzione agroalimentare italiana ed europea e compensino i danni da siccità e caro prezzi. Devo dire che il commissario è stato molto attento sia al modello italiano di filiera sia alle nostre proposte per difendere e rilanciare la produzione agroalimentare a vantaggio non solo dei produttori, ma dei consumatori. Stanno correndo seri rischi per un ulteriore inevitabile aumento dei beni di prima necessità e a causa delle importazioni da Paesi terzi di prodotti con standard qualitativi e di sicurezza più bassi». L’Europa ha smesso di essere matrig na? «Sul piano agroalimentare al di là del Farm to fork e della Pac che va rivista, c’è spazio per farsi ascoltare. Il conflitto su questo terreno va oltre l’Europa ed è generato da quelle poche multinazionali originate dalla Silicon Valley che vogliono appropriarsi dell’alimentazione globale omologandola. È una strategia studiata a tavolino per staccare il cibo dalla terra. Ci sono già le fabbriche di latte e carne sintetici, ci sono i beveroni proteici. Loro hanno fame dei profitti alimentari. Usano tutte le armi: ad esempio dire che la carne o l’agricoltura in generale sono nemici dell’a m bie nte » . In Europa con il Nutriscore, cioè l’etichettatura nutrizionale, non va però tanto meglio… «Vero, ma il Nutriscore si può combattere perché non è un sistema coretto d’informazione al consumatore. C’è in atto uno scontro di visione su cos’è il cibo e sulla qualità del cibo tra Nord e Sud Europa, ma il vero problema è che non c’è una strategia europea comune sulle vere emergenze a cominciare da quella energetica che sta letteralmente uccidendo le imp re s e » . Cosa si dovrebbe fare? «Il price cap sul gas è improcrastinabile. Non credo che sia facile imporre il prezzo, ma uno sforzo comune deve essere fatto. Bisogna fare le scorte comunque perché fermarsi costerebbe ancora di più, ma devi fare in modo che ad Amsterdam smettano di speculare. Su questo sono abbastanza pessimista: non vedo un’Eu ro pa unita pronta a condividere gli oneri che derivano dal comportarsi unitariamente. Non puoi impormi una coerenza politica e poi non essere pronto a condividere i debiti che servono a sostenere le famiglie, le imprese in un momento di così acuta emergenza. Se imponi le sanzioni che responsabilmente sono rispettate da tutti devi poi farti carico degli aiuti che rendano sopportabili queste sanzioni». Sul Green deal però la Commissione va dritta. Non è anche questa un’i m p o s i z io n e? «Vogliamo una transizione vera, non ideologica. Come Filiera Italia e Coldiretti avevamo fatto presente che fare una scelta unilaterale sull’auto elettrica o a idrogeno, tecnologia a alto consumo d’acqua e di là da venire, ci avrebbe condannato alla dipendenza da altri Paesi come la Cina. E che bisognava puntare sui biocarburanti che per l’agroalimentare rappresentano già oggi lo strumento ideale sia di azzeramento dei propri scarti sia per alimentare i mezzi agricoli e le flotte distributive. Dopo una resistenza iniziale ci hanno dovuto dare ragione: il Consiglio Ue li ha previsti premiando un know how italiano. Allo stesso tempo è inaccettabile sostenere che per la transizione verde si deve smettere di produrre. L’Italia dalla sua agricoltura ricava 64 miliardi di valore ed emettiamo 30 milioni di tonnellate di Co2, la metà dei tedeschi. Eppure ci hanno sbloccato 200.000 ettari, e solo per un anno, a fronte di una carenza alimentare spaventosa. Che ci faccio con un anno? Bisogna avere prospettive di lungo termine per permettere investimenti profittevoli». L’export però tiene, giusto? «Siamo stati al Fancy Food a New York e non abbiamo mai visto tanto interesse per i nostri prodotti come adesso. Il mondo comincia a capire la differenza tra falso e vero valore italiano. La situazione di mercato sarebbe favorevolissima. Anche negli Usa abbiamo spiegato che non si può cedere al cibo di sintesi, fatto in laboratorio, solo che noi non abbiamo i mezzi per contrastare la crociata globale che è stata scatenata dalle multinazionali. C’è un forte incremento nella percezione del