STUPIDA RAZZA

giovedì 20 ottobre 2022

I rischi per un’Italia assuefatta al debito (e non agli investimenti)

 

C i sono un americano, un cinese, un tedesco e un italiano. Non è una barzelletta divertente e grossolana. È il futuro eccitante, complesso e pericoloso da cui dipenderanno guerra e pace, ricchezza e povertà, industria e consumi, tecnologia e libertà, potere e sottomissione. Nella nuova deglobalizzazione che avanza, c’è chi vince e c’è chi perde. Ogni slittamento produce un mutamento nelle scale degli equilibri. La decadenza dell’Occidente esiste, ma non è da tardo Romano Impero. L’ascesa dell’Asia è vigorosa, ma non è priva di criticità. Gli Stati Uniti Gli Stati Uniti sono gli Stati Uniti. Hanno Wall Street a New York, la Silicon Valley in California, Austin e Dallas in Texas (la frontiera di blockchain e data mining, più eversiva nei nuovi equilibri globali delle semplici criptovalute). Ma sono in affanno. L’affanno non è solo dovuto allo scontro con la Russia per l’Ucraina e con la Cina per Taiwan. La sua origine più antica è nel grasso accumulato, nei muscoli consumati e nel pensiero usurato della pax aurea della globalizzazione post caduta Muro di Berlino. L’affanno è tecno-manifatturiero e cultural-politico. Il pensiero è stato il Washington Consensus di origine reaganiana. L’applicazione politica il clintonismo. La realizzazione l’opera delle grandi imprese manifatturiere e tecnologiche americane, che hanno completato lo svuotamento delle fabbriche del Midwest e che hanno impiantato direttamente le loro fasi produttive in Asia, conformando catene globali del valore da cui hanno estratto valore aggiunto e costi industriali bassi. Lo sviluppo del Big Tech è stato fatto negli anni Novanta così. Allora si costruisce il rapporto ambiguo con i grandi fornitori, come l’americana Apple con la cinese Foxconn, che crea meccanismi di dipendenza strategica e tecnologica in cui you’ll find your servant is your master, il tuo servo può diventare il tuo padrone, come cantavano i Police in “Wrapped around your finger”. In quel momento si compone la fisiologia comune fra grande capitalismo americano e potere politico asiatico, in particolare cinese. Un intreccio nitidamente opaco. Con il rischio potenziale, appunto, di una inversione dei ruoli. Nel legame simbiotico fra la manifattura e il terziario avanzato americano e il neofordismo totalitario di fabbrica cinese, il clintonismo teorizza che l’ingresso della Cina nel 2001 nel Wto avrebbe comportato la diffusione in quel Paese di valori da democrazia elegantemente e retoricamente harvardiana: diritti civili, libertà individuali, libertà di impresa, pluralismo politico. Non è proprio andata così. Nella nuova deglobalizzazione che avanza gli Stati Uniti non hanno più la brutale egemonia tardo novecentesca. Perdono, ma hanno la sedimentazione tecnologica, la magnitudo finanziaria e la flessibilità economica, sociale e culturale per adattarsi e vincere in nuove, parziali, forme. La Cina La Cina è in ascesa costante dal 1979 (primo anno effettivo del potere di Deng Xiaoping, tre anni dopo la morte di Mao Zedong) e in accelerazione dal 2001. Nella geopolitica, con la costruzione di nuove aree di influenza in Africa, in Medio Oriente e nei Balcani. Nell’industria e nei commerci, con la rifocalizzazione funzionale delle catene globali del valore a suo favore in Asia, dove ha ridotto gli spazi del Giappone. Nel grado di condizionamento dei processi decisionali degli altri, come nel caso della cessione di sovranità tecnologica dell’Unione europea sull’auto elettrica. La personificazione è Xi Jinping, al terzo mandato come segretario generale del Partito comunista cinese. Il suo sostrato culturale e politico è il risultato della sequenza storica tracciata dall’invito all’arricchimento di Deng Xiaoping e proseguita dalla riproposizione del confucianesimo da parte di Jiang Zemin. Al ventesimo congresso del Pcc Xi Jinping ha detto che «lo sviluppo cinese offre all’umanità una nuova scelta per raggiungere la modernizzazione» e che «lo sviluppo di alta qualità è la priorità assoluta della costruzione di un Paese socialista moderno sotto tutti gli aspetti. Lo sviluppo è la priorità assoluta del partito nel governo. È impossibile costruire un Paese socialista moderno e forte in tutti gli aspetti senza solide basi materiali e tecnologiche». La propensione a una leadership internazionale più marcata, in cui la forza militare è un elemento preponderante, si misura con la solidità di un meccanismo politico in cui ogni cosa viene ricondotta alla monade del partito unico che è in grado – a livello teorico – di assorbire e rappresentare ogni istanza. La sua sfida penetra nella nuova deglobalizzazione