STUPIDA RAZZA

lunedì 24 ottobre 2022

«Nomofobia»,ovvero la paura di essere soli, l’ansia che sta divorando i nostri adolescenti

 

I l sospetto di trovarmi di fronte a qualcosa di più profondo e spaventoso di una semplice, pessima abitudine mi è venuto quando ho sequestrato il telefono a T. e T. è impazzita. Le poche settimane da insegnante di Letteratura e Storia in un istituto professionale mi hanno subito reso consapevole che il telefono è un affare di difficilissima negoziabilità e la sua messa in discussione, anche per un tempo limitato, può portare a escalation inaspettate. Quando, dopo molti richiami, ho deciso di prendere in consegna il telefono di T., lei ha sgranato gli occhi, ha cominciato a ripetere in maniera ossessiva che non lo stava utilizzando, è venuta alla mia postazione e pretendeva di riaverlo. Se non lo avessi chiuso in un cassetto, con tutta probabilità, lo avrebbe ripreso. T. è tornata a posto continuando a dire, forse a me, forse a sé stessa, che non stava utilizzando il telefono, che era un’ingiustizia. Ha preso dei fogli e ci ha scarabocchiato su fortissimo, linee oblique che erano coltellate e quasi strappavano la carta, poi è uscita dalla classe senza chiedere, rientrando parecchi minuti dopo. Una piccola parte di me, sebbene fossi consapevole dell’assurdità della situazione, si è sentita in colpa: mi è sembrato di aver fatto violenza a T., ci sono stato male. Alla classe ho rivolto parole dure, tristi. Ho detto che somigliavano a dei tossici, che senza il telefono si comportano esattamente come tossici cui viene negata la dose. Dicevo a una classe di quindicenni che facevano paura, che mi facevano paura. Ho fatto un esperimento, prima di cominciare a scrivere questa riflessione. Volevo evitare di cadere nella trappola del boomer che osserva i giovani, non li capisce e lancia strali su una generazione intera. Niente de profundis, niente o tempora o mores. Ho passato la palla a loro, dichiarando il mio bisogno di sapere quel che passava loro per la testa, assegnando un tema: «Io e il digitale. Spiega il tuo rapporto col telefono, coi social network e quale importanza rivestono nella tua vita, personale e scolastica». La reazione me l’aspettavo: paura di guardarsi dentro, di scavare sotto la superficie, la sensazione di non avere nulla da dire. Anche l’esito, mi aspettavo: da dire, quando ci si mettono, hanno sempre molto. Tuttavia non mi sono sentito meglio, leggendo i temi: ne sono scaturite riflessioni a volte profondissime ma anche un quadro piuttosto desolante, una conferma delle mie impressioni che – e questo mi ha stupito – molto spesso corrispondevano alle loro. Usano il cellulare dalle tre, quattro, fino alle otto ore al giorno. Misurano il tempo di utilizzo, sono estremamente precisi: «Qualche volta – scrive L. – quando controllo le ore che passo al telefono, mi chiedo come sia possibile: eppure, come si fa a resistere all’illuminazione dello schermo del tuo smartphone?». Mi hanno parlato di un’app che invia una notifica solo per ricordarti di condividere una tua foto con la community, per dire ai tuoi amici dove sei e cosa stai facendo, assecondando l’ansia costante di dichiararsi esistenti agli altri: sono disponibile, raggiungibile, posso provartelo, e tu, voglio che anche tu sia disponibile, voglio sapere di poterti raggiungere. La parola “ansia” ricorre appunto spessissimo: «Veniamo colti dall’ansia quando sentiamo la frase “Il cliente non è al momento raggiungibile”; se non troviamo campo entriamo in crisi, cominciamo a cercarlo affannosamente». Ho notato un’altra cosa, leggendo: la sfera semantica del “sapere” è stata quasi del tutto sostituita da quella del “vedere”; non sto più sui social per sapere cosa sta facendo qualcuno, ma per guardare cosa sta facendo. Questo guardare costante, il costante giudicare e, di conseguenza, il desiderio di mostrare agli altri quanto crediamo gli altri si aspettino da noi, dà luogo a una inautenticità che è esperienza sociale, normalizzata, comune ma terrificante, perfino e, forse, soprattutto per loro: «Cosa siamo effettivamente dietro uno schermo, chi siamo in realtà? Come facciamo a sapere se dietro quella foto con un sorriso stampato in faccia ci sia una persona sola? Io stessa ho paura di vedere come diventeremo», scrive D. Vedere, appunto. Il tramite con cui si presentano alla collettività, il telefono, seppure generatore di un malessere scoperto, resta irrinunciabile non solo per poter vivere in società e confrontarsi alla pari con gli altri ma perfino per poter essere una persona “completa”: «Quando non ho il telefono vicino mi sento totalmente vuota, mi sento una persona che non ha niente da fare, la sua sola presenza mi fa sentire diversa». Ha un nome, la paura di restare senza smartphone: “nomofobia”. Sta per no mobile phone phobia. Anche quando sostengono di esercitare un certo controllo, lo smartphone rappresenta un’entità quasi dotata di volontà propria e in grado di condizionare, «come se fosse una parte del nostro corpo, come se fosse impossibile anche solo pensare senza accendere il display», una Medusa con cui ingaggiare una sofferta negoziazione, non già più uno strumento di facilitazione o intrattenimento consapevole: «Non deve essere il telefono a comandarmi – dichiara R. – devo essere io a comandare il mio telefono». Una frase di G. mi ha turbato moltissimo, era qualcosa a cui non avevo pensato: «La maggior parte dei miei ricordi è sui social network». B., invece, si chiede come sia possibile che in un mondo sostanzialmente inclusivo, lei e i suoi coetanei siano influenzati da algoritmi che funzionano, tra l’altro, in base alla bellezza fisica del creatore di contenuti; in base, dunque, a un ideale di bellezza imposto, irrealistico. Poi si risponde da sola, perché è vero anche questo: i giovani non hanno bisogno delle nostre risposte. Banalmente, ci arrivano da soli. «In fondo», scrive e a me viene un groppo in gola, «in fondo questa bellezza così irraggiungibile ci attira, perché siamo convinti che solo rientrando in quei canoni tossici potremo raggiungere un ideale di felicità».

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