valore d el l’italianità dell’a groa li me ntare, ma le nostre imprese non riescono a sostenerlo: i costi, a cominciare dall’energia, ci stanno uc c id e n d o » . Ma il ministro Daniele Franco ha detto che cresceremo di oltre il 3%... «Evidentemente ha cifre che a noi sfuggono. Abbiamo costi cresciuti del 30%, se non ci saranno riserve strategiche di gas sufficienti a ottobre si fermeranno gli impianti. Dovremo per forza scaricare aumenti consistenti sui beni di prima necessità. Abbiamo u n’impresa agricola su dieci che chiude e una su quattro nell’agroalimentare che non ha prospettive. La crescita la vedo dura » . Temete una crisi dei consumi? «La contrazione dei consumi è prevedibile perché i prezzi sono destinati a mantenersi alti altrimenti le imprese vanno in sofferenza e chiudono. Il pericolo più grave è che spariscano dalla dieta i prodotti indispensabili a una sana alimentazione. Servono interventi per plafonare i costi e per sostenere i beni di prima necessita a cominciare ad esempio dall’Iva . Altrimenti rischiamo, e sarebbe una tragedia anche dal punto di vista sanitario, che si arrivi a due standard alimentari in base alle disponibilità economiche: chi può mangia bene e campa a lungo, e chi non può mangia ciò che capita, magari prodotti d’i m po rta z ion e con standard di qualità e di salubrità inadeguati». L’Europa si straccia le vesti per la crisi alimentare globale e il grano dell’Ucraina. Non c’è una contrad d i z io n e? «Che il grano ucraino abbia delle ripercussioni è un dato incontrovertibile. Poi vanno misurate. Ma il punto vero è un altro: bisogna mettere i Paesi in condizione di svincolarsi dalle importazioni. Con Bonifiche Ferraresi - che attraverso l’integrazione produzione-trasformazione crea valore per migliaia di agricoltori riuscendo anche a convincere la finanza a investire - in partnership con Eni stiamo implementando in Africa il nostro modello che rende protagonisti gli agricoltori. Così si aumenta, in un quadro di sostenibilità, l’autoapprov vig ion am ento. Quella è la strada. Non certo quella indicata da una parte di Europa che vuole ridurre la produzione del 15% per poi aprirsi a importazioni di prodotti che non hanno i nostri standard di qualità e salubrità. È ora di finirla di pensare che ci sono pochi fortunati che accedono all’eccellenza e gli altri si arrangiano. È inaccettabile: la popolazione italiana, come quella mondiale tutta, va messa in condizione di accedere equamente al cibo». La siccità però non dà tregua. Siete preoccupati? «Sì, ma ci sarebbe anche di che essere arrabbiati. L’Italia rimane un Paese estremamente piovoso anche se le precipitazioni sono diseguali da zona a zona. Dal cielo cadono 305 miliardi di metri cubi di acqua ogni anno, noi ne raccogliamo appena l’11 %, venti anni fa eravamo al 15. Il progetto laghetti/invasi di Coldiretti che risolverebbe problemi irrigui ed energetici è fermo da 30 anni; è dagli anni Settanta che questo Paese non fa investimenti. Abbiamo smesso di estrarre il gas, non abbiamo fatto investimenti nella logistica, nei porti, non nelle energie e a fronte di questa crisi diciamo, con effetto Nimbi, no ai rigassificatori; se poi l’Europa ci rimprovera non ha tutti i torti. Sulla siccità è assurdo che non se ne comprenda la gravità. La situazione è prevista in peggioramento. La riduzione delle precipitazioni in Europa (a cominciare dall’Ungheria) da cui l’Italia importa molto del suo mais, unita alla carenza di fertilizzanti provocherà una drammatica caduta nella resa delle prossime produzioni di cereali. È assurdo il ritardo del decreto attuativo per dare immediato via libera all’utilizzo del digestato quale fertilizzante ideale frutto di vera economia circolare, già deciso dal governo su nostra richiesta, che salverebbe le coltiva z io n i » . Dunque non c’è speranza? «C’è molta più attenzione che in passato quando parliamo di agricoltura, di qualità alimentare, di forza economica di questo comparto. Quello che manca è la coere n za » .

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