che verrà e la modella, ponendola in rapporto con le dinamiche delle province e con la durabilità di un sistema in cui la violenza verso il singolo per dissenso politico e culturale è instrumentum regni. Il secondo elemento strutturale è più sottile, ma non meno decisivo, per quanto culturalmente più occidentale che asiatico: la credibilità, non interna ma internazionale, dell’informazione. Qual è il Pil cinese? Quanti morti ci sono stati a Wuhan? I numeri elaborati e diffusi dalla Cina non hanno la fiducia del mondo. Negli affari. Nella politica. Nei negoziati. Non è poco. Non funziona. Nel tempo dell’intelligenza artificiale e dei big data, il principio di autorità non è disgiunto dal riconoscimento dell’autorevolezza. Soprattutto se le controparti straniere – politiche e scientifiche, finanziarie e industriali – devono governare i processi. Nella nuova deglobalizzazione che avanza la Cina vince, ma il punto di equilibrio fra l’ascesa e la caduta è anche nella capacità culturale di fondare una pax cinese, in cui vi sia il riconoscimento da parte degli altri e non solo la loro sottomissione. La Germania Morte di una leadership annunciata. La nuova deglobalizzazione, nella accelerazione imposta dalla guerra in Ucraina, ha mostrato la natura della (non) guida tedesca in Europa. Il fondo nazionale da 200 miliardi di euro a favore delle sue imprese e delle sue famiglie svantaggia il resto d’Europa. Chissà se la Commissione europea presieduta da Ursula von der Leyen – nei governi tedeschi di Angela Merkel ministro della famiglia dal 2005 al 2009, del lavoro dal 2009 al 2013 e della difesa dal 2013 al 2019 – avrà da eccepire sull’effetto anticoncorrenziale di questa misura. In realtà, gli interessi economici nazionali tedeschi sono sempre stati considerati prioritari, al di là della retorica europeista e del desiderio di una classe dirigente italiana così debole da desiderare, a seconda delle situazioni, di vedere ingrandito quello che esisteva o di vedere anche quello che non esisteva. Fino alla pandemia, che è un punto di rimodulazione radicale delle global value chain e dei global production network, l’industria europea si è baricentrata sulla Germania. Una parte consistente di questa gerarchizzazione è stata finanziata dalla Germania con i profitti realizzati in Cina. Basta pensare alle politiche di prezzo delle case automobilistiche tedesche che, per anni, hanno avuto la primazia in Europa grazie ai soldi fatti in Cina. La dipendenza energetica dell’Europa dal gas russo, creata da una élite tedesca integrata nei percorsi professionali e reddituali proposti dalla Russia (l’ex cancelliere Gerhard Schröder è soltanto il trofeo più esibito dal potere moscovita), ha una controparte di finanza di impresa nella Cina. Nella nuova deglobalizzazione che avanza la Germania ha la struttura industriale e tecnologica per vincere di nuovo ma alla fine anche per perdere sempre, se persisterà nella rescissione dei legami strategici europei. L’Italia L’Italia reitera alcuni tratti del carattere economico e sociale nazionale. Ha una vivace piccola e media impresa, connessa in senso ancillare all’industria tedesca (meccanica e automotive) e francese (moda e agroalimentare), ma dotata di una internazionalizzazione della propria cultura e dei propri standard operativi in grado di plasmare positivamente il profilo degli imprenditori e dei lavoratori. Sconta l’incapacità di ricostituire pezzi della sua fisiologia: persa la grande impresa privata e pubblica, la crescita dimensionale si è bloccata e gli eredi dell’industria novecentesca si sono trasformati in proprietari di holding fiscalmente mobili e in rentier apolidi nel cuore, nella residenza e nella diversificazione di portafoglio. L’Italia è lontana dalle frontiere tecnologiche più avanzate. Ha la cultura del debito come regola. La sua cultura del debito pubblico è senza, peraltro, investimento pubblico. Perché l’investimento pubblico richiede visione. E nulla segna la classe dirigente italiana come l’autoreferenzialità, l’impulso alla interpretazione più deteriore della funzione pubblica come fonte di benessere personale e l’assenza di riferimenti internazionali, se non in forme di dipendenza funzionale. Nella nuova deglobalizzazione che avanza l’Italia perde quando sembra vincere e vince quando sembra perdere. Perde se ripete il suo tradizionale modello adattivo nei nuovi equilibri internazionali e si accomoda nella consueta cuccia tiepida offertale dagli altri. Vince se rinuncia alla finta prosperità della cultura del debito pubblico e alla retorica autoconsolatoria delle piccole e medie imprese che possono bastare a loro stesse.